6 – TARDA ORA
«E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?» domandò Luca dopo lunghi minuti di silenzio.
«Perché dovrebbe esserlo?» rispose Diego continuando a guardare fuori dal finestrino della Golf. Doveva sforzare gli occhi per vedere qualcosa al di là della fitta pioggia che da due giorni martellava la città e che smorzava la luce dell’unico lampione funzionante.
«Pensaci.»
Diego lo fece, più che altro per ingannare l’attesa.
Il Topo era stato sempre affidabile, molto di più di quello che ci si potrebbe aspettare da un confidente tossico. Aveva ripetuto due volte il luogo, il capannone dismesso al numero ventisette di via Salvo D’Acquisto. Sull’ora era stato più vago, ma questa era una sua caratteristica: non prima dell’una, non più tardi delle tre. Loro erano lì da dopo mezzanotte, a una cinquantina di metri dal capannone, nascosti dietro una rivendita di auto usate. Quasi tre ore e ancora nessun movimento. Però no, nessun imbroglio, decise.
Luca stava per dire qualcos’altro, ma il suo partner lo zittì alzando la mano: i fari di un’auto si avvicinavano. Passarono oltre il numero ventisette senza rallentare, un pappone o qualcuno in cerca di sesso a buon prezzo, la zona delle battone era distante solo un isolato.
«Sono quasi le tre, che dici?» Quella notte Luca aveva scelto di esprimersi soprattutto in forma interrogativa.
«Altri dieci minuti, fumati una sigaretta.»
«Le ho finite un’ora fa.»
«Aspettiamo le tre.»
Alle tre e un quarto Diego si arrese: «Metti in moto, andiamo a dormire. Affanculo.»
Luca non fece in tempo a girare la chiave d’accensione che i fari di due macchine sbucarono dalla curva e si fermarono davanti al capannone.
«Eccoli, cazzo!» esultò Diego.
Da ognuna delle due BMW scese un uomo che correndo sotto gli aghi di pioggia si infilò nel fabbricato da una porticina laterale. In quel breve lasso di tempo Diego riconobbe l’inconfondibile stazza di colui che stavano aspettando.
«Niente guardie del corpo, la cosa mi puzza» disse Luca.
«Già, è strano» rispose Diego mentre faceva scivolare il colpo in canna alla Beretta.
«Magari dentro c’è un esercito. Chiamiamo i rinforzi?»
Se gli sguardi avessero il potere di uccidere, Luca sarebbe morto in quel momento.
«Col cazzo! Pelé è mio e di nessun altro. Tantomeno del capitano Carrisi. E Pelé è in quel capannone insieme a uno dei suoi compratori. Ergo, io entro in quel capannone. Se vuoi venire accomodati, altrimenti resta all’asciutto e aspetta i rinforzi.»
«Prendo il fucile.»
L’interno del capannone era illuminato malamente da tubi al neon, incerti se restare accesi o no, e completamente vuoto, fatta eccezione per due poltrone di pelle lucida bordò che stridevano con i mucchi di sporcizia e detriti sparsi in ogni angolo. Su di esse erano seduti come su due troni gli uomini entrati poco prima, ancora gocciolanti. Non accennarono ad alzarsi neanche quando Diego intimò loro di mettere le mani sopra la testa, bene in vista.
Quello conosciuto come Pelé abbozzò invece un applauso: «Eccolo qua, il Serpico del quartiere! Grazie per avermi aspettato fino a questa tarda ora.»
«Io non farei tanto lo spiritoso, Pelé. Puoi chiamarmi come vuoi, resta il fatto che ti ho preso.»
«Sicuro?»
«Così sembra.»
Da un angolo buio alla sua destra arrivò una voce. Una voce che Diego conosceva bene: «Butta quell’arma, sbirro.»
Lui lo fece, prima di girarsi a guardare in faccia il Topo. Non l’aveva mai visto con una pistola e neanche con la mano così ferma. Realizzò che aveva parlato al singolare solo quando il suo partner gli puntò il fucile a pompa in mezzo agli occhi.
«Che succede, socio?»
«Te l’ho detto, se fosse tutto un gigantesco imbroglio?»
«Non capisco.»
«Non serve.»
E tirò il grilletto.
FINE
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