E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Sinceramente non ho mai creduto alla tesi del complotto. Ma dopo aver letto quel quaderno inzuppato di lacrime, il dubbio mi assale, costringendomi a guardare in faccia quel ragazzo così giovane e brillante. Liang nacque a New York grazie a suo padre Yuan, che era scappato dalla Cina tenendosi per mano con la sua innamorata, Akame. Yuan, con il sudore della sua fronte riuscì a farsi scivolare addosso tutte i pregiudizi degli isolani di Manhattan, aprendo in Canal Street la bottega di famiglia. Quella bottega che permise a Liang di poter studiare laureandosi ad Harvard e con pieni voti in Epidemiologia Generale. A Roma conseguì il suo Master in Ricerca e Sviluppo di malattie virali e all’ombra del Colosseo conobbe l’amore della sua vita. Sabrina si innamorò di lui perdutamente grazie a quel cappuccino versato sulla sua gonna. Da quel giorno i due giovani si sono amati senza mai lasciarsi, fino a che Antonio Ferrari diede l’inizio al loro idillio. Antonio era il capo progetto del suo ufficio ed, affascinato dalla capacità intellettuale di Liang, volle raccomandarlo a Lawrence Erhardt, ricercatore scientifico nonché nipote del fondatore della Pfizer. Liang venne convocato per la sua grande occasione che lo attendeva al punto di partenza, New York. Così Liang riempì la sua valigia di gioia e tornò nella sua New York insieme a Sabrina. I due innamorati misero su famiglia e comprarono casa nello stesso quartiere dei genitori, quei mesi furono l’apice della loro felicità. Le qualità del giovane ricercatore convinsero il Dottor Erhardt che fosse la persona giusta al momento giusto, così una mattina lo convocò nel suo ufficio per una missione delicata: <<Abbiamo un problema in un nostro laboratorio di Wuhan, li ci sono dei tuoi colleghi piantati, da troppo tempo ormai, nella ricerca di isolare un DNA di un virus creato in laboratorio. Quel Progetto ci sta costando una montagna di soldi. Vorrei nominarti capo progetto, sono convinto che il tuo apporto sbloccherà il lavoro dei tuoi colleghi.>> Liang accetta entusiasta, quella nuova missione fa brillare i suoi occhi di gioia tra le lacrime di Sabrina che deve rimanere sull’isola insieme ai suoi genitori in attesa che termini questa sua nuova missione. Al suo arrivo in Cina, Liang avverte una strana sensazione, sente l’odore di quelle catene da cui scappò suo padre. Un autista lo attende in sala d’aspetto per portarlo in albergo, ma lui è uno stacanovista e vuole andare subito in laboratorio per presentarsi ai colleghi. Quello che trova in laboratorio lo lasciò interdetto. Entrò subito nel merito della ricerca, volle vedere i dati aggiornati e capì che il DNA del virus in realtà era già stato isolato, a quel punto volle capire il vero motivo del suo trasferimento. Chiamò il Dottor Erhardt in cerca di chiarimenti. Lawrence, scusandosi per l’inganno, gli spiegò che la sua vera missione era un’altra: <<Devi creare il vaccino per quel virus, ma nessuno e dico nessuno deve saperlo>>. Liang, non si mise a discutere, per quanto fosse intelligente e preparato, era totalmente disarmato difronte agli inganni e alle schifezze che la mente umana concepisce al fine di dominare il mondo. Il Dottor Cheng si mise subito a lavoro e dopo tre mesi di notevoli passi avanti su quella strada che percorreva con il fare furtivo di un ladro, entusiasta chiamò Lawrence per comunicargli di aver portato a termine il suo delicato incarico, Erhardt si congratulò con lui: <<Bravissimo Liang. Meriti un super bonus… Ti ho prenotato una camera all’InterContinental con lo Champagne in fresco e una splendida signorina con cui festeggiare la tua scoperta>>! Liang non volle approfittare di lei, andò da solo in albergo per gustarsi la ricompensa. Il 21 febbraio del 2019 Liang muore, stroncato da uno strano infarto. Liang non rispettò il patto con Lawrence, inviando a Sabrina un quaderno con impressa l’evoluzione scientifica di quei tre mesi di ricerca a Wuhan. Il giorno della sua morte quel vaccino che aveva scoperto valeva pochi Dollari.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?” pensava Lucilla per ogni nuova proposta pubblicitaria che arrivava puntualmente sul suo cellulare o quando vedeva sul banco dei surgelati uno sconto troppo esagerato e non si fidava neppure dei saldi. Tutti avanzi di magazzino! Eppure, anche per una persona smaliziata come lei l’inganno era sempre in agguato.
Lucilla, come al solito, dopo cena si concedeva un breve giro di ricognizione sul suo diario in Facebook, sia per tenersi aggiornata ma, soprattutto per conciliare il sonno. Infatti, la sua pagina era un mortorio: foto di paesaggi, aforismi senza capo né coda, cani, ricette… Uffa!
Ma, proprio quando la palpebra stava per chiudersi, il suo sguardo con un guizzo si ravvivò di colpo. Accidemboli “È stata trovata l’acqua sulla Luna” e tutte le prestigiose multinazionali stavano facendo a gara per installare i propri pozzi di trivellazione, per inviarvi le astronavi- cisterna e trasportare il prezioso liquido nei loro impianti di imbottigliamento. Le potenze mondiali si erano spartite il territorio lunare fino all’ultimo granello di sabbia.
Un litro di acqua lunare, continuava l’articolo, costava più del petrolio, più dell’oro o più di un introvabile champagne d’annata.
Era l’affare del secolo, macché… del millennio!
Ovunque miliardari annoiati avevano iniziato a prenotare le prestigiose bottiglie per la propria collezione; i ristoranti più rinomati le avevano inserite nel proprio menù. La Terra era in delirio e la vita sembrava inutile per chi almeno una volta non avesse inumidito le labbra con quel raro nettare. L’analisi dell’acqua lunare aveva evidenziato particolari proprietà curative, una sorta di panacea. Anche la Chiesa aveva fiutato l’affare e aveva ordinato delle acquasantiere a gettone per mondare qualsivoglia peccato. Era diventata indispensabile per la preparazione di pozioni ed amuleti… Insomma, si prospettava una rivoluzione culturale ed economica paragonabile alla scoperta dell’America.
Una rinomata ditta francese aveva messo in vendita delle bottiglie mignon per consentire anche ai meno abbienti di godere di tale opportunità.
In fondo all’articolo occhieggiava un link, Lucilla dopo averlo premuto si ritrovò nella vetrina di tale ditta poeticamente battezzata “Au claire de la lune”. I prezzi erano esorbitanti. La più abbordabile costava l’equivalente del suo mensile.
Lucilla presa dalla frenesia di prendere parte alla Storia, decise di rinunciare al suo tanto agognato viaggio a Venezia, frutto dei risparmi di un decennio di fatiche e di umiliazioni trascorse a lavare le scale dei signori. Quella sarebbe stata la sua grande soddisfazione, il trofeo da esibire alle amiche in visita ogni fine settimana, il tesoro da custodire dentro l’inutile cassaforte in soggiorno. Altro che quell’insulso Armani della sua amica Gloria! Senza ulteriori indugi compilò il coupon, inviò l’ordinazione e svuotò più rapidamente di quanto l’avesse riempita la sua misera carta di credito.
Aspettò il suo arrivo con l’ansia e la trepidazione di una donna in gravidanza. Quando sentì il campanello corse per aprire la porta al futuro. La sua adorata bottiglietta ora faceva bella mostra sul ripiano centrale dell’armadio, bene in vista dal divano posto di fronte.
Era meraviglioso dopo una lunga giornata di dura fatica, sedersi là ad ammirarla come un quadro di Degas, scoprendo ogni volta nuove sfumature. Dopo una settimana di contemplazione cominciò ad elettrizzarsi immaginando di poterla assaggiare. La notte si girava e si rigirava nel letto tentata da questo nuovo gioco erotico, ma desisteva per timore di farne perdere il suo valore in caso di una sua rivendita. Poi, come accade in ogni classica storia d’amore, la poveretta non resistette alla curiosità, ma quando bagnò le labbra rimase esterafatta… al gusto non aveva nulla di speciale, sembrava comune acqua di rubinetto con quell’inconfondibile odore di disinfettante. Fu allora che crollarono le sue convinzioni e un dubbio l’assalì:” Se tutto fosse un gigantesco e maledetto imbroglio?”.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? E se avesse ragione la bestia? Dio bono, guarda cosa mi metto a pensare…Eppure, eppure, per quel siriano, almeno per quel siriano, la bestia e i fascisti hanno avuto ragione (Attenti, ci stanno fregando, ci stanno invadendo, con la scusa di fuggire da guerre e miseria occupano interi quartieri, li fanno diventare zone off limits dove nemmeno la polizia può entrare, dove si parla unicamente le loro lingue, si mangiano solo i loro cibi. E questo è il meno…). Già, perché quel siriano una volta arrivato a Lampedusa qualcuno nel centro di prima accoglienza l’ha perso. L’hanno ritrovato i francesi, a Lione, ieri mattina, mentre si faceva esplodere urlando Allah Akbar nella chiesa di Saint-Nizier…”
“A cosa stai pensando?”
“A quel kamikaze che si è fatto esplodere ieri mattina in quella chiesa di Lione. Sono morte sei persone, una era una donna incinta…”
Alzo gli occhi, verso di lei.
La intravedo appena, di spalle, appoggiata alla ringhiera del terrazzino, mentre il vento notturno mi consegna l’odore acre della campagna e il canto dei grilli e il profumo, lieve, del suo corpo appesantito dalla gravidanza e il fruscio della veste che sa di lavanda.
Oltre, sopra la campagna, sopra il campanile, una stellata come non si vedeva da mo’
Con un brivido, mi chiedo quale sia, tra tutte quelle luci, Sirio.
FINE
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
Questo è ciò che da ore si chiedeva Alessia. Da quando quella mattina aveva parlato al telefono con la sua amica di vecchia data, Sara.
“Ti tradisce, te lo dicevo che non poteva essere così perfetto”
Alessia non voleva crederci; lei ci era già passata ed era stufa di uomini che la prendevano in giro con bugie e tradimenti. Aveva ormai perso la speranza, quando conobbe Marco.
Fu subito rapita dai modi gentili di quel ragazzo e non passò molto tempo che se ne innamorò, sempre più convinta che fosse unico. Fu felicissima quando Marco si dichiarò e lo fu ancora di più il giorno che lui le propose di convivere. Era davvero la storia perfetta, e lui era davvero il ragazzo perfetto.
O almeno così credeva.
E’ bastato poco per far crollare tutto. Un profumo. Un profumo di donna, non suo.
Alessia tentò di non saltare a conclusioni affrettate, ma del profumo femminile sulla tuta da fitness era troppo sospetto. I pensieri si facevano sempre più confusi e la sola spiegazione possibile si faceva largo nella sua mente: Marco la tradiva.
La testa le scoppiava, le gambe iniziarono a tremare e il respiro era sempre più affannato.
Alessia pensò di collassare, ma il telefono iniziò a squillare, riportandola di colpo in sé.
Era Sara.
Amiche fin dall’ asilo, non avevano segreti l’ una per l’ altra, così Alessia le raccontò della sua terribile scoperta e Sara diede conferma alle sue paure.
“Ale, potrei capire fosse su una camicia, o sulla giacca, sai, qualche collega al lavoro. Ma del profumo sulla tuta con cui va a correre, è troppo strano. Ti tradisce, te lo dic…”
Il resto della frase, anzi dell’ intera chiamata dopo quelle parole, non la sentì neanche.
Possibile che persino Marco fosse quel genere di uomo? Uno di quelli che tradiscono, mascherando questa natura dietro a tanta gentilezza e affetto?
No, non l’ aveva mai nemmeno sospettato, ma ora ne era sicura.
Alessia trascorse l’ intera giornata a pensare ad ogni regalo, ogni appuntamento, ogni singola frase d’ amore ed iniziò a disgustarsi di quanto falso potesse essere quell’ uomo. Tutte quelle attenzioni non erano fatte col cuore, ma mosse da stratega per abbindolarla. Un gigantesco specchio per le allodole per tenerla buona e non farle sospettare nulla.
I viaggi di lavoro, la serata con gli amici, gli straordinari in ufficio e la palestra.
Già, la palestra che non aveva voluto cambiare, anche se con la convivenza si erano trasferiti dalla parte opposta della città.
“Vado lì da anni, tesoro. Mi dispiacerebbe lasciarla” disse a suo tempo.
E ora Alessia aveva finalmente compreso il perché. Era stato tutto un gigantesco imbroglio.
Marco rincasò la sera tardi e Alessia lo aspettava in cucina, china sul lavabo per dargli le spalle.
Non intendeva assolutamente far finta di niente, né cercare di coglierlo in fallo: lei non era bugiarda come lui.
Gli disse che sapeva tutto e che lo voleva fuori di casa e dalla sua vita. Ovviamente lui negò, arrivando a piangere. Le sue parole erano insopportabili. Alessia ne era disgustata e sempre più furiosa.
“Ti amo, tesoro” disse Marco, tentando di abbracciarla.
Era troppo.
Fu un attimo. Afferrò la caffettiera nel lavabo, si girò di scatto e, gridando “Basta!”, lo colpì.
Marco cadde a terra e lì rimase immobile.
Alessia lo fissò, vide che non respirava, non si muoveva, poi del sangue scorre sul pavimento. Aveva colpito la tempia. Marco era morto.
Passarono ore e lei era ancora bloccata, inorridita, ma ripeteva a se stessa che lui se lo meritava.
D’ un tratto le vibrò il cellulare, era un messaggio di Sara.
“Ale, Gianni, mi ha spiegato tutto. Lui e Marco erano andati insieme in profumeria, perché voleva prenderti la fragranza che ami tanto. Voleva che la usassi al matrimonio. Ti vuole sposare! Lavorava tanto per affrontare le spese. E noi che pensavamo male, poverino. Leggi subito, prima di fare una scenata quando rientra, e dimmi come te l’ ha chiesto. Ciao”
Alessia cadde sulle ginocchia, e scoppiò a piangere.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?” Davanti alla vetrina del calzolaio Enrico Previtali, dopo essersi fermato improvvisamente in preda al dubbio, fissava un mocassino marrone appena risuolato, mentre con l’indice destro si grattava dietro l’orecchio, come faceva sempre nei momenti in cui era soprappensiero. Si era alzato presto quella mattina, ma in quanto a dormire, la sera prima non aveva chiuso occhio. E la notte l’aveva passata con lo sguardo perso tra le ombre della camera. Poi c’era stata l’incursione della zanzara, che aveva ronzato per ore intorno al suo orecchio. Alla fine era riuscito a centrarla. Almeno era stata una distrazione. Per il resto la notte era trascorsa lentissima, nella continua rievocazione della giornata precedente. Per migliaia di volte aveva rivissuto, come in un film, la scena di cui era stato protagonista in quell’ufficio. E aveva provato ad analizzare ogni istante, a ricordare le parole ascoltate e pronunciate. Alla fine, esasperato, aveva deciso di alzarsi alle prime luci dell’alba.
Così aveva camminato per un’ora dalla periferia al centro, dove adesso ricominciava la vita. Qualcuno prendeva il caffe, altri acquistavano il giornale. Un’atmosfera torpida e caliginosa avvolgeva le strade del centro.
Poi era arrivato, come un flash, quel pensiero molesto. Già, e se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Via, perché poi gigantesco? Un imbroglio è un imbroglio, e non è una questione di dimensioni, dato che, se imbroglio significa faccenda o situazione equivoca, che differenza ci può essere.
Su questo punto si era fermato davanti alla vetrina ancora chiusa, per un istante con il piede sollevato in un imperfetto equilibrio, immerso nella contemplazione del mocassino marrone.
Fino a che aveva sentito una voce imperiosa a lui famigliare.
“Buongiorno professore, è ancora presto, il negozio apre alle nove”.
” Buongiorno avvocato, la ringrazio ma mi sono fermato per caso. Belli quei mocassini, lei cosa ne dice?”
L’Avvocato lo squadrò senza rispondere.
“Non fa niente- continuò il professore-era semplicemente una considerazione.”
“Non c’è di che”, rispose l’altro, e con un guizzo si spostò passando sull’altro lato del marciapiede.
Poi lo salutò cordialmente e riprese la sua strada.
Un attimo dopo anche lui era di nuovo in cammino.
Aveva deciso di ritornare sui suoi passi, per raggiungere l’ufficio tributi, in attesa dell’apertura, per essere il primo. Per dirimere la questione.
Alle nove e trenta si era trovato primo davanti ad una fila di persone corrucciate e poco inclini alla conversazione, pronto per entrare al minimo segnale.
Così appena la porta venne socchiusa si fece strada a spallate tra gli impiegati.
Raggiunse l’ufficio principale, quello del funzionario che l’aveva ricevuto il giorno prima, un giovane sui trent’anni dal volto butterato e dai capelli giallicci, a cui aveva chiesto informazioni riguardo ad alcune cartelle esattoriali. Ricordava perfettamente che ad un certo punto gli era sembrato di conoscerlo, di averlo già visto e glielo aveva chiesto. Lui non aveva alzato gli occhi dalla scrivania e senza rispondere, in modo quasi maleducato, aveva continuato a scorrere la cartella, fino a che aveva intravisto il possibile errore. Quindi, risolto il problema, lo aveva congedato in modo abbastanza brusco con la scusa della coda di gente dietro che aspettava.
E lui si era sentito, per così dire offeso. Anche se, per essere sinceri, il giovane era apparso competente e sicuro di sé, mentre computava velocemente le cifre sul suo piccolo calcolatore. Alla fine, in quattro e quattr’otto, aveva risolto il problema. Ma il modo con cui gli aveva detto “vada, vada”, non gli era proprio andato giù. Infine c’era quell’ultimo rovello che l’aveva tormentato tutta la notte. Il nome, il nome…il nome.
“Bertoletti!”, la voce del professore risuono nell’ufficio ancora vuoto.
“Cercava me?”. L’impiegato del giorno prima era apparso dietro di lui e lo guardava sospettoso.
“Allora lei è proprio quel Bertoletti?”
Poi, senza dargli il tempo di dire niente, girò sui tacchi e facendosi strada tra la gente assiepata nel corridoio si diresse all’uscita.
Bertoletti- pensava tra sé sulla strada di casa- era stato uno dei suoi peggiori allievi, svogliato, irritante, lavativo. Per fortuna era stato respinto in seconda e aveva cambiato scuola. Non l’aveva più rivisto ma ricordava ancora certi suoi strafalcioni, certi errori grossolani di ortografia e sintassi. Braccia rubate all’agricoltura.
Ed ora, stranamente, aveva fatto carriera, ed era lì a dirigere un ufficio comunale, a fare conti complicati, a sbrigare questioni importanti!
Non poteva essere, doveva esserci sotto un imbroglio sicuramente, un gigantesco imbroglio.
«E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?» domandò Luca dopo lunghi minuti di silenzio.
«Perché dovrebbe esserlo?» rispose Diego continuando a guardare fuori dal finestrino della Golf. Doveva sforzare gli occhi per vedere qualcosa al di là della fitta pioggia che da due giorni martellava la città e che smorzava la luce dell’unico lampione funzionante.
«Pensaci.»
Diego lo fece, più che altro per ingannare l’attesa.
Il Topo era stato sempre affidabile, molto di più di quello che ci si potrebbe aspettare da un confidente tossico. Aveva ripetuto due volte il luogo, il capannone dismesso al numero ventisette di via Salvo D’Acquisto. Sull’ora era stato più vago, ma questa era una sua caratteristica: non prima dell’una, non più tardi delle tre. Loro erano lì da dopo mezzanotte, a una cinquantina di metri dal capannone, nascosti dietro una rivendita di auto usate. Quasi tre ore e ancora nessun movimento. Però no, nessun imbroglio, decise.
Luca stava per dire qualcos’altro, ma il suo partner lo zittì alzando la mano: i fari di un’auto si avvicinavano. Passarono oltre il numero ventisette senza rallentare, un pappone o qualcuno in cerca di sesso a buon prezzo, la zona delle battone era distante solo un isolato.
«Sono quasi le tre, che dici?» Quella notte Luca aveva scelto di esprimersi soprattutto in forma interrogativa.
«Altri dieci minuti, fumati una sigaretta.»
«Le ho finite un’ora fa.»
«Aspettiamo le tre.»
Alle tre e un quarto Diego si arrese: «Metti in moto, andiamo a dormire. Affanculo.»
Luca non fece in tempo a girare la chiave d’accensione che i fari di due macchine sbucarono dalla curva e si fermarono davanti al capannone.
«Eccoli, cazzo!» esultò Diego.
Da ognuna delle due BMW scese un uomo che correndo sotto gli aghi di pioggia si infilò nel fabbricato da una porticina laterale. In quel breve lasso di tempo Diego riconobbe l’inconfondibile stazza di colui che stavano aspettando.
«Niente guardie del corpo, la cosa mi puzza» disse Luca.
«Già, è strano» rispose Diego mentre faceva scivolare il colpo in canna alla Beretta.
«Magari dentro c’è un esercito. Chiamiamo i rinforzi?»
Se gli sguardi avessero il potere di uccidere, Luca sarebbe morto in quel momento.
«Col cazzo! Pelé è mio e di nessun altro. Tantomeno del capitano Carrisi. E Pelé è in quel capannone insieme a uno dei suoi compratori. Ergo, io entro in quel capannone. Se vuoi venire accomodati, altrimenti resta all’asciutto e aspetta i rinforzi.»
«Prendo il fucile.»
L’interno del capannone era illuminato malamente da tubi al neon, incerti se restare accesi o no, e completamente vuoto, fatta eccezione per due poltrone di pelle lucida bordò che stridevano con i mucchi di sporcizia e detriti sparsi in ogni angolo. Su di esse erano seduti come su due troni gli uomini entrati poco prima, ancora gocciolanti. Non accennarono ad alzarsi neanche quando Diego intimò loro di mettere le mani sopra la testa, bene in vista.
Quello conosciuto come Pelé abbozzò invece un applauso: «Eccolo qua, il Serpico del quartiere! Grazie per avermi aspettato fino a questa tarda ora.»
«Io non farei tanto lo spiritoso, Pelé. Puoi chiamarmi come vuoi, resta il fatto che ti ho preso.»
«Sicuro?»
«Così sembra.»
Da un angolo buio alla sua destra arrivò una voce. Una voce che Diego conosceva bene: «Butta quell’arma, sbirro.»
Lui lo fece, prima di girarsi a guardare in faccia il Topo. Non l’aveva mai visto con una pistola e neanche con la mano così ferma. Realizzò che aveva parlato al singolare solo quando il suo partner gli puntò il fucile a pompa in mezzo agli occhi.
«Che succede, socio?»
«Te l’ho detto, se fosse tutto un gigantesco imbroglio?»
«Non capisco.»
«Non serve.»
E tirò il grilletto.
FINE
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
A questo pensò mentre, con sguardo assorto, guardava il laboratorio che si estendeva oltre la porta a vetri.
Del resto non era la prima volta… ma sarebbe stata l’ultima!
In pochi erano a conoscenza della sua ossessione, del suo scopo ultimo nella vita; e, di quei pochi, pochissimi non lo prendevano in giro per quell’assurda idea!
Chiuse gli occhi ripensando, per la millesima volta in quella giornata, a quanti torti, scherzi e insulti aveva subito durante la sua personale ricerca.
Quanti imbroglioni avevano incrociato la sua strada nel tentativo di frodarlo! E spesso, almeno agli inizi, ci erano riusciti.
Col tempo era diventato meno avventato e prima di buttarsi a capofitto in qualche progetto si poneva la domanda che ormai era diventata il mantra della sua vita: “E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
Ormai, del resto, anche lui riusciva ad imbrogliare gli altri col suo stile di vita.
Nascondeva benissimo la sua ossessione; era riuscito a far credere a tutti che ormai era “guarito”. Si era fatto strada negli affari fino ad arrivare a possedere quell’azienda, nella quale aveva fatto costruire il suo laboratorio.
Aveva stretto rapporti importanti nella vita sociale, cosa che gli permetteva una certa eccentricità. Era ricco e ben inserito socialmente, poteva permettersi lunghi viaggi in luoghi insoliti; fare costosi, inutili ed assurdi acquisti.
Libri antichi scritti in lingue morte e perdute che nessuno, sembrava, sarebbe mai riuscito a decifrare.
Strani oggetti dall’uso incomprensibile, quasi per tutti.
Ma per “compensare” questi strani acquisti aveva case personali in quattro stati europei, macchine sportive e non, yacht, aveva anche ventilato l’idea di voler acquistare un elicottero!
La sua vita pubblica era tutta un gigantesco imbroglio!
Aprì gli occhi e tornò a guardare il laboratorio.
Era stato costruito e arredato con il meglio che la tecnologia e la scienza del momento potessero offrire: computer talmente sofisticati che riportavano in vita le lingue morte, tecnologie che rendevano comprensibile l’utilizzo di qualsiasi oggetto di qualsiasi epoca.
Aveva fatto passi da gigante nella sua ricerca, tanto che ormai non aveva più bisogno di assoldare collaboratori; li creava lui stesso in quel laboratorio.
Tutto il personale era ormai composto da homunculus nati grazie ad una “ricetta” trovata in uno di quei libri antichi.
Ricette! Ormai, nei tempi moderni, anche l’alchimia era solo una questione di precise pesate e giuste miscelazioni, e forse era sempre stato così!
Niente fornaci roventi, nessuna esplosione improvvisa! Altri sotterfugi, altri imbrogli!
Comunque aveva imparato, passando da truffa a truffa, da fallimento a fallimento, da imbroglio a imbroglio.
Aveva capito quando una notizia era fondata, quando una ricetta poteva essere realizzabile, quando una ricerca doveva essere iniziata. Era diventato un Alchimista!
Un Alchimista moderno, ricco, laureato e vecchio.
Ed invecchiando la sua ossessione non si era stemperata, anzi era successo esattamente l’opposto.
E adesso era li, davanti ad una ricetta che considerava “giusta”, che non sembrava un imbroglio. Trovata in un libro che gli era stato venduto da una persona che gli sembrava onesta, non un imbroglione, ma un disperato in cerca di soldi per mangiare.
La pietra filosofale! La ricetta della vera pietra filosofale!
Non quella che trasforma tutto in oro, no! Di quella non avrebbe saputo che farsene!
La pietra filosofale che trasforma la vita!
Da una vita breve e faticosa ad una vita senza fine! La vita eterna!
Questo il vero scopo della sua ricerca, questo il vero scopo dell’alchimia!
La trasmutazione dell’essere umano! Tutto il resto un gigantesco imbroglio per gli allocchi, gli incompetenti, gli ignoranti.
Uno degli homunculus richiamò la sua attenzione, tutto era pronto per cominciare.
Non ci sarebbero stati altri tentativi. Era troppo vecchio per fallire ancora!
Indossò il camice ed entrò nel laboratorio.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
Le parole di suo fratello Josè le esplosero dentro.
Le lacrime iniziarono a scendere da sole.
La ragazza che la stava truccando si fermò infastidita.
“Non piangere cazzo, che ti cola tutto.”
Josè aveva pronunciato quelle parole fissandola dritto negli occhi e lei aveva pensato che la sua fosse solo invidia. Era un mese ormai che l’attenzione del suo piccolo villaggio era puntata su di lei. Aveva scritto un componimento sulle sorelle Mirabal talmente bello che la sua maestra lo aveva inviato ad un pezzo grosso a Santo Domingo. Lui ne era rimasto così colpito da invitarla nella capitale per consegnarle un premio.
Il giorno in cui era tornata al villaggio Tio Carlos le aveva presentato un giovane spagnolo venuto ad offrirle una borsa di studio in una delle più prestigiose scuole di Madrid.
I genitori di Maria si erano irrigiditi di fronte a quella proposta. Perché attraversare l’oceano per portare qualcuno a studiare in Europa? Non c’erano bambini in Spagna?
Il giovane spagnolo aveva replicato ai dubbi della famiglia affermando che gli europei erano pigri e non facevano più figli e che i bambini che c’erano erano stupidi e annoiati e preferivano giocare con la playstation piuttosto che studiare. Per questo l’istituto per cui lavorava lo aveva incaricato di cercare giovani talenti in giro per il mondo. A dare la spallata finale ad ogni resistenza contribuì la promessa che una parte della borsa di studio sarebbe stata mandata direttamente ai genitori.
Così Maria partì, tra mille festeggiamenti.
L’atteggiamento del giovane spagnolo cambiò di colpo appena saliti in aereo. Il suo sorriso era scomparso e rispondeva a monosillabi alle domande della ragazzina.
Maria era talmente entusiasta che non si accorse di nulla.
Fu solo quando, fuori dall’aeroporto, l’uomo la consegnò ad un’anziana donna in cambio di una mazzetta di euro che Maria iniziò ad avere paura.
La ragazza si allontanò per ammirare il suo lavoro. “Perfetto” sentenziò.
L’anziana che l’aveva prelevata all’aeroporto entrò nella stanza.
“Ma cos’hai combinato? Sembra una trentenne. È una ragazzina e mi serve così. Levagli quella merda dalla faccia. Sta per arrivare il giudice.”
La ragazza mise il broncio e fece cenno a Maria di lavarsi il viso.
“Ti prego,” sussurrò lei prendendole le mani “lasciami andare.”
Un ghigno comparve sul viso della ragazza. “Andare? Andare dove? Non hai ancora capito? Ti hanno mentito, ti hanno imbrogliata.”
Fece una pausa per aumentare l’effetto. “Ti hanno venduta.”
“Ma perché? Chi mi ha venduta? Cosa volete da me?”
La ragazza le accarezzò i capelli. “Vedrai” disse.
La vecchia entrò di nuovo nella stanza. “Ancora così siete? Muoviti il giudice è qui.”
“Stiamo facendo una cazzata” sussurrò la ragazza, avvicinandosi alla donna. “Questa ha una famiglia e se qualcuno venisse a cercarla?”
“E da dove?” rise la vecchia. “Da un villaggio disperso nella foresta amazzonica?”
La ragazza sbuffò. “Non capisco perché il giudice non può accontentarsi di quelle che gli procuriamo di solito. Corriamo meno rischi.”
“Quelle dell’Africa non gli piacciono, lo sai. Si lamenta che sono brutte e magre e che puzzano anche appena uscite dalla doccia. Adesso basta, portala di là.”
Maria si era lavata il viso, cercando di ascoltare la conversazione tra le due donne. Aveva sentito parlare di un giudice. Se gli avesse raccontato tutto forse lui l’avrebbe aiutata a tornare a casa.
La ragazza la prese per un braccio e la trascinò nell’altra stanza.
Un uomo grasso, con un sorriso viscido, era seduto su una poltrona.
Scambiò uno sguardo d’intesa con la vecchia e lanciò sul tavolo una mazzetta di soldi.
“Vai” ordinò la ragazza, spingendola verso l’uomo.
Maria salì le scale con lui. Non riusciva a smettere di tremare. Non era più sicura che quell’individuo potesse aiutarla.
“Non sono convinta” ripeté la ragazza. “E se la rompe come l’ultima?”
La vecchia alzò le spalle. “Il nostro amico ce ne procurerà un’altra.”
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?” tuonava la vecchia quercia.
“Ma perchè imbrogliarci?” rispondeva il salice devoto.
“Perchè lo hanno sempre fatto. Erano i nostri figli, poi sono diventati i nostri dirimpettai ed ora siamo i loro schiavi. Hanno dimenticato, rinnegato, la loro natura… ti aspetti che riconoscano la tua?” proseguì il saggio.
“Vi giuro che è così! L’altra notte mi sono addentrata nelle strade della città e non c’era nessuno.” si inserì la volpe arguta.
“Perchè tu dai meno nell’occhio, ma io non voglio diventare ragù solo per curiosità e nella speranza di facile cibo.” bramì il potente cervo.
“Io sorvolo sui loro cuori e osservo i loro movimenti. Credetemi, a noi non ci pensano neanche…” aggiunse il corvo “anzi, forse dovremmo essere noi a pensare a loro.”
“E lo stiamo facendo.” confermò la quercia.
“Ma no, testa di legno!” lo interruppe il salice: “Intende che noi possiamo aiutarli. Noi siamo detentori di una saggezza antica.”
“Parla allora, tanto la tua voce per loro è un anonimo frusciare di foglie.” rise scricchiolando la quercia.
“Il salice ha ragione!” sentenziò il cervo: “Possiamo parlare ai loro cuori, alla parte di natura che, anche se dimenticata, è ancora un loro fondamento. Questo ci rende tutti fratelli, con il compito di onorare e condividere la Terra.”
“Un compito da lungo tempo fallito. Vi ripeto, questo è tutto un imbroglio.” s’incaponì la quercia.
“Ricordati che loro sono i nostri fratelli più giovani. Per l’ultimo genito si chiude sempre un occhio.” spiegò la volpe: ”E se potessi parlare al loro cuore cosa diresti, Salice?”
Per un po’ si sentì solo il vento suonare gli ispidi rami del salice, come fosse un’enorme e magica arpa, poi l’Albero rispose: “Dopo l’estate, in cui la vita è così matura da sembrare senza fine, ci si confronta con l’autunno e con la desolante consapevolezza di non essere più forti e belli come prima. Lentamente si avvizzisce e si giunge alla morte. Noi non pensiamo mai, però, che se non morissimo un po’ non potremmo più tornare alla primavera, dove la vita giunge oltre la maturazione, lasciando il posto a germogli desiderosi di cambiare il mondo. Bisogna avere coraggio però, perchè tutti sentiamo in cuore che l’inverno può esserci fatale… ma chi avrà coraggio saprà rifiorire ai primi soli.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Certo, lo abbiamo pensato anche noi, ma non abbiamo ancora trovato una verità migliore.
Voi avete ricoperto la verità di cose inutili, orpelli che nascondessero il vero viso della minaccia, ma così facendo avete perso di vista quel volto, ed ora il vostro nemico sembra invisibile.
Non abbiate paura della Natura, essa è il magico ingrediente che accende i vostri occhi.
Amatela anzi come una Madre, una Madre antica che sà quando prendere e quando dare, abbiate Fede in lei, non provate mai a prevaricarla.
Accettate che tutti siamo in balia di qualcosa di più grande, ed occupatevi solo di farvi trovare ricchi di amore quando giungerete al Suo cospetto.
…E se anche sarà un imbroglio… almeno avrete fatto del vostro meglio.”
– E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
– Cosa intendi?
– Tutto. Noi, io, te, tutti quanti. Le nostre meschinità, le nostre gioie, il datore di lavoro che fa incazzare, la moglie che ti lascia, i nostri piccoli e grandi traguardi, le lacrime mai ripagate, le risate, questo bar, il passato, la mia malattia, il nostro futuro, il giocare a nascondino con il cuore che abbiamo fatto io e te fino a qualche mese fa… tutto questo. Hai presente quel film, come si chiamava?, quello di qualche anno fa, del regista che ha girato anche i film di Batman… In… Inc…
– Inception?
– Si! Esatto! Ti ricordi quella scena nel bar di Parigi? Quella dove loro parlano e a un certo punto tutto esplode, in slow-motion, fra l’altro, si accartoccia su se stesso, le strade si ribaltano sottosopra, ma loro non ne sono minimamente toccati perché è tutto un sogno?
– Bellissima, quella scena. Pensi che anche questo sia un sogno?
– No. Decisamente no. Però non riesco a togliermi di dosso la sensazione chiara che ci sia “altro”, che si viva come su uno schermo, come loro, gli attori di quel film, come se non esistessimo davvero, nel vero senso della parola.
– Capisco molto bene, ci penso spesso anch’io. Magari sono solo pensieri strani…
– Magari. Ma li ho sempre avuti. Anche prima di tutto questo.
– E’ buono, il gelato?
– Buonissimo! Ne vuoi un po’?
– No, no, mangia pure tu. Vedrai che ti fa bene, anche per rimetterti prima.
– Grazie. Anche per avermi tolto da quella stanza e avermi portata qui.
– Guarda, fosse per me lo farei tutti i giorni, ma i brutti dottori cattivi non vogliono.
– Stupido.
– …
– Colpa mia. Dovevo saperlo.
– Cosa?
– Che eri così stupido. Inutile lamentarsene adesso.
– Grazie, eh.
– Fammi finire. Inutile lamentarsi di quello che ci piace e che ci fa star bene.
– …
– …
– Se non la smetti di guardarmi in quel modo e non finisci il gelato, quello sì che diventerà solo un sogno. E, poi, potrei non riuscire più a controllarmi. Dopo, ti avviso, quello che succede, succede…
– E io non mi lamento. Appunto.
– Visto che siamo in tema di citazioni cinematografiche, ne “Il laureato” si direbbe: “Sta cercando di sedurmi, Mrs Robinson?”
– Ah, non si era capito? Mi sa che devo impegnarmi di più, allora… almeno per quanto me lo consentono tutti questi antipatici tubi e tubicini…
– Non preoccuparti. Ti bastano gli occhi e quell’espressione sulle labbra. Vieni qui.
– Ecco.
– Cosa?
– Nelle tue braccia tutto diventa davvero reale.
– … Ti amo.
– Anch’io.
– Ok… Se prometti di non scappare vado un attimo dal barista e torno.
– Ah, non lo so, mica te lo posso garantire. E’ pieno di fustacchioni qui intorno.
– Poi sono io lo stupido, eh?
– Chi si somiglia si piglia, lo sai. Torna presto.
– Allora… tavolo 2. Un gelato e due tè freddi. Fanno 8 euro di tutto, grazie.
– Cinque… due e uno otto. Ecco qui, grazie a lei.
– Lo scontrino… ma… che succede là?
– Dove?… No! No!!
– Giulia, Giulia, mi senti? Amore, mi senti?
– Sì… scu… sa, sono… caduta… non… so…
– Non parlare… Fate scendere il dottore dall’ospedale, presto!
– La signorina è una paziente dell’ospedale?
– Certo che lo è! Chiedete del dottor Arvini, presto!!
– Christian…
– Dimmi, tesoro.
– Fac.. cio un po’ fa… tica a r-r-respir… respirare…
– Lo so, non parlare…
– Ascolta… mi… Non avrei mai… mai potuto… avere… un uomo più… giusto… di… di te… Questa è l’unica… cosa che… non… può essere… un sogno…
– Giulia!… Giulia!! Non preoccuparti… andrà tutto bene…
***
In un non-tempo e in un non-luogo.
Una voce. Potente.
– … E da lì in poi le rimarrai accanto ancora per tanti anni, ma non riuscirà più a parlare. Vi amerete comunque tantissimo, sempre. Mi hai chiesto di vedere il più grande dolore della tua vita ventura. Eccolo.
– Perché? Tu sei onnipotente, no? Perché?
– “Perché” è una parola che non ha senso qui. So che è giusto, tutto, incontrovertibilmente. Tu non te ne ricorderai, però, e maledirai ogni cosa ogni volta che proverai un dolore. Dopo tutto quello che hai visto anche prima, anche per ciò che sarà solo pura luce e non potresti mai avere qui, vuoi partire?
La Creatura smette di tremare.
Poi, si volge, piano, verso il Creatore.
Mai è stata così splendente e in pace.
– No.
«E se fosse tutto un imbroglio?» mi domando mentre percorro a piedi la strada che mi porta alla chiesa più vicina. Sento la necessità di un momento di raccoglimento, in questo 2020, che ha sepolto le relazioni personali dietro fredde schermate di computers o telefonini e un’inarrestabile, quanto imprevista pandemia, ha colpito l’intero Pianeta. Pur protetta dalla mascherina, mi accorgo mentre procedo, che il vento, il profumo dell’aria e il canto degli uccelli non sono mutati. La mano avida di benessere e priva di umanità di noi uomini non sono riuscite ad alterare tutto.
Il parroco mi riceve, ascolta il mio tormento.
Vorrebbe offrirmi, come soluzione, la solita medicina annebbiate, ma stavolta mi rifiuto.
«No! Voglio di più. Anelo una speranza, una verità.» Lui sospira profondamente: «Ora ascoltami» mi sussurra e chiude gli occhi iniziando a raccontami una storia. «Arriverà, nell’imminente futuro, un nuovo Gesù. Forse non si chiamerà così ma a tutti ricorderà lui. Nascerà per amore dell’umanità, ma a essa stessa darà la nausea, troppo impegnati dalla necessità di condurre una vita egoista, senza autentiche spinte verticali, dimenticando la possibilità di intraprendere un percorso valido che possa, tuttavia, comprendere anche un carico di donazione, coraggio e altruismo.
Dio, innanzi allo sfacelo della Sua migliore creazione, giungerà anch’Egli sulla Terra, facendoci sentire vermi ogni qualvolta, usando la schiena del prossimo come strumento per le nostre scalate sociali, la nostra carriera, il denaro e il potere diventeranno idolo della nostra vita.
Maria, che ebbe trovato solo in una stalla di animali, la culla su cui deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, ci costringerà, nel futuro, a smettere di pregare inutili nenie ma a vedere i suoi occhi piangenti e feriti innanzi alla nostra mancanza di misericordia mentre mani innocenti affogano in mare.
Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse ha rappresentato per secoli il dolore dell’umiliazione e simbolo di tutte le delusioni paterne, saprà, nel futuro, disturbare tutte le nostre sbornie e le nostre cene goderecce fino a che non riuscirà a metterci in crisi pensando alle sofferenze dei tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza pane, privi di quel futuro che noi diamo per scontato.
I pastori che veglieranno nella notte, sentendo l’aurora, ci offriranno la possibilità di comprendere il senso della Storia passata. Ci doneranno l’ebrezza dell’attesa e il gaudio di scegliere come costruire il nostro futuro. Ci ispireranno il desiderio di vivere un presente privi di tutte le inutili ricchezze che non ci accompagneranno, comunque, nella morte.»
Ascolto rapita questa splendida storia che vorrei si realizzasse all’istante. Domando al prete quando sarà possibile vivere questo futuro. Lui appoggia la sua mano sulla mia spalla e sorridendo esclama: « E’ iniziato ora, dal momento che tu hai desiderato riscoprire i sentimenti, belli o brutti che siano. Le emozioni, la misericordia, l’umanità. Prima o poi lo faranno tutti. E senza neppure accorgercene, il Nostro Salvatore avrà compito il suo ennesimo miracolo aprendo il cuore di ognuno di noi.»
Esco dalla chiesa e mi accorgo che non osservavo il colore del cielo da tantissimo tempo. E’ l’ora del crepuscolo. Un meraviglioso rossore invade la città. Le persone, in auto, si fermano ad osservarlo. Qualcuno prova a scattare una foto con lo smartphone ma capisce che l’immagine sul display non riuscirebbe a rendere cotanta bellezza.
Sorrido. «Eccolo –penso tra me– il futuro è adesso. Questo, certamente, non è un inganno!»
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Non scorderò mai le parole che ho sentito quel giorno, “Diana lei e’ incinta”, ho spiegato loro che non poteva essere, non potevo credere che questo stesse capitando a noi, il mio cuore batteva forte, da quel momento ero una mamma, eravamo felici. Al nostro ritorno a casa dall’ospedale abbiamo comprato la sua cameretta, abbiamo dipinto le pareti di verde come la speranza che tutto andasse bene. Una notte mi sveglio in preda a dei dolori terribili, non poteva essere il bambino, mancava più di un mese, ogni cinque minuti una fitta mi attraversava tutto il corpo mi sentivo rompere dall’interno, avevo paura che stesse succedendo qualcosa e purtroppo miei timori erano veri, avevo avuto un distacco di placenta e il bambino non respirava, bisognava farlo nascere subito.
Avevo paura; non eravamo pronti, la culla non era montata, non avevo comprato abbastanza tutine; mando un bacio a Christian che non poteva venire con me in sala operatoria, lo guardo, aveva gli occhi lucidi, un dettaglio sul viso di un uomo forte che non avevo mai visto prima. Mi addormento per un tempo che non riesco a capire. Mi sento toccare la mano, quando abbasso lo sguardo vedo una bambina, sento che lei è mia figlia, mi abbasso per guardarla, “come mai sei cosi grande?” sembrava che avesse almeno cinque anni, lei mi guarda, “sono morta mamma”, il cuore mi si spezza, cerco di afferrarla ma non riesco a sentirne più il tatto, urlo e mi dispero, la supplico di non lasciarmi, la vedo dissolversi davanti, cerco di avanzare verso di lei, “ti prego non mi lasciare” grido con tutto il fiato che mi rimane, sento il rumore del mio cuore che si spezza, il mio cuore non batte più; “portami con te non lasciarmi qui, perdonami vittoria, per non essere stata abbastanza forte da riuscire a tenerti con me”, ora la vedo, con un gesto veloce riesco a tirarla a me, la stringo con la speranza che possa rientrare dentro di me un’altra volta, sento il suo cuore che batte, lo stesso cuore che per sette mesi e mezzo avevo sentito nelle ecografie; non riuscivo a pensare di separarmene, la forza di tenerla a me era svanita, si dissolve, urlo e mi dispero con e mani sulla testa.
“Diana apri gli occhi, ce qualcuno che ti sta aspettando”, Christian avrebbe dovuto aspettare, sentivo le lacrime bagnarmi la faccia, singhiozzavo dal dolore che avevo provato, non volevo aprire gli occhi, finche’ non ho sentito il pianto di un neonato, “la tua mamma non vuole svegliarsi”, sento un tuffo al cuore, apro gli occhi, davanti a me c’era un bambino, allungo le braccia per prenderlo “e’ mio figlio?”, “certo”; Non riuscivo a crederci, il sogno che avevo fatto era sembrato reale. Sentivo il mio cuore ricomporsi mio, era un bambino splendido, non riuscivo a smettere di guardarlo, annuso il suo odore, accarezzo i suoi capelli biondi e le sue guance paffute; Aveva scelto una mamma molto complicata, ad un tratto mi afferra il dito della mano, me lo stringe con forza, come se avesse paura che io lo abbandonassi, gli ho sussurrato nel suo minuscolo orecchio ” io non ti abbandonerò mai, ti ho voluto così tanto che ancora non riesco a credere che tu sia qui con me”, il mio sogno era stato coronato, adesso avevo tutto, adesso avevo capito che non era un gigantesco imbroglio ma una gigantesca opportunità.
Sento il tocco di vittoria a volte, sono certa di aver davvero conosciuto mia figlia, la stessa che avevo perduto cinque anni prima, non mi aveva mai abbandonata, pur non essendo mai nata, era stata amata abbastanza da renderla viva. Oggi con i miei ottantanove anni, scelgo di condividere questa storia con qualcuno, Alessandro è adulto, sono nonna di tre nipoti, una di loro si chiama Vittoria; Chris, il più grande amore della mia vita è morto qualche anno fa, è stato un dolore insopportabile, senza mio figlio quel lutto mi avrebbe trascinato con se. Abbiamo avuto una vita felice, ho goduto della parte più bella dell’amore, ho provato emozioni che difficilmente scritte nero su bianco possono rendere l’idea di ciò che sono state.
sprigionate il più possibile perché è di questo che il mondo ha bisogno. Di gente che AMA.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Una domanda che, probabilmente, da sola, Sveva non si sarebbe mai posta, ma che oggi le trapana in modo insistente il cervello. Un quesito che non la lascia dormire e che mina in modo costante la sua, almeno apparente, tranquillità e normalità.
Perché questo interrogativo le fa così paura al punto da percepire una sensazione di gelo al suo solo avvicinarsi? Perché si sente paralizzata, impietrita dalla sola riflessione circa la sua risposta? Una risposta che lei non può dare con certezza, ma che solo lui le potrebbe offrire.
Dopo tanti mesi, si era di nuovo innamorata. Lo sapeva, ma non lo voleva ammettere, preferiva allontanare la realtà così come aveva scelto di eliminare, anche inconsciamente ed involontariamente, da lei tante cose, ma soprattutto numerose persone.
L’anoressia l’aveva avvinghiata portandola con sé in un vortice dal sapore dolce e dal retrogusto salato, fatto di sole bugie, sotterfugi ed inganni. Una serie di fantasmi contornavano le sue giornate e comportamenti guidandola verso azioni che lei stessa, in prima persona, sapeva fossero folli, ma che però non riusciva a frenare.
Ecco perché quella domanda l’aveva spaventata, al suo solo avvicinarsi, e la stava terrorizzando tutt’ora. La riporta al suo passato più intimo dove lei è stata vittima e carnefice del suo inganno.
Una situazione che l’aveva e l’ha fregita psicologicamente e fisicamente portandola ad avere un corpo che non sente più suo, se si guarda allo specchio, ma che in passato aveva avuto bisogno di mantenere affamato di aria e di mancanze, così come quelle che sentiva nel suo cuore.
Superare la malattia per lei era stata una sfida che pensava di perdere e che in parte l’ha resa sconfitta. La vittoria della guerra aveva lasciato i suoi strascichi. Aveva portato con sé la perdita di battaglie e l’abbandono di persone che amava.
Oggi per Sveva le cose sono diverse. Una vita condotta però in un corpo che non sente come completamente proprio. Una vita che in alcuni attimi sembra svolgersi sulla precarietà di un filo, così come quella di un equilibrista.
Una ripresa esistenziale dettata e rafforzata, almeno in parte, da un incontro tanto casuale quanto importante, che l’ha resa nuovamente capace di parlare, aprirsi e fidarsi.
Adesso quella domanda. Quella atroce domanda: E se fosse solo un inganno?
Per Sveva il quesito cela un doppio senso o meglio, un insieme di variabili.
Inganno. Che tipo di inganno? Imputabile alle nuove relazioni e affetti? Oppure, inganno di sé stessa?
Sono due giorni che non dorme.
È completamente attanagliata dall’interrogativo apparentemente folle quanto concreto che le avevano impiantato nella mente.
Deve fare qualcosa. È consapevole che questa volta non può nascondersi.
Ha paura. Quel sentimento che non percepiva da tempo perché per molti, troppi mesi si era completamente privata della vita e delle emozioni ad essa legati.
Questa volata deve e vuole capire. Un atto per sé stessa. Per il suo futuro.
Come fare?
Cosa fare?
Consapevolezza e paura la guidano. La fanno riflettere.
Nascondersi non ha senso.
È ora di cambiare, crescere, guardare la vita in faccia.
Sveva si veste di coraggio.
Indossa le sneakers, il giubbotto di pelle. Prende la sua compagna di avventura, il suo cane.
Esce di casa. Scende le scale per poi fermarsi. Un balzo al cuore. Il senso di paura le blocca la saliva in gola.
Training autogeno pensa.
Fa un respiro profondo. Niente la ferma. Corre. Da quanto non correva per la strada.
Sente l’energia nel corpo, nel cuore, nell’anima.
È la vera Sveva. La ragazza che ha coraggio. La donna che rischia per la felicità.
Arriva dinnanzi alla casa di Jack. Osserva la rampa di scala. Quei dieci gradini le sembrano uno, nessuno e centomila ostacoli da superare.
Tre possibilità ha dinnanzi. Il limbo del non sapere e la conoscenza che a sua volta dispiega la gioia o la delusione.
Sveva suda freddo, ma non si ferma.
Sale lentamente i gradini. Si attacca alla ringhiera. La fatica dell’anima.
Bussa.
Jack apre.
Lei lo guarda.
Cinque secondi di silenzio.
“Ti amo” sussurra e si gira.
Lui la prende per la mano.
Lei sorride.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?»
Marco si è fermato di colpo e io sono finito con il naso contro la borraccia d’alluminio appesa al suo zaino.
«Non capisco» dico a denti stretti e dolorante.
Lui si gira, indica in alto col dito e io, d’istinto, gli guardo il dito.
«Ci ha fatto salire al passo, ha aspettato di vederci controluce e poi, quando siamo scesi si è nascosto, magari per tenderci un agguato!».
«Ma se ci ha chiamato lui! Che senso ha?» Gli domando con una voce acida e una mano sulla narice destra.
Non mi risponde, con le sue enormi mani tasta le imposte della baita e verifica che siano davvero serrate. Poi fa il giro e sale anche sulla scala a pioli appoggiata alla canna fumaria. Solo quando ha verificato che nella baita non c’è proprio nessuno allora, quasi con fastidio, si degna di rispondermi.
«Non lo so. Ma sono sicuro che è qua, nascosto da qualche parte»
«Nascosto? Ma stai scherzando?»
Di colpo riprende a camminare in salita verso il casotto che si trova cento metri sopra la casa. Lo seguo a fatica. Sbuffando mi parla a raffica e mi spiega che quando il Bona aveva diciannove anni e lui diciassette gli aveva rubato la ragazza solo perché lavorava già e aveva l’auto e alle ragazze, si sa, piace di più chi c’ha l’auto, e allora lui poi gliel’aveva rigata quell’auto, e che botte che si erano dati, ma il Bona non era buono a pestare, era mingherlino, e lui gli aveva quasi rotto la mascella e la ragazza aveva pure preso le sue difese, ma poi, qualche anno dopo, quando stava per comprare la casa gialla vicino al fiume e aveva raccolto con fatica i soldi per la caparra, ecco, il Bona il giorno stesso aveva versato lui la caparra e gliel’aveva soffiata, anche se quella volta non se le erano date ma solo perché il Bona era lì con la sua mamma anziana; e poi la ‘crisi’ … il Bona che si era rifugiato tra i monti a scrivere ‘poesie’, ahaha, proprio lui che non infilava due verbi giusti di fila, e poi ne aveva scritta una che diceva qualcosa tipo ‘il mio nemico dalle gambe grosse …
Ma ormai mi ha distanziato e non capisco più quello che dice.
Poi arriva al casotto e si ferma, io un po’ a fatica lo raggiungo e mi dice:
«Dammi retta. È un gigantesco imbroglio, la storia della baita, le poesie, la richiesta di aiuto. Lui voleva solo arrivare alla resa dei conti. Voleva che io venissi qua e lo affrontassi».
«E invece, guarda un po’, sorpresa, ci sono anche io!»
«Zitto, sento qualcosa!»
Andiamo sul retro. La porta di legno è stata scardinata. In terra c’è un cellulare col vetro rotto.
Marco si affaccia con cautela restando fermo sulla soglia e sbarrandomi la strada.
«Che c’è? Hai trovato qualcosa?»
«Ehi ragazzi, ce ne avete messo di tempo! Marco! Che sorpresa!»
È la voce del Bona, Marco entra e ora anche io riesco a entrare.
È seduto a terra, con la schiena poggiata al muro, e ha una barba lunga che sembra un babbo natale magrissimo.
Marco sembra spiazzato e riesce solo a chiedere: «Cosa hai fatto?»
«Due ragazzi, hanno attraversato il passo del Cornà e trovato il casotto. Hanno sfondato la porta e si sono messi a dormire. Al mattino quando sono uscito mi sono accorto che c’era qualcosa di strano, ho chiuso tutto e sono salito a vedere. Ma quando sono entrato loro si sono spaventati, mi hanno messo fuori uso e sono scappati. Che idioti, se me lo chiedevano li avrei ospitati in casa!»
«Clandestini?» Chiedo.
«Sì, ogni giorno e sempre di più e sempre più giovani».
Guardo Marco, di solito sempre sicuro di tutto, e mi sembra indeciso. Farfuglia parole sconnesse… chiamare le autorità … prendere la barella… la gamba rotta … delle bende.
Ma il Bona che sembra invece molto lucido ci dice:
«Datemi una mano ad alzarmi e poi pian pianino, se mi aiutate, scendo in paese a farmi vedere la gamba. Niente denunce, sono cose che capitano».
Marco lo solleva quasi di peso e lo rimette in verticale.
«Ehi piano!»
Capisco che vorrebbe replicare qualcosa e invece tace.
«Grazie ragazzi, sono venuto qua dieci anni fa per stare un po’ tranquillo a scrivere e invece sono finito nell’occhio del ciclone. Ma me lo insegnate vuoi, se siamo uomini ci si aiuta. Chiamarli clandestini è solo un gigantesco imbroglio».
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Durante l’anno ventiventi uno spillover aveva fatto un salto di specie e si era divertito a creare un virus che aveva messo a terra l’intero pianeta. La società così come era stata costruita non aveva più senso. Il popolo dell’Ordine Superiore gestiva il popolo dell’Ordine Inferiore e chiunque avesse varcato la soglia di casa sarebbe stato colpito dall’arma letale partita da un pipistrello del Pacifico. L’obiettivo era quello di entrare nello spazio sacro dell’oikos, di profanarlo e di cambiare il tempo della vita in tempo del lavoro.
Il mito orwelliano era ormai compiuto. Se la casa era diventata il principale spazio di contagio va da sè che era nella casa che doveva prima o poi entrare l’ordine di controllo del virus e delle politiche. Filippo era ormai consumato dalle mura domestiche. La notizia del ricovero di suo padre, il fatto che avrebbe presto abbandonato la frequenza per tornare a fare lezione da casa lo aveva gettato nello sconforto più totale. Aveva provato, qualche giorno prima, a fare il giro del palazzo, ma i delegati dell’OS lo avevano fermato. Scendeva in cucina solo per prendere i pasti visto che i suoi genitori e sua sorella erano risultati positivi. Il sogno di qualsiasi adolescente ma i sogni si sa possono diventare anche incubi. Gli mancava Sofia, la ragazza che aveva conosciuto pochi mesi prima, in estate. Avevano stretto amicizia al mare e anche se appartenevano a due zone diverse, si erano continuati a sentire sempre più di frequente. In quel momento l’OS non permetteva di valicare le zone e i ragazzi si vedevano solo tramite rete bioenergetica e ologrammi. La tecnologia era una grande arma ma spesso, dopo un abbraccio o un amplesso virtuale, Filippo si sentiva più solo di prima. Sofia, invece era contenta. Quella storia le permetteva di non impazzire dentro il suo palazzo. I suoi genitori che appartenevano all’0S, erano impegnati ad organizzare le regole e i controlli affinchè l’OI potesse gestirsi in modo da non autodistruggersi tramite la pandemia. Spesso era fuggita ma senza troppa convinzione non aveva nemmeno varcato i giardini di casa.
Sofia era tutto quello che lui aveva desiderato fino a quel momento. Sembrava si conoscessero da sempre.
– Ciao amore mio, facciamo colazione insieme? – esordiva ogni mattina Filippo. Sofia era felice, si svegliava, preparava il thè, il cioccolato, la torta di mele appena sfornata.
Spesso Filippo aveva voglia di vederla anche durante le lezioni e la chiamava. Lei era felice e chiudendo la lezione si baciavano per poi poter tornare in aula virtuale.
Quando i contagi iniziarono ad essere più bassi, la zona di Filippo venne colorata di verde e lui fu libero di muoversi ma improvvisamente sparì. Sofia gli scriveva ma lui non rispondeva.
Un mercoledì mattina Sofia si era svegliata con un gran buon umore. Sapeva che di lì a poco si sarebbero rivisti in ologramma. Così dopo tanto tempo, inviò un messaggio a Filippo.
Filippo dopo una breve introduzione riguardante la vita condotta fino a quel momento di libertà, le chiese – Come va con i ragazzi? Hai qualcuno? -. Il sangue di Sofia si freddò. Una tale domanda aveva necessità di essere ripetuta. Lui le confessò di avere una relazione vera con un’altra ragazza, della sua stessa zona e del suo stesso ordine. – Sofia, non possiamo continuare a vederci in rete, io ho bisogno di una ragazza reale da abbracciare, da baciare, da guardare negli occhi. A breve la mia zona diventerà rossa e non voglio tornare come prima -. Il virus non aveva ucciso solo migliaia di persone, aveva ucciso anche la speranza, la forza e il coraggio di due ragazzi che si sarebbero amati per sempre.
Il giorno seguente tutte le televisioni a reti unificate diedero la notizia che quello era stato solo uno stress test, un imbroglio in nome dell’OS, ma intanto le persone non sarebbero mai più tornate quelle di prima.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? E se in realtà stessero archittetando la conquista del genere umano?”domandò Anna,indicando la sua vispa gatta grigia
“Fandonie.Impossibile,sono solo animali!”rispose Luca.
“C’è qualcosa che non mi quadra;possibile che persino quei due contadini abbiano un gattino?”ribattè prontamente Anna.
Luca prese fiato e disse:”Non ne sei felice,cara?É tutto uguale al nostro Mimì”
“Guarda,Luca!Persino Dumba pare felice di questa somiglianza con il nuovo cucciolo”
Mi chiamo Dumba,nome stupido dato dai miei umani,in quanto da cucciola avevo la testina piccola e le orecchie giganti come l’elefantino della Disney.
Reputo che non mi si addica tanto questo nomignolo visto che sono,una micia color grigio,molto furba e avrebbero dovuto capirlo subito.
Sono stata la prima a sgattaiolare fuori dalla cesta,dove sonnecchiavo,e con un balzo mi sono avventata sopra Anna,la mia padroncina,che non vedeva l’ora di portarmi con sé.
Entrando nella mia nuova casa,notai,che non ero sola,dovevo convivere con altro mio simile:Mimì,un gatto veterano tigrato arancione.
Nel pianeta da dove provengo,si narrano spesso le gesta di Mimì;come quella volta che era scappato da i due contadini inferociti armati di fucili.
Fu un impresa ardua e ne portava ancora i segni addosso:aveva un rigonfiore sotto la pancia laddove la pallottola lo aveva colpito.
Trovai Mimì invecchiato e ingrassato e avevo paura che per questo l’avrebbero abbandonato,come sono soliti fare gli umani.
Non era più agile come una volta,perciò mi impegnai ad aiutarlo a rimettersi in sesto,altrimenti non ce l’avrei fatta a portare a termine la missione e poi non potevamo deludere il nostro pianeta.
Ora eravamo una squadra e dovevamo collaborare.
Pian piano iniziammo a scoprire nuovi territori ed a conoscere nostri simili.
Dovevamo essere discreti ma essere ovunque.
Quando anche l’ultimo degli umani avrebbe avuto un gatto in casa,allora avremmo proclamato la nostra vittoria.
Al momento era nettamente in vantaggio la razza canina,eterni nostri rivali.
Con i loro modi da lecchini erano riusciti a infilarsi quasi in ogni casa.
Non fu per nulla semplice.
Dovevamo affinare le nostre abilità.Dovevamo riuscire a convincere qualsiasi persona ad aver bisogno di noi.
Eppure mancavano loro:i due contadini,maledetti adoratori seriali solo di quei pelosi puzzolenti dei cani.
Ma io avevo un’asso nella manica:Mimì.
Unendo le nostre forze ce l’avremmo fatta.
Non potevamo permetterci di fare errori,altrimenti avrebbero vinto i cani.Così comunicai a Mimì il piano che avevo in mente.
Lui non volle sentire storie e decise di riprovarci ma ad un patto:avrebbe termininato lui la missione in completa solitudine.
Ero assolutamente in dissacordo con lui ma lo lasciai da solo sperando sarebbe ritornato in sé l’indomani.
Per giorni stette nella sua cuccietta a rimuginare;non usciva nemmeno più.
Ultimamente farfugliava miagolii strani su come poter collaborare addirittura con i cani.
Non lo riconoscevo più.Persino il suo pelo era diventato più opaco,non era più di quell’arancio acceso.
Una mattina mi svegliai per fare la mia solita passeggiatina e di Mimì non c’era traccia.
Capì all’istante.
Col cuore a mille iniziai a correre.Arrivata nell’orto dei contadini sentì un miagolio inconfondibile ma non riuscì a captare la giusta provenienza di quel suono.
Continuai a cercare e ricercare nella speranza di rintracciarlo,finchè ad un tratto vidi Alby,il cane dei due contadini,venirmi incontro.Mi disse di seguirlo e mi portò in un automobile abbandonata lì vicino dove ritrovai Mimì agonizzante.Mi aiutò a tentar di salvarlo ma inutilmente.
Mi voltai e vidi i due contadini in lacrime,increduli di aver compiuto un gesto tanto infame,mentre io impaurita scappai.
Appresi giorni dopo,durante una conversazione fra i miei padroncini,Anna e Luca,che i contadini avevano addottato un gattino color arancio in onore del nostro Mimì.
La missione era compiuta:avevamo vinto tutti ed ora avevamo,anche,dei nuovi amici,nonchè collaboratori fedeli:i cani.
Ero davvero felice,anche se c’è mancato un pelo che Anna e Luca scoprissero il sotterfugio.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Se i 27.000 rubli non ci fossero mai stati, se fossero solo una montagna di soldi raccontati, ma mai contati? La traballante situazione finanziaria del conte è nota a tutta la città, le 650 anime che conducono le sue terre, sono tutte ipotecate con cambiali scadute ormai da mesi. Non mi meraviglierei se avesse architettato tutto, dal trasporto con la quadriglia, fino alla rapina a pochi km dall’arrivo a Smirnik. Il movente è fin scontato: truffare l’assicurazione e contare finalmente veri bigliettoni.
27.000 rubli sono una bella cifra, sistemerebbe chiunque; forse non renderebbe assassino il più mite tra gli uomini, ma certamente renderebbe scaltro il più idiota.
Ma l’idiota rimarrebbe tale e ci sarebbe un uomo più scaltro che in qualche modo risalirebbe al bandolo della matassa, smascherandolo. Questa è una certezza.
E quello smidollato di Tulipov, oltre ad essere storpio ed analfabeta, è anche idiota. Questa è un’altra certezza, che lo esclude dai sospetti.
Il servo Tulipov non era l’unico che sapeva della preziosa corriera. Insieme a lui vi è Kasnovic, fedele ragioniere dal naso adunco, aspetto pingue, capelli unti, basso di statura, oltre che fisica anche morale, viscido nell’umettare le labbra meccanicamente, ogni volta che il discorso andava vertendo su qualche serva giovinetta o su qualche nobildonna dal corpetto severo al punto di far pulsare il florido seno, oltre il limite del comune pudore.
Era in grado il nostro Kasnovic di architettare una rapina ad una corriera, rintracciando e ingaggiando un numero imprecisato di banditi, organizzare il piano, senza lasciare traccia dei propri spostamenti, delle proprie finanze, delle proprie assenze? Perché per mettere a punto una rapina del genere devi avere contatti non proprio diplomatici e una bella sommetta da anticipare ai vari interpreti, oltre che tempo per fare il tutto.
No, Kasnovic oltre che viscido è pavido. Non arrotonderebbe di una pertica la conta dei poderi del conte, figuriamoci sottrarre il denaro necessario all’impresa.
Nessun sospetto quindi. I funzionari della polizia della città brancolavano nel buio più pesto. Nulla portava ad una pista da seguire. Non un indizio, non un traccia.
Il postiglione fu ritrovato sbornio ai piedi di una quercia che offriva riparo dalla pioggia battente. Nulla seppe dire a riguardo dell’accaduto, se non che due ussari lo affiancarono, lo fecero fermare e poi bere fino a ridurlo in quello stato. Non che non fosse avvezzo al bere o forse proprio per questo, sta di fatto che ha saputo dire poco più che fossero uomini e non renne delle steppa.
Chi ha rubato e soprattutto cosa ha rubato ?
Nessun sospetto, nessun indizio, nessuna traccia. Un fantasma, il nulla.
La condizione ideale per riuscire nella magia a cui tutti almeno una volta nella vita abbiamo aspirato: non moltiplicare pani e pesci, ma molto più prosaicamente, banconote e monete. Novelli Re Mida, capaci di giustificare l’ardire dei nostri pensieri, pensando che poi faremo benefiche donazioni, elargizioni, a giustificazione della nostra cupidigia.
Di necessità virtù, il fine giustifica i mezzi. Sappiamo raccontarcene di ogni pur di appagare il nostro ego e il nostro bisogno smodato di avere.
Un conte allora può diventare ladro e raccontarsi che la sventura l’ha ridotto in quello stato e che il suo peccato è giustificato dalla tante ingiustizie patite dalla vita. Giudicarsi e assolversi, giudice e imputato.
Tornando ai protagonisti del nostro racconto, bisogna che introduca il tenente scelto Kossarov, prima scelta del dipartimento della regione, mandato ad indagare, attesa la disfatta della polizia della città.
Giovane ventisettenne, dal mento aguzzo, ricoperto di peli color delle carota ad adornarne i lineamenti. Un metro e ottantacinque cm di altezza, sovrappeso di qualche kg, cadetto alla prestigiosa accademia di Pietroburgo.
Kossarov aveva preso tutte le informazioni finanziarie sul conte ed era arrivato ad una conclusione:
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Nella testa di Margareth riecheggiava questo pensiero mentre lasciava la Luss Parish Church. Non era l’omelia del Reverendo Sherrad a non convincerla, era proprio lo stesso reverendo. Un volto particolare, occhi infossati dal colore dell’acqua, zigomi pronunciati, con una mandibola che avrebbe potuto lasciare il segno nel marmo. Di lui si sapeva solo che era stato il cappellano della Scottish Prison Service. Lei l’aveva già incontrato, dove e quando era un punto di domanda, una certezza era invece averlo visto la sera precedente nel giardino della baronessa Mac Auslin che conversava animatamente con il figlio di quest’ultima, Bruce Dubh, un tipo sfuggente. Nessuno lo conosceva eppure viveva da sempre a Luss.
La neve iniziava ad imbiancare i viali e le case, per Mag era meglio affrettarsi a rincasare, anche perché quella sera sarebbe stata a cena da Sally, l’amica di sempre.
Le ragazze trascorsero la serata a teorizzare su Sherrad e Dubh, non giunsero a nessuna conclusione, essendosi fatto tardi si augurarono la buona notte. Il villaggio a quell’ora era deserto, qualche luce alle finestre ma all’incrocio tra Cowgate e St Gray’s Street, Mag vide due figure allontanarsi in direzione del Victoria Park.
Ancora loro, “gli uomini del mistero”, così li aveva battezzati Sally. Decise di allungare il passo e seguirli. Sparirono nei vicoli scuri del centro, e mentre pensava se proseguire nel pedinamento, si senti improvvisamente osservata. Una folata di vento fece cadere delle latte appoggiate su un bidone della spazzatura, la lanterna del White Horse Pub iniziò ad oscillare allungando le ombre, un gatto spaventato attraversò la strada, intanto il campanile batteva lentamente le venti tre. Mag diede un urlo ed iniziò a correre in direzione di casa.
Il mattino seguente venne svegliata dal rumore di uno spazzaneve. Stava ancora facendo colazione quando suonarono alla porta. James, il suo ragazzo, agente di polizia, le portò la notizia del ritrovamento di un cadavere al Victoria Park. La ragazza, rabbrividì.
Mag gestiva un negozio di antiquariato. Quel giorno, nemmeno un turista entrò a visitarlo, così chiuse prima del previsto. Intanto aveva ripreso a nevicare. Passando davanti alla canonica vide la luce accesa nello studio del Reverendo. Si fermo ad osservare. Vide Dubh consegnare una busta a Sherrad. Subito dopo gli uomini si salutarono. Mag non perse tempo e raggiunse il posto di polizia, dove raccontò le sue perplessità a James. Quest’ultimo però non assecondò le sue paure, anzi la invitò a tornare a casa e a dimenticare quanto ha creduto di aver visto.
Lei per dimostrare la bontà delle sue teorie, decise di introdursi in canonica per raccogliere prove e smascherare i sospettati. L’unico modo per raggiungere lo studio era introdursi dalla porta sul retro della chiesa. In un paese dove non succede mai nulla, era sempre aperta. Stava rovistando tra i cassetti della scrivania, quando improvvisamente si spalancò la porta e si accese la luce. Era stata scoperta. I due uomini erano tornati. Il Reverendo con fare arrabbiato l’afferrò per un braccio e la invitò a seguirlo in un’altra stanza. Meg si divincolò ma non fu sufficiente a liberarsi. La chiuse a chiave. Non passò molto tempo, sentì delle voci in corridoio. Stavano tornando. Sherred spalancando la porta proferì: “questa è la ladra!” Dall’ombra spuntarono poi due figure a lei famigliari. James ed il Commissario Denver. Mag era confusa. Capì che forse aveva travisato tutta la situazione. Sherred spiegò quanto avrebbe preferito non fosse portato a conoscenza di nessuno. Raccontò che la baronessa aveva avuto due gemelli, Bruce Dubh era il fratello. Quest’ultimo aveva semplicemente il desiderio di donare alla Canonica una cospicua somma per provvedere alla costruzione di una casa per i senza tetto. Questo il contenuto della busta ed il motivo degli incontri nel parco, luogo destinato alla costruzione.
Mag chiese: “Ma, il cadavere trovato al Victoria park”? “Semplicemente morto di freddo” rispose James.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
“Fanculo!” esclamò “cos’è successo?”
Ian Crugher si svegliò inzuppato, aveva due birre ai lati, una era piena, l’aprì e la bevve, diede uno sguardo intorno a se, erano tutti nudi, non ricordava molto della notte precedente ma continuava a borbottare:
“questa sabbia non è come quella del deserto, fanculo la sabbia ma dove cavolo sono?”
A fatica si mise in piedi, si reggeva a malapena…di fianco c’era un gruppo di persone, cercò di raggiungerle,
fu più faticoso di costruire una piramide, ma ci riuscì!
Lì giunto osservò quella gente…sospirò…e si ricordò di avere una birra aperta, doveva tornare, non poteva abbandonarla! Riconquistò il cammino già percorso, il ritorno fu più agevole, la sua mente era distratta dalla birra calda. Riprese la birra la bevve ma il suo corpo la ospitò per circa un minuto per poi respingerla.
“Maledetta birra! Maledetta sabbia!” Continuava a borbottare, di colpo alle sue spalle comparve Monique:
“Hey Ian, come va? Non hai un aspetto piacevole”
“ lo so ma tu chi cazzo sei?”
“Non ricordi? Sono Monique, la ragazza cui stanotte hai vomitato addosso”
“mi dispiace non volevo”
“è stato un piacere per me”
“ma come? Ti piace il vomito?”
“ Non proprio è stato il motivo per cui hai potuto spogliarmi”
“davvero?”
“Si! Bè sei messo proprio male, hai rimosso tutto!”
“Ricordo solo tanta sabbia, ma dove siamo?”
“Non importa dove siamo”
“perché?”
“ Perché ciò che conta è che siamo!”
“Sto male ho bisogno di una birra!”
Monique decise di assecondarlo, lo accompagnò nella sua tenda, puzzava più di un ippopotamo, lo mise sdraiato e riuscì.
“Dove vai?” Sospirò Ian
“cerco di assecondare i tuoi bisogni” rispose e andò via.
Ian non era del tutto conscio, pensava stesse sognando, aprì di colpo la tenda e mise fuori solo la testa, guardò solo a destra e vide un gruppo di persone, erano tutte nude! Non capiva, di colpo una folata di vento poggiò sul suo viso una maschera di sabbia.
“Maledetta sabbia” riesclamò “è peggio delle formiche”
Si rinfilò nella tenda che iniziò ad ondeggiare in quanto il vento continuava ad aumentare d’intensità, solo pochi istanti e sarebbe volata via ma non fu così!
Ritornò Monique che rinsaldò i picchetti ed entrò nella tenda, Ian giaceva immobile sul lato destro, odiava la sinistra, diceva che agire sul versante sinistro è come esporsi alla morte. Era un tipo strano.
Monique lo svegliò, non fu cosa semplice:
“Ian… Ian sono Monique, ecco le birre”
“vai via” rispose,
“perché?”
“non c’è motivo che tu rimanga qui”
“non hai più sete?”
“si dammi le birre e va via!”
Ian terminò cinque bionde in cinquanta minuti, il vento incalzante non riuscì a scacciare il fuoco emanato dal sole, la tenda era diventata peggio di una serra, Monique e Ian erano zuppi di sudore e birra.
“Perché sono tutti nudi?” chiese Ian
“Perché così si sentono liberi” rispose Monique
“tu non ti senti libera allora”
“credo che per te sia lo stesso”
“devo vomitare”
“va bene fallo”
“dove non voglio uscire lì fuori c’è quella maledetta sabbia”
Il tempo fu meschino, prima di giungere ad una soluzione Ian riversò tutto il suo vomito nuovamente su Monique.
“Perdonami…non volevo”
“ io invece aspettavo proprio questo”
“ cosa? Ma sei matta?”
“No! Adesso ho di nuovo un motivo per spogliarmi”
“e allora fallo”
Monique aprì le gambe e spostò la mutandina, fece osservare per bene il suo oggetto misterioso ad Ian ed esclamò:
“ è piena di sabbia!”
“maledetta sabbia” inveì Ian
“la sabbia è un dono!” Esclamò Monique
“fanculo la sabbia, lavati con della birra…tieni!”
Monique versò delicatamente della birra tiepida sulla sua vagina, l’accarezzava orgogliosa quasi ne andava fiera. Ian versò di scatto un’intera birra sul corpo di Monique, risciacquandola dal vomito, il tanfo di birra e vomito era nauseante, Monique si levò in piedi e dall’alto osservava Ian disteso sul tappeto di vomito e birra, i due tacquero per alcuni attimi, si guardarono impulsivamente, Monique poggiò il piede destro sul lato sinistro del petto di Ian, che di colpo cambiò espressione:
“vuoi uccidermi”
“no! non ne sarei capace”
“stai puntando al lato sinistro, vuoi uccidermi!”
“no! Voglio solo che tu entri dentro di me”
“non toccare il mio lato sinistro!”
Monique lo guardò con aria tranquilla per poi colpire con freddezza il petto di Ian col suo delicato piede, Ian cadde disteso sul celebre tappeto di birra e vomito, il suo petto iniziò ad inumidirsi del sudore di Monique, filtrato dalla sua fessura principale, poggiò sulle labbra di Ian la sua vagina e iniziò a roteare il bacino per cinque interminabili minuti, si dimenava in maniera incantevole! D’un tratto s’arrestò mentre Ian continuò a baciare le labbra inferiori di Monique, la quale sussurrò:
“a scuola ero la migliore col cerchio!”
Si alzò, aprì la tende e andò via… Ian incredulo la chiamò più volte, non ebbe la forza di rincorrerla e impensatamente Monique s’accasò nel gruppo di persone lì di fianco… erano tutte nude ed ora anche lei!
Il vento approfittò della tenda aperta per spingervi della sabbia al suo interno, la tenda era diventata una bolgia di sabbia mentre Ian rimase immoto.
“Maledetta sabbia non mi lasci mai da solo!” esclamò.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?” Si chiese Giorgio a voce alta. La televisione stava trasmettendo le immagini di medici e di infermieri attrezzati con i dispositivi di sicurezza e le notizie non rassicuravano rispetto al numero dei contagi del Covid 19. “Certo che è un imbroglio” disse una voce sibilante. Giorgio sapeva di esser solo nella stanza. Si allarmò: “Chi ha parlato?” quasi gridò . Da dietro una poltrona sbucò fuori qualcosa che sembrava un piccolo pupazzo verde: “Ho parlato io, sono Lender e tu chi sei?” Giorgio era troppo spaventato. Telefonare ai carabinieri, alla polizia? L’avrebbero preso per pazzo. Pensò che tatticamente conveniva allearsi col pupazzo parlante, con Lender.”Io sono Giorgio. Come sai che è un imbroglio?” “Io sono un bambino. Nel mio pianeta, Lend, i bambini vengono poco considerati. Sono figlio del Presidente, ma nemmeno si accorgono se ci sono o non ci sono. Così vengo a sapere tanti segreti di Stato.” “Interessante. Io invece sono un anziano. Qui sulla Terra gli anziani vengono poco considerati e questo virus li attacca” rispose Giorgio e Lender:” Il virus lo abbiamo mandato noi. E’ diffuso su tutto il vostro pianeta. Poi si scoprirà che esiste Lend e saranno tanti i terrestri a scappare su Lend. Adesso sul mio pianeta vivono pochissime persone ed è grandissimo. Si tratta di ripopolarlo” “Capisco” disse Giorgio cercando di nascondere il tremito che lo aveva preso in tutto il corpo. “Come mai parli la nostra lingua?””L’ho imparata: è quasi un anno che sto qui” .Squillò il telefono fisso. Giorgio lo lasciò squillare finché non smise. Poi disse “Voi del pianeta Lend non prendete il virus?” “Certo che lo prendiamo, ma abbiamo delle punture che in due ore fanno guarire. Noi non moriamo per il covid19”
Giorgio chiese tante notizie sul pianeta Lend e alla fine propose un patto”Se noi pubblicizziamo il vostro pianeta subito, voi ci date quella puntura?” “Devo sentire mio padre, non posso essere così disubbidiente” Il padre acconsentì . Giorgio telefonò a suo figlio pubblicitario e in poche ore partì una grandissima campagna pubblicitaria del pianeta Lend “Belle immagini “ disse Lender e aggiunse “Ha detto un ministro che fornirà subito astronavi adatte a raggiungere il nostro Pianeta. Un altro ministro ha detto che recapita grossi quantitativi di quella puntura al vostro laboratorio di ricerca. Cos’è quella? “Giorgio rispose:“Una mela, da mangiare” e Lender: “La porto su Lend, così nascerà un albero, simbolo del patto che abbiamo concluso.” Giorgio pensò“Io non sono il Presidente della Terra, ma mi sembra che tutto vada bene ugualmente “
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
La Ragazza alzò gli occhi verso il Ragazzo, che appariva confuso e sperduto, lo sguardo vagante da un punto della stanza all’altro. Non che fosse una novità vederlo così, aveva spesso un’aria spaesata a causa delle medicine che prendeva.
Lei invece non aveva problemi di quel tipo.
“Devi stare tranquillo. Le pillole ti stanno facendo bene, non ti sembra di sentirti meglio rispetto al mese scorso quando sei arrivato?”
“Forse… può essere… non lo so,” ammise lui infine, chinando leggermente il capo. “Ma non ho scelto io di venire qui.”
Lo so bene, pensò la Ragazza, sistemandosi più comodamente sul divanetto accanto a lui. “Sono stati i tuoi?”
“Già… dicevano che avevo bisogno di aiuto…” Le lanciò un’occhiata penetrante, nonostante lo smarrimento che sentiva. “Ma non ne abbiamo bisogno tutti?”
La Ragazza non replicò. Non voleva rendere la situazione peggiore di quel che già era. Sarebbe bastato un nulla per provocare una reazione negativa da parte del Ragazzo e questo non era nell’interesse di nessuno.
“Io sono qui da sei mesi. E sto molto meglio. Presto potrei andarmene,” dichiarò con un sorriso che sperava risultasse rassicurante. “Tutti ci tengono a farci guarire, sai? Non penso sia molto divertente lavorare qui con un branco di gente piena di problemi psichiatrici e farci andare fuori di testa ancora di più.”
“Sì, ma… è difficile da spiegare, ho come questa sensazione di non essere nel posto giusto. E’ come se qualcuno si stesse divertendo ad usarmi come cavia. E se io in realtà stessi bene? Non sono certo più pazzo di altri! Ci ho pensato tanto…” fece una pausa, mordendosi il labbro. “E se i miei mi avessero spedito qui per i soldi? La nostra famiglia naviga in cattive acque da quando mio padre ha perso il lavoro, mia madre da sola non ce la fa. Ma se gli avessero offerto tanto denaro, scambiandolo con il mio corpo, per testare droghe-“
“Devi smetterla di fissarti su questi discorsi. Ti pare che nel 2020 una cosa del genere sarebbe possibile? Negli Stati Uniti? Dài, è dagli anni ’70 che hanno smesso di fare quelle cose alle persone. Il Presidente stesso ha chiesto scusa per le nefandezze di quel periodo.” La Ragazza infilò una mano in tasca e gli porse una barretta al cioccolato. “Guarda cosa ho rubato in mensa mentre erano distratti. Facciamo a metà?”
Voleva che il Ragazzo si mettesse l’anima in pace. Era da quando era arrivato lì che continuava a parlare di come quella clinica fosse una copertura per esperimenti segreti governativi. Perciò doveva distrarlo in qualche modo.
Lui accettò di smezzare il cioccolato con lei di buon grado, finalmente mostrando un sorriso sincero e aperto, e lei iniziò a fantasticare ad alta voce di quando sarebbero usciti di lì e tutto quello che avrebbero potuto fare tornando alla vita. Andare al cinema, a mangiare una pizza. Assistere a concerti, a spettacoli dal vivo. Passeggiare sulla spiaggia, respirando il profumo dell’aria salmastra che le mancava tanto.
Poi al Ragazzo venne sonno. Sicuramente un effetto collaterale di ciò che gli somministravano. La Ragazza lo coprì con un plaid mentre le palpebre di lui calavano lentamente e il suo fisico si lasciava andare a un riposo rigenerante.
——-
“Com’è andata?”
“Non credo che potremo dimetterlo a breve.”
La Ragazza indossò il camice bianco e sedette di fronte al computer, iniziando ad inserire dati.
“Si è accorto di quel che succede qui. Ogni tanto arriva qualcuno come lui,” mormorò la Ragazza, alzando lo sguardo verso il medico che si limitò ad annuire. “Bene… segna che dobbiamo raddoppiare le dosi.”
“Senz’altro, dottor Jenkins.”
“Questa clinica sarà in buone mani con te, quando andrò in pensione.”
“La ringrazio.”
La Ragazza lo degnò a malapena di un’occhiata, mentre il dottore lasciava la stanza. Continuò a inserire dati. Continuò a pianificare la routine dei pazienti.
Non conosceva altro modo di vivere.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
Disse Marcel, gettando sul tavolino una copia de La Presse:
“LES NOUVEAUX VISAGES DE L’ART”
G. Martin
“Qualunque imbrattatele abbia il proprio nome tra le righe di questo articolo, d’ora in poi vivrà di un credito indiscusso, che amministrato con scaltrezza sarà vitalizio di agio e notorietà ed io mi domando: se questa fosse solo una montatura?”.
Dopo un attimo di silenzio, esortò Alain:
_ “Riassumici la situazione”.
Alain dietro i baffi talentuosi e aguzzi, parve quasi discolparsi:
_ “Mancano 78 giorni all’esposizione, abbiamo 38 tele e 79 franchi”
_ “79 franchi” – scandì Marcel stringendo la nebbia in un pugno – “Cifra ridicola per la visibilità che ci occorre!” – e sbatté la mano vuota sul giornale – “Ascoltate” – riprese gravemente – “È molto che volevo parlarvene…”
Il 12 novembre 1920, 7 artisti seduti al tavolino di un caffè all’aperto in Boulevard De Clichy, mescolavano nella nebbia la condensa dei loro discorsi. Da lontano parevano marionette, guidate da quel burattinaio che è l’ardore degli animi giovani. Poi Marcel che aveva la testa più pesante del cuore, animò i compagni fin dentro la sua spregiudicata congettura:
_ “5 di noi scompariranno fino all’esposizione – Gerard potremmo venire a stare da te – lasciando circolare la voce di essere ad esporre a Vienna, Francoforte ed infine Londra. Intanto Pierre e George, i nostri dandies” – disse con cedevole ammiccamento – “Rimarranno a Parigi, come ad amministrare gli affari della compagnia. Il loro compito sarà di sbandierare sottilmente le nostre presunte fortune, convincendo quanti sarà necessario persuadere”,
_ “Critici e mecenati” – disse Pierre calatosi già nella parte,
Marcel annuì, compiaciuto che iniziassero a seguirlo.
_ “Come faranno a sbandierar fortuna? Nous sommes fauché comme les blés1” – s’affrettò Maurice,
_ “Coi 79 franchi. Non ne avremo più bisogno in seguito: gli impresari faranno a gara per ospitarci, come i tipografi per stampare inviti e locandine. Sarà piuttosto necessario far pubblicare un articolo come questo da Martin: con una tale investitura avremo diritto al nostro credito indiscusso!” – e picchiò di nuovo la mano sul giornale – “Yves tu che sei la penna migliore tra noi, scriverai 3 false quanto generose recensioni, che farò in modo Martin riceva da oltre confine”.
_ “Non lo convinceremo mai con 3 recensioni di vaga provenienza” – obiettò Maurice,
_ “Dimentichi il lavoro di Pierre e George qui a Parigi, ma hai ragione, serve dell’altro…”.
Marcel sembrò perplimersi per attimi nei quali la nebbia parve infittirsi, quando Maurice ebbe un guizzo:
_ “Gli venderemo l’intera collezione ad un prezzo simbolico! A quel punto magnificarla sarà per lui accrescere il valore del proprio patrimonio, per di più annoverare opere nella “collezione privata Martin” varrà una pubblicità impagabile” – si sarebbe detta sapienza teatrale, quella con cui soffocò in un gesto timide ritrosie, mentre in tono risoluto dava suggello al piano – “Cederemo i nostri diritti a due tra noi, che chiuderanno l’affare a Londra, dove Martin si recherà su invito a presenziare l’ultima esposizione. Ovviamente faremo in modo che arrivi con fatale ritardo, quando della mostra non sarà rimasto che un’eco di gloria facile da inscenare. A quel punto sarà persuaso ed esporremo a Parigi con un trionfo annunciato!”
_ “Mon dieu, vous êtes un diable!” – esultò Marcel.
I due si abbracciarono vigorosamente e tanto bastò, per sancire l’imbroglio in un giro d’Armagnac.
– Epilogo –
Il 31 gennaio 1921 erano trascorsi 80 giorni da quell’incontro e 10 da quando Maurice partì con Marcel alla volta di Londra. Yves, Pierre, George, Alain e Gerard sedevano in un caffè all’aperto in Boulevard De Clichy, parevano cinque sagome mollemente adagiate, come marionette cui avessero tagliato i fili. Sul tavolino una copia de La Presse:
“MARCEL ET MAURICE ÈTOILE DE L’AVANT-GARDE À LONDRES”
G. Martin
1 siamo al verde (lett. Siamo falciati come un campo di grano)
… e se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Pensate di rientrare dal lavoro e trovare una lettera nella vostra cassetta della posta.
Una busta gialla, con il vostro indirizzo scritto a penna sul retro e un francobollo con il timbro. Se la avvicinate al naso potete ancora sentire il profumo della persona che ve l’ha scritta. Che meraviglia prendere il coltello e aprirla come faceva la mia nonna, con cura, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Passare le dita sulla carta e sentire il calco della penna sul foglio. Ammirare la scrittura imperfetta, le macchie di inchiostro e la cura con cui le parole sono state scelte.
Ecco, oggi rientrando dal lavoro ho trovato una di queste lettere nella mia casella di posta, era lì che si nascondeva tra i cataloghi della LIDL e i volantini promozionali del sushi dietro casa.
Non pensavo esistessero ancora, credevo che le buste potessero contenere solo bollette o peggio ancora multe.
Quando ero piccola passavo molto tempo con mia nonna Teresina, lei mi ha insegnato a cucire, a fare gli orli dei pantaloni e a giocare a ruba mazzetto. Ma soprattutto, mi ha insegnato l’arte del lasciarsi corteggiare.
Mi raccontò che il giovane Piero, da poco arrivato in paese, le faceva il filo e le chiedeva spesso di poterla riaccompagnare a casa dopo la messa della domenica, lei rifiutava sempre imbarazzata. Lui non si arrese, passò tutte le sere alle diciannove in punto a lasciarle una lettera nella cassetta, aspettava all’angolo vicino alla Cartoleria fumando una Malboro Rossa, la guardava mentre scartava la busta e poi si allontanava.
Mia nonna mi insegnò il segreto dell’amore, la lentezza e la chiave delle lettere scritte a mano, sta proprio qui, nella meravigliosa attenzione per i dettagli.
Non ne avevo mai ricevuta una, fino ad oggi, mi sento elettrizzata, Chi mi avrà mai scritto una lettera? Un ragazzo che mi vede tutti i giorni sul treno ma non ha il coraggio di parlarmi? Inquietante, mi avrebbe seguita fino a casa per imbucare una lettera. Un vecchio fidanzato? Sarebbe una bella sciagura. Mia madre? Sì, lei potrebbe essere stata, non le rispondo mai al telefono, magari sta tentando un approccio epistolare. No, magari è tutto uno scherzo, la lettera è semplicemente vuota.
Sono corsa in casa a prendere le chiavi, con il fiatone ho fatto le scale fino al 4° piano, ho lanciato la borsa sul divano dove il gatto stavo dormendo beato, sentendosi urtato da qualcosa con il peso specifico di un mattone è saltato a terra terrorizzato. Mi sono messa a cercare la chiavetta della posta nel cassetto delle cose dimenticate, quello dove alcuni oggetti spariscono per anni per poi saltare di nuovo fuori, dove si accumulano così tante cose che poi alla fine pensi di non averle più e le ricompri.
Ci trovo degli accendini, un paio di bollette scadute, degli auricolari, un vecchio cd degli Smiths, un rossetto rosso e un’altra serie di inutili cianfrusaglie, lo sistemerò un giorno o l’altro. Ma della chiave neanche l’ombra.
Squilla il cellulare, ovviamente è mia madre, mi sento in copla per la lettera, rispondo.
“Mà, ora non posso parlare, sono impegnata, mi è arrivata una lettera. Sì, una di quelle scritte a mano, è nella cassetta della posta ma non so come prenderla. Giuro, non ti sto prendendo in giro….Mà? Mà?”, ha riattaccato, non me l’ha mandata lei.
Chiudo la porta e corro di nuovo al piano terra, la lettera è sempre lì, nella cassetta.
Cerco di infilare in quel maledetto buco tutte le chiavi del mio mazzo ma nessuna sembra essere della misura giusta. Inizio a tirare dei pugni come quando alle superiori compravo i taralli alla macchinetta e si incastravano nel rullo. Smetto perchè inizio a sentire un dolore atroce alla mano ma soprattutto vedo il signore del primo piano che mi spia dalla rampa delle scale, mi giro sorridendo e saluto con la mano, come se non stesse succedendo nulla. Maledizione!
Scendo con la cassetta degli attrezzi, cerco di forzare lo sportello, lo sto per aprire quando una voce dietro di me esclama: “Scusi lei, perchè sta cercando di forzare la mia cassetta della posta?”. L’avevo detto che era tutto un gigantesco imbroglio.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
La solita ora. Sudato fradicio, U. si sveglia fra le tapparelle appena abbassate, dalla fessura volgare, come se in fondo un po’ di luce sia giusto che debba passare. La stanza rimane nella penombra U. non si alza, rimane zitto e riflette. U. schiaccia il viso nel cuscino. U. chiude gli occhi. Inizia a scendere. Il respiro si reprime sommerso nella soffice piuma. Scende i gradini nebulosi di un gigantesco edificio completamente immerso nel buio. Scende e dei gradini accesi di bianco cominciano a plasmarsi ingrandendosi e distanziandosi a proprio piacimento. U. si guarda attorno percependo il nero delle pareti colare impercettibilmente. Nota che fra le sue mani vorticano e si poggiano con cura deformazioni di materiali rocciosi e scheggiformi, violacei. Incedono maliziosi, verso le sue braccia, verso il suo petto, assimilando i colori della tempesta macchiata di tenebra.
U. viene accolto dolcemente in un materiale malleabile e fluido. Intorno ad U. prendono forma ondulazioni cromatiche.
tilt.
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
U. apre gli occhi. E’ seduto sul divano del soggiorno. La stanza è fredda, il divano umido. Fuori il mondo avanza scorrendo su binari conformi agli standard più innovativi.
“Non capisci tutte queste tecnologie magiche? Questi strani oggetti capaci di…” Flop
U. non può fare altro che chiudere gli occhi. E Scendere.
Sbuck
U. si ritrova nei meandri oscuri di una coscienza distorta. Le fluttuazioni magnetiche rimbalzano su coniche di cemento corroso. Gli occhi si dilatano spasmodicamente. La bocca si allarga e si ricuce in sé stessa. U. cerca di nuotare verso l’oscurità. Cerca di scendere. Incede verso l’impetuosa corrente contraria. E Cede. Il suo corpo sussulta. Il corpo materico di U. si dissolve come polvere calcarea. Mentre continua a scendere.”
“Cosa diavolo!”
Risvegliatosi di colpo fra le mura di un enorme salone U., attonito, ammira le prorompenti navate infrangersi sul vetro fuso al blu abissale. Si rende conto di non riuscire più a controllare questo suo oscillatore di tricoscienza atomico. U. si ricorda che più l’oscillatore di tricoscienza atomico scava nei suoi ricordi più il suo pacchetto di memoria presciente a 64bit amalgama le memorie di rituali nefasti e concomitanze sociali melmose. In quel preciso istante entrarono nella stanza dieci unità speciali dineurali. Il corpo di U. esplose. Vide la sua capacità visiva sfumare in ondulazioni cromatiche sinuose. Vide i tavoli, le sedie poi l’interno salone contorcersi e dilatarsi, in un puro e stabile mutualismo materiale. La coscienza di U. iniziò a fluttuare compressa nel ricordo di un’estate di molti anni fa, nella casa di famiglia vicino Ipswich. L’atmosfera accogliente cullava l’eterea percezione fenomenica di U. Percepì il calore di quella giornata sulla propria membrana plus-epidermica. Fu in quel momento che vide un U. ancora bambino che con amabile commozione si perdeva nella scollatura della sua cugina più grande. Dei numeri fluttuanti e strisce di codici immersi nell’oblio compaiono dinnanzi al suo sguardo. Le unità dineurali, sazie, lasciano la messa in scena. Lasciano U. solo. Inerte U. stringe fra le mani il suo oscillatore di tricoscienza atomico.
“Ho fallito. Miseramente.”
Ad un tratto un uccello si posa sul davanzale dell’enorme vetro. Il suo sguardo è negli occhi di U., ormai vitrei e confusi. La paura dissolve l’energia disturbatoria della coscienza. U. pensa. E’ un attimo. Preme il pulsante di riconversione ancestrale. Zaaaaaap. Riscrive la rotta trifasica sul convertitore bineruale portatile. Il salone si riempie di fantasmagoriche vorticomagie luminose. U. stabilizza i parametri dell’onda delta. Le impostazioni di conversione iperuranica si dispongono nell’assetto prestabilito dai parametri intercoscienti. Spartf. L’oscillatore di tricoscienza atomico riporta U. sul piano fenomenico dei fatti.
“Quale sconvolgente accaduto.”
“Che incredibile cambiamento di trama”
“Quale estenuante ritornello psichedelico”
U. vira lontano con un ultimo colpo cerebrale, ed ormai può ritenersi al sicuro dalla messa in scena. Ad U., povero auto-eroe squattrinato, non resta che fare la spesa con i pochi soldi che gli rimangono e il dubbio che la tecnoscienza abbia in qualche modo manipolato e intercettato le sue pseudotrasmissioni. E non resta che tornare fra le curve assecondanti delle coperte, fra i morbidi desideri di piuma e preparare le vettovaglie per il prossimo viaggio, in cerca di altro preparato purpureo. Adesso è il momento che U. lasci queste fatiche ai luridi droidi ad apprensione programmata e si rifocilli la folta nervitudine di omeomaria sintetica.
Addio viaggiatori.
Se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Tullio aveva rinunciato a molte cose per realizzare il sogno di vivere da solo. Si era sposato, ma aveva divorziato. Gli piaceva la musica e suonare la chitarra e la batteria, ma tra le cose che aveva abbandonato c’era pure questa. Non per una questione metafisica e trascendentale, ma per non venire meno al suo insano proposito di solitudine, proprio questa non doveva e non poteva mettere da parte. Se, infatti si fosse lasciato andare e si fosse messo a suonare la batteria, che tra l’altro nemmeno possedeva, avrebbe dovuto frequentare un gruppo di amici e una sala prove. Questo non coincideva col fine che si era proposto…
Ermetico. Paranoico. Pauroso. Psicotico…
Era figlio di suo padre, un insegnante, votato alla politica; e di sua madre, anch’essa insegnante, ma amante dei viaggi e del benessere, in contraddizione ostentata e perenne con gli ideali di suo marito.
“Mio padre. Non so che dire di mio padre. Non so che dire di mio padre…Non se fosse vittima o complice del sistema, fatto sta che tra le cose che mi diceva c’era quella di aver gabbato il regime di Mussolini: era riuscito a non partire volontario nella Campagna d’Africa, dove l’Italia non aveva fatto una bella figura.
In seguito, a liberazione avvenuta, si iscrisse alla P.S.I, e, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta venne eletto sindaco da una giunta P.C. I-P.S.I in un piccolissimo paesino di origini albanesi in Calabria, Carfizzi, nel crotonese sopra Cirò e ad un tiro di schioppo da Melissa, il comune dove alla fine degli anni cinquanta i contadini occuparono le terre e l’onorevole Scelba in risposta aveva dato vita alle forze di pronto intervento, la Celere, che avrebbe dovuto risolvere i casi del genere e quelli che si sarebbero potuti riproporre in tutta Italia”.
A Carfizzi Tullio vi trascorse interamente tutta l’infanzia. E, siccome era nato a Soverato, piccola e rinomata località amena sulla costa ionica dove pure i Salesiani avevo un collegio. Fu la fama di cui questi godevano a indurre i genitori di Tullio a mandarcelo. Un trauma!
Fu allora che Tullio, con mille difficoltà, imparò che l’adattamento ad un ambiente nuovo è necessario quando sopravvengono ragioni superiori a mettere in discussione l’equilibrio psicologico. [Continua]
Tullio si sparò in testa una settimana dopo l’iscrizione all’Istituto Salesiani di Soverato.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio quello che ho visto? Come sempre, svoltare a destra o sinistra non cambia. Ma una volta usciti dal cancello tutte le mattine la scelta ci sospende per qualche secondo. Per una misteriosa casualità la scelta cade solitamente a destra, forse perchè l’angolo successivo è più vicino alla direzione che vogliamo.
Queste uscite leggere hanno una direzione, ma non un percorso predeterminato. L’importante è che la passeggiata non duri più di qualche decina di minuti e ci faccia raggiungere un bar, preferibilmente diverso da quello del giorno prima. La sola aspettativa è quella che il bar disponga del solito quotidiano, locale, e che questo sia libero dalle attenzioni di qualcuno che creda di esserne il proprietario.
Raggiunto l’obbiettivo ed acquisito il giornale inizia lo stesso rituale. Comincia a leggere chi attende che il cappuccio si intiepidisca, mentre chi beve il caffè racconta la giornata che lo attende. Poi le parti si invertono.
I rituali hanno una loro attrattiva e potere di pace. Come le messe, sempre uguali nei tempi e nella modalità. Spesso anche nel contenuto, se non si vuole avere il tempo di conoscerlo. Forse per questo non mi hanno mai convinto le scelte dove tutto viene rimesso sempre in discussione, magari cambiando tutti gli elementi che ci circondano. Le grandi cose sono come una bellissima grotta. Quanto tempo una goccia dopo l’altra sono dovute cadere per creare quello che l’uomo non sarà mai in grado di riprodurre.
Il quotidiano, per quanto locale, riporta una notizia inaspettatamente meno banale di un pompiere che salva il gatto dall’albero sul quale è salito. Con tutto il rispetto per l’albero.
Apriranno la sede di una nuova banca. Nella zona dove viene citata questa prossima aperta avevamo già notato quel cantiere, dove era evidente la prossima apertura di una nuova attività. E quel via vai di piccoli artigiani che si succedono mi infonde sempre quel piccolo piacere nel vedere l’economia che si muove. Vedere i furgoncini, che immagino sempre padronali, posteggiati intorno ad un cantiere preferibilmente piccolo mi trasmette la fiducia di una economia viva, quasi contagiosa.
L’articolo era ben scritto e conteneva anche una brevissima intervista ad un manager dell’azienda capofila. Senza indicare contatti precisi, citava la possibilità di nuove assunzioni. Già questa notizia mi piaceva meno. Sentendomi attratto dalla descrizione del milanese imbruttito ho subito pensato a quanto potesse essere anacronistico aprire una banca in un paese pieno di banche dove le stesse fanno a gara per chiudere. Non leggo mai un articolo per più di qualche secondo. Supero raramente il titolo perchè questo sfogliare mi serve solo per sospendere qualche secondo il tempo e le cose. Il ritorno è forse più bello perchè in questa stagione è bastato poco al sole per scaldare la giornata.
Anche oggi svoltiamo a destra ma decidiamo un luogo più lontano. La giornata è piacevole, è ancora presto ed i primi impegni della giornata ci concedono qualche minuto in più per camminare. Anche i rituali hanno i loro imprevisti, dobbiamo essere pronti alla delusione che deriva dal constatare che non tutti i caffe sono buoni allo stesso modo. Ma in fondo a noi piace più il viaggio dello scopo per cui lo facciamo.
Per la seconda volta in due giorni lo stesso articolo. In realtà non esattamente lo stesso. Lo rileggo meglio; è diverso. Si parla sempre di una nuova attività, mi ha tratto in inganno la stessa zona di apertura. Non mi incuriosisce più il contenuto ma come è strutturato l’articolo. Una iniziale descrizione dell’attività ed una breve intervista al presunto responsabile.
Questa volta il mio ritorno è più silenzioso, chiedo però di passare dove ho visto quel cantiere il giorno prima. Rallento per capire quei lavori dove porteranno, mi basterebbe anche solo un’indizio all’interno del quale navigare. Ma…non ho mai visto artigiani con scarpe così pulite, nessuno con la sigaretta in bocca e tutti con il caschetto. Sospendo questo istante insieme al mio sospiro come se riuscissi a congelarlo per fotografare ogni dettaglio…ma un volto si gira e mi sorride. È solo un attimo che rimarrà nella mia mente fino al giornale di domani.
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?
Lanciai uno sguardo alle mazzette di banconote false stipate nella borsa di pelle che stringevo fra le mani e poi alla macchina parcheggiata al di là del cespuglio dietro cui ci eravamo nascosti.
Questa volta sarebbe stato davvero troppo facile.
Mi voltai verso il mio socio, inginocchiato sull’erba vicino a me. “Danny, dimmi una cosa: quanti colpi abbiamo fatto, io e te?”
Aggrottò per un attimo le sopracciglia scure. “Trentasei.”
“Già. E quante volte è successo che trovassimo il malloppo in una macchina abbandonata, senza nemmeno un cristiano a sorvegliarla?”
“Neanche una, Nick.”
“Già…” Infilai la testa fra le foglie per sbirciare di nuovo la Ford nera parcheggiata sull’altro lato della strada. Guardai a destra, poi a sinistra. Niente. Non c’era anima viva.
Che mi prenda un colpo se qualcuno, qui, non gioca a fare il furbo!
Danny e io eravamo in questo business da tredici anni, ormai, e ogni colpo andava sempre più o meno allo stesso modo: una famiglia ricca sfondata contattava la polizia per denunciare il rapimento della figlia, o del cane, e Frank del reparto speciale ci avvertiva al volo.
Non succedeva quasi mai che non pagassero il riscatto e quando veniva il momento dello scambio, entravamo in gioco noi.
Eravamo diventati così bravi che ci bastavano quaranta secondi. Quando rimaneva solo un uomo a sorvegliare la macchina coi soldi, in attesa dei rapitori, Danny metteva fuori gioco la guardia e io sostituivo il bottino con una borsa piena di banconote finte.
Et voilà! Rapido e indolore.
Quando lo sbirro si svegliava, non sapeva chi gli avesse messo il braccio al collo ed erano tutti troppo orgogliosi per raccontare a qualcuno di essere svenuti proprio nel momento in cui serviva di più che stessero svegli.
Ma oggi non c’erano guardie da strangolare. Ed era davvero troppo strano.
Il rumore di un motore in avvicinamento mi fece sobbalzare. “Via! Se i rapitori ci trovano qui, ci ammazzano!”
Ci lanciammo di corsa.
Vedevo la mia moto a un centinaio di metri di distanza, quando udii il grido di una voce familiare. “Prendeteli!”
Non è possibile…
Persi l’equilibrio e caddi con un tonfo, poco prima di sentire qualcuno strattonarmi le braccia dietro la schiena e infilarmi le manette. La borsa rotolò a terra e si spalancò, facendo volare banconote ovunque.
“Fregarti è stato più facile del previsto.” Mi immobilizzai, la voce di Rose come un getto d’acqua gelida lungo la schiena. “Ti facevo più intelligente di così, Nick.”
Lo sbirro che mi aveva ammanettato mi voltò con uno strattone, costringendomi a guardarla in viso. Il disgusto che le leggevo negli occhi mi colpì dritto nello stomaco.
“Quando sono entrata per la prima volta nella tua villa, mi son detta: ‘eddai, Rose, magari è ricco di famiglia!’ Mi sono illusa per mesi che fossi davvero un innocuo, onesto barman. Quanto sono stata idiota!”
No, no, no… non sta succedendo veramente… “Rose…”
“Non ci provare!” Mi zittò con uno schiaffo.
“Quando ti ho sentito parlottare con Frank di soldi e di rapimenti, ho sperato con tutta me stessa che fosse tutto un malinteso. Ma poi l’ho interrogato…” Si asciugò gli occhi col dorso della mano. “Sei un fottuto pezzo di merda, Nick!”
Chiusi gli occhi. Guardarla mi faceva troppo male.
C’era una sola regola che non infrangevo mai: non immischiarmi con le poliziotte. E ci ero riuscito egregiamente, finché il Capitano Rose Jennings non era entrata nel mio bar e aveva ordinato un whisky, sei mesi fa.
Con quei capelli di seta nera e quelle labbra che accarezzavano il bicchiere come glassa su una torta, mi era bastato uno sguardo per capire che quella donna sarebbe stata la mia rovina.
Mai, in vita mia, avevo avuto più ragione. E mai, in vita mia, avevo desiderato tanto di sbagliarmi.
“Rose, io…” Cercai qualcosa, qualsiasi cosa, da dire, ma dentro di me sentivo solo l’eco delle bugie che mi avevano appena rovinato la vita.
Cercai il suo sguardo, l’assoluzione che solo lei poteva darmi, il perdono che non meritavo, ma vidi soltanto la curva inflessibile delle sue spalle mentre si allontanava da me.
“Portatelo via.”
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”.
“Non capisco di cosa tu stia parlando!”
“Del fatto che ci hanno detto di restare chiusi qui ad aspettare il premio”
“Beh, è così che funziona!”
“È così che funziona per loro!”
“Sono le regole”
“Fate silenzio voi due! Sta arrivando qualcuno!”.
Si rimisero tutti a sedere ai loro posti, chi per terra, chi sul tavolo, chi sui davanzali della finestre cieche.
“Bene, bene. A quanto pare siete rimasti qui – disse l’uomo con la maschera a becco battendosi le mani con una spoletta di cotone – e dire che avrei scommesso che sareste scappati tutti dalla porta del paravento di cuori!”.
Mizzi guardò suo padre. Possibile che fossero lì da giorni e che nessuno avesse notato la porta? Tutti gli altri fecero finta di non aver sentito. Conveniva fare così e rimanere lì fino a che glielo avessero imposto. Scappare avrebbe significato perdere.
“Torneremo più tardi e, se sarete ancora tutti qui ai vostri posti, vi daremo il premio!”. L’uomo con la maschera a becco si voltò e andò via seguito dal fedele assistente dalle gambe corte e le orecchie lunghe.
“Scappiamo!”
“Non possiamo Mizzi! È una trappola! Non hai visto il tizio con che faccia ha guardato quel paravento?”.
“Ma se aveva la maschera! Non hai di certo visto la sua faccia!”
“È un modo di dire Mizzi!”
“Papà, lasciamo perdere i modi di dire e andiamo via!”
“Dobbiamo restare!”.
“Ma come? Proprio tu che sei così stanco di restare qui e che vuoi tanto rivedere Mamma!”
“Dopo aver visto la faccia di quello lì ho pensato sia meglio restare!”
“Non gli hai visto la faccia! Aveva la maschera!”
Dal davanzale di una delle finestre cieche un omuncolo intimò loro di stare zitti. Che se ne andassero se volessero andare e che restassero se volessero restare, ma in silenzio! Lui riusciva a dormire solo quando intorno c’era silenzio e, del resto, quelli erano i patti del gioco!
“Ma questo non è più un gioco, è una prigione!” Gridò Mizzi.
“Calmati ragazzina dalle code buffe!” Rispose un uomo di viscosa rannicchiato su una piastrella a forma di rana.
Mizzi per tutta risposta si aggiustò le code e continuò: “Ma non capite che non ci sarà nessun premio? Ci avevano detto che saremmo rimasti qui dentro solo tre giorni e ne sono già passati cinque, forse sette perché non abbiamo girato sempre in fretta la clessidra!”
“E allora? Che hai di meglio da fare?” obiettò una donna con delle pistole a d’acqua tra i capelli.
“Sentiamo che cosa ha da dire, avanti! Lasciatela parlare!” Disse un medionano con due piccoli televisori come occhiali.
Mizzi guardò suo padre che le fece un cenno di approvazione.
“Avevano detto che avremmo visto la luce del sole di tanto in tanto e invece non la vediamo mai! Avevano detto che ci avrebbero portato acqua fresca ogni giorno, ma ci portano sempre brodo caldo e quel dolce di caleidoscopio che avevano promesso non è mai arrivato!”.
La sala si riempì di un brusio fatto di riflessioni e commenti fritti. Mizzi prese le mani di suo padre: “Andiamo via”.
“Va bene Mizzi andiamo, ma non usciamo dalla porta del paravento. Quella è di sicuro una trappola. Dobbiamo trovarne un’altra”.
“E come?”
“State forse cercando questa?” Chiese l’uomo di viscosa alzandosi dalla sua piastrella. “Traballa tutto qui, è di sicuro una porta!”.
“Torniamo da mamma!” Incalzò Mizzi.
Mizzi e suo padre scomparirono sotto alla piastrella. Nessun altro osò seguirli. Avevano paura di perdere il premio.
L’uomo dalla maschera a becco e il suo fedele servitore dalle gambe corte e le orecchie lunghe tornarono per servire il brodo. Ogni volta dicevano che sarebbero tornati poco dopo con il premio ma invece del premio arrivava il brodo.
Mizzi e suo padre erano tornati a casa.
“Oh cara, come sono cresciute le tue code!” – disse Mamma stringendo a sé Mizzi mentre al telegiornale parlavano dell’esperimento dal quale erano fuggiti. I partecipanti ancora in gara si stavano spegnendo nell’attesa di un premio che non sarebbe arrivato mai.
“Sai Mizzi? Si sono accesi solo quella volta in cui hai parlato tu!”
“E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
pensava così Gattordici, il grosso gatto grigio tigrato della famiglia Malvolti, mentre Clara sventolava con una mano uno di quei bastoncini piumati che tanto piacciono ai felini, sorridendogli affettuosamente.
“Mi avvicino e provo a prenderlo o rimango qui a distanza di sicurezza?” si domandò il gatto, non perdendo di vista l’aggeggio ma rimanendo ben fermo, acquattato pancia a terra.
Era uno di quei tipici dilemmi che ogni gatto domestico si pone almeno cinque volte in una giornata e solitamente quando un essere umano tenta di prenderlo in braccio per riempirlo di baci soffocanti.
A Gattordici però piacevano molto i bastoncini piumati e Clara questo lo sapeva bene. Infatti si avvicinò di un passo con sguardo determinato, intensificando il movimento agitatorio della mano. “Micio, micio…vieeeeni, vieni qui” disse con tono mellifluo.
Gli occhi verde limone del gatto guizzarono verso le piume colorate, spalancandosi pieni di desiderio. Le sue zampe posteriori scalpitarono sul pavimento, facendo alzare sedere e coda in un buffo movimento ondeggiante. La testolina pelosa si abbassò puntando in avanti, attenta. Gattordici era pronto ad attaccare.
E poi gli balenò di nuovo quel pensiero: “E se stesse cercando di fregarmi? Se nel cercare di catturare la mia preda diventassi io stesso preda?”. Ora, potrebbe sembrare strano che un gatto utilizzi i congiuntivi ma Gattordici era un gatto molto istruito, e poi, in realtà, anche se non tutti lo sanno, i gatti hanno una padronanza della grammatica migliore di quella di molte scimmie.
Era assorto in questi pensieri Gattordici, quando alle sue spalle sentì un rumore, il tempo di rizzarsi sulle zampe e voltare la testa e si trovò chiuso da sbarre e plastica azzurra. Il maledetto trasportino! Sopra di lui, la voce del Signor Malvolti esclamò: “Preso! E ora dritti dal veterinario, ci stanno aspettando”.
“Nooo… la vaccinazione! Me n’ero dimenticato!” si lagnó il gattone grigio all’interno del trasportino. Quello che, però, Clara e il Signor Malvolti sentirono fu solo un fastidioso e infastidito: “Miaooooo…gnaooo, gnaooo!”.
Tanti non sanno che per quanto i gatti siano dei discreti pensatori e degli ottimi utilizzatori di congiuntivi, non sono molto bravi a quantificare il tempo e a ricordarsi gli appuntamenti, tipo quello annuale di Gattordici con il veterinario per il richiamo delle vaccinazioni, che invece la famiglia Malvolti non dimenticava mai grazie a quegli aggeggini squillanti che avevano sempre tra le mani. Maledette scimmie!
E se fosse tutto un gigantesco imbroglio? Si, un enorme, gigantesco, meraviglioso imbroglio. L’ho conosciuto 8 anni fa, per lavoro, per caso, forse, non è sempre un caso? Potrei aprire un dibattito infinito sul caso e sul destino, io, al destino non credo, ma penso che il caso, quando vuole, ci si mette proprio d’impegno ad incasinarti la vita. Si, parlavamo d’imbroglio e vi prometto che poi, ci arrivo, ma ora vorrei parlarvi del gran casino che questa persona ha portato nella mia consueta e ordinata vita. Si, perché quando lo riconosci l’amore, dopo circa 10 secondi che lui ha iniziato a parlare e senti le farfalle nello stomaco, le campane che suonano, i fiori che sbocciano e gli uccelli che cinguettano, beh, quello è il momento che dovresti scappare, dire grazie, è stato un piacere conoscerti, ma devo andare via, iniziare a correre, correre, correre.
Tutta la vita che correvo, tutta la vita che mi tenevo lontana dall’amore, dall’impegnarmi, dal scelgo questo, no, no, non scelgo proprio, che è meglio.
E poi arriva questo qui, che in 30 secondi ti fa vedere le stelle, si, te le fa proprio vedere e inizia a raccontarti delle costellazioni, di Cassiopea, e tu pensi, si, è quello giusto, sei già cotta dopo 10 minuti che lui ha dato ampio sfoggio del suo sapere, di un copione che avrà ripetuto tante e tante volte, ma tu, mica ci pensi a questa cosa qui, no, che non ci pensi, sei solo lì che lo guardi come una triglia che è stata appena pescata, hai abboccato all’amo, sei già sua.
Quando te ne rendi conto, è ormai tardi, lui ha solo iniziato il suo gioco e tu sei una pedina nelle sue mani.
Il suo piano è ben architettato, conosce già le prossime mosse e soprattutto ci ha messo così poco tempo a capire come farti capitolare, trasparente come sei, una bambina, fragile come il volo di una farfalla, innocente quanto basta, vulnerabile.
E, ovviamente, la prima sera neanche ci prova, così da farti passare la notte a chiederti: Perché? Ma magari neanche gli piaccio, non mi ha baciata, perché non sono il suo tipo o magari, chissà, è anche impegnato.
Tu non glielo hai chiesto e lui si è ben guardato dal dirtelo o dal fartelo capire, sei solo un altro trofeo da aggiungere alla sua collezione, ma non la prima sera, troppo banale, troppo scontato e di lui, hai solo capito che fra gli aggettivi che gli attribuiresti banale non verrà mai menzionato.
E banale non lo sarà mai, ha capito che tu stai cercando l’amore, che vai pazza per questi gesti stupidi, che credi che l’amore sia fatto di piccole cose, che le piccole attenzioni ti riempiranno la vita, che vuoi le canzoni, le poesie, proprio come un adolescente, anche se adolescente non lo sei più da un pezzo.
Ti ha fatto una fotografia, si, ma non solo in senso figurato, no, ti ha proprio fatto una foto, con la sua costosissima macchina fotografica, dei suoi tantissimi talenti avrà moltissimo tempo per vantarsi, e tu starai lì a pendere dalle sue labbra, a saziare il suo ego smisurato, perché è quello che sta cercando, una fan, un’altra ammiratrice.
E ha capito che tu non vuoi solo un rapporto fisico, no, tu vuoi le passeggiate e le lunghe chiacchierate e sei innamorata dell’amore e sei così ingenua che ti bevi qualsiasi cosa ti dica, e ce l’hai scritto in fronte “ crocerossina”, vuoi salvare le anime perse, vuoi salvare il mondo, ne hai fatto anche un lavoro, e giù con discorsi sulle delusioni d’amore, il suo cuore spezzato, è passata solo una settimana e tu sei ancora seduta su quelle scale a consolarlo per tutte le sue storie sbagliate.
Cercavi l’amore e hai trovato un amico? No, non sei tu che non hai capito niente, lui non è un tuo amico, lui ha messo su tutto questo teatrino perché in realtà è alla tua amica che ha puntato ed è la tua amica che sceglierà, ricambiato.
É stato un grande imbroglio, un enorme, meraviglioso imbroglio. L’amore, a volte lo è, l’amore può esserlo un imbroglio quando tutto ciò che guardi è filtrato da questo sentimento che appanna gli occhi, che ti fa vedere il bello anche dove non c’è e che a distanza di tempo ti fa ancora sentire le farfalle nello stomaco.