5 – La mattina dopo
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?” Davanti alla vetrina del calzolaio Enrico Previtali, dopo essersi fermato improvvisamente in preda al dubbio, fissava un mocassino marrone appena risuolato, mentre con l’indice destro si grattava dietro l’orecchio, come faceva sempre nei momenti in cui era soprappensiero. Si era alzato presto quella mattina, ma in quanto a dormire, la sera prima non aveva chiuso occhio. E la notte l’aveva passata con lo sguardo perso tra le ombre della camera. Poi c’era stata l’incursione della zanzara, che aveva ronzato per ore intorno al suo orecchio. Alla fine era riuscito a centrarla. Almeno era stata una distrazione. Per il resto la notte era trascorsa lentissima, nella continua rievocazione della giornata precedente. Per migliaia di volte aveva rivissuto, come in un film, la scena di cui era stato protagonista in quell’ufficio. E aveva provato ad analizzare ogni istante, a ricordare le parole ascoltate e pronunciate. Alla fine, esasperato, aveva deciso di alzarsi alle prime luci dell’alba.
Così aveva camminato per un’ora dalla periferia al centro, dove adesso ricominciava la vita. Qualcuno prendeva il caffe, altri acquistavano il giornale. Un’atmosfera torpida e caliginosa avvolgeva le strade del centro.
Poi era arrivato, come un flash, quel pensiero molesto. Già, e se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Via, perché poi gigantesco? Un imbroglio è un imbroglio, e non è una questione di dimensioni, dato che, se imbroglio significa faccenda o situazione equivoca, che differenza ci può essere.
Su questo punto si era fermato davanti alla vetrina ancora chiusa, per un istante con il piede sollevato in un imperfetto equilibrio, immerso nella contemplazione del mocassino marrone.
Fino a che aveva sentito una voce imperiosa a lui famigliare.
“Buongiorno professore, è ancora presto, il negozio apre alle nove”.
” Buongiorno avvocato, la ringrazio ma mi sono fermato per caso. Belli quei mocassini, lei cosa ne dice?”
L’Avvocato lo squadrò senza rispondere.
“Non fa niente- continuò il professore-era semplicemente una considerazione.”
“Non c’è di che”, rispose l’altro, e con un guizzo si spostò passando sull’altro lato del marciapiede.
Poi lo salutò cordialmente e riprese la sua strada.
Un attimo dopo anche lui era di nuovo in cammino.
Aveva deciso di ritornare sui suoi passi, per raggiungere l’ufficio tributi, in attesa dell’apertura, per essere il primo. Per dirimere la questione.
Alle nove e trenta si era trovato primo davanti ad una fila di persone corrucciate e poco inclini alla conversazione, pronto per entrare al minimo segnale.
Così appena la porta venne socchiusa si fece strada a spallate tra gli impiegati.
Raggiunse l’ufficio principale, quello del funzionario che l’aveva ricevuto il giorno prima, un giovane sui trent’anni dal volto butterato e dai capelli giallicci, a cui aveva chiesto informazioni riguardo ad alcune cartelle esattoriali. Ricordava perfettamente che ad un certo punto gli era sembrato di conoscerlo, di averlo già visto e glielo aveva chiesto. Lui non aveva alzato gli occhi dalla scrivania e senza rispondere, in modo quasi maleducato, aveva continuato a scorrere la cartella, fino a che aveva intravisto il possibile errore. Quindi, risolto il problema, lo aveva congedato in modo abbastanza brusco con la scusa della coda di gente dietro che aspettava.
E lui si era sentito, per così dire offeso. Anche se, per essere sinceri, il giovane era apparso competente e sicuro di sé, mentre computava velocemente le cifre sul suo piccolo calcolatore. Alla fine, in quattro e quattr’otto, aveva risolto il problema. Ma il modo con cui gli aveva detto “vada, vada”, non gli era proprio andato giù. Infine c’era quell’ultimo rovello che l’aveva tormentato tutta la notte. Il nome, il nome…il nome.
“Bertoletti!”, la voce del professore risuono nell’ufficio ancora vuoto.
“Cercava me?”. L’impiegato del giorno prima era apparso dietro di lui e lo guardava sospettoso.
“Allora lei è proprio quel Bertoletti?”
Poi, senza dargli il tempo di dire niente, girò sui tacchi e facendosi strada tra la gente assiepata nel corridoio si diresse all’uscita.
Bertoletti- pensava tra sé sulla strada di casa- era stato uno dei suoi peggiori allievi, svogliato, irritante, lavativo. Per fortuna era stato respinto in seconda e aveva cambiato scuola. Non l’aveva più rivisto ma ricordava ancora certi suoi strafalcioni, certi errori grossolani di ortografia e sintassi. Braccia rubate all’agricoltura.
Ed ora, stranamente, aveva fatto carriera, ed era lì a dirigere un ufficio comunale, a fare conti complicati, a sbrigare questioni importanti!
Non poteva essere, doveva esserci sotto un imbroglio sicuramente, un gigantesco imbroglio.
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