Ci fu un lungo silenzio rotto solo da…
Ci fu un lungo silenzio, rotto solo da quel picchiettare della bacchetta magica sulla sua testa, segno evidente che la Fata stava pensando…
Poi, finalmente, la bacchetta le planò sul grembo e lei fissò un attimo i miei occhi, per poi chinare il capo, arrossendo.
“E’ tutta colpa mia, Messer Principe”, farfugliò.
“Colpa mia?- replicai- Che significa, colpa mia? Che c’entri tu con il fatto che Cindy continua a spazzare peggio di quando era succube della matrigna e delle sorellastre? Ti ho chiesto un incantesimo che la rinsavisse e mi esci con questa cosa? Fammi capire…”
Passò un lungo istante, in cui la bacchetta si sollevò di nuovo sprizzando fugaci stelle, poi la Fata riprese a parlare.
“E’ cominciato tutto quando Grimilde andò a trovare sua cugina, la matrigna. Che brutta parola, matrigna, fa pensare a una persona malvagia; invece fino a quel momento lei, a Cenerentola, le voleva bene…dove ero arrivata?”
“Stavi raccontandomi che tutto era iniziato quando…”
“Ah, sì. Le due (sai com’è, sono donne), decisero di andare a fare un po’ di shopping; così lasciarono sole Cenerentola e le due sorelle a giocare. E successe, letteralmente, il patatrack”
Cominciavo davvero a incuriosirmi…
“Cioè?”
“Hai presente lo Specchio, vero? Quello della più bella del reame?”
“Certo…e quindi?”
“Grimilde aveva portato lo Specchio con sé; probabilmente, anche, per far morire d’invidia la cugina che, ehm, non è quel che si dice…ma non divaghiamo: lo aveva lasciato in un angolo della sala e cosa fanno Cenerentola e le due sorelle? Si mettono, lì, a giocare a moscacieca!”
Un urlo strozzato mi uscì dalla gola.
“Oh, per Gandalf! mi stai dicendo che…”
“Proprio così, Messer Principe. Nella foga del gioco Cenerentola urtò lo specchio e lo fece cadere. Credo sia facile, intuire le conseguenze…”
“Ma, ma – replicai balbettando – lo specchio era ben integro, quando, non molto tempo fa, decretò che era Biancaneve la più bella!”
La Fata mi guardò in modo strano…
“Già, Biancaneve. Perché, a te ti attizza?”
Ci pensai su.
Solo un attimo, a dire il vero: perché se confrontavo la povera Bianca con Pocahontas…e soprattutto con Jessica Rabbit (deglutii a vuoto, a quel pensiero…) “Beh, ecco…”
“Eh no che non ti attizza, e come potrebbe? Con quei capelli pitch perfect acconciati in quella maniera, quel visino da bambina paffutina…”
Fui io, a quel punto, a interromperla.
“Sta di fatto che il Principe Azzurro…”
Lei mi guardò, e una lacrima luminosa le salì dagli occhi…
“Oh, ad alcuni uomini le bambine piacciono. E piacciono molto”
Mi alzai come una furia…
“Per gli spinaci di Popeye!, non mi dirai che Azzurro…”
“Già, e non solo: ricordi come si sono incontrati? Lui da solo nel bosco e ti vede sta bimba, dove? In una bara di cristallo, circondata da sette nani. Bella, come tomba, ma sempre tomba, era.
E lui che fa? Si china, e bacia il cadavere!”
Ululai
“Per la scarpetta! Non solo pedofilo, Azzurro. Anche necrofilo! Ma guarda cosa, ma guarda cosa…”
Non so per quante volte ripetei come un idiota ma guarda cosa, so che a poco a poco mi calmai, ripresi lucidità…
“Però, …continuo a non capire. Lo specchio era integro, quando disse che era Biancaneve, la più bella. O no?”
La fata sospirò, divenne rossa come la mela avvelenata, di nuovo chinò il capo…
“Chiamarono me, Cenerentola e le sorelle, quando avvenne il patatrack. Io cercai di rimediare, feci davvero il possibile. Chiesi alle tre di passare con la scopa la sala, di raccogliere ogni più piccolo frammento di vetro e di consegnarmelo. Lo fecero e io pronunciai l’incantesimo, sperando che fosse quello giusto…mi illusi di sì, quando vidi lo specchio magicamente ricomporsi. Capii di no, quando cominciò a sparare sentenze strampalate come quella della bellezza di Biancaneve…”
“Grande Puffo”, farfugliai, mentre iniziavo a capire.
“…le due sorelle cominciarono a ricattare Cenerentola, minacciandola di dire tutto alla mamma e a Grimilde, accusandola per di più di ogni sorta di nefandezza…fino a che anche la matrigna si persuase della sua malvagità e cominciò a trattarla come sai. E Cenerentola si convinse che lo specchio funzionasse male non per un mio errore, ma perché non aveva raccolto tutti i pezzi di vetro. E’ per questo che spazzava, per questo lo fa ancora…”
Valutazioni Giuria
1 – NEL MONDO DELLE FIABE – Valutazione: 22 Giud.1: Bella l’idea di una fiaba con diversi personaggi tradizionali e non, ma nell’insieme il racconto è frammentario e spesso ne perdi la trama. Giud.2: molta fantasia, forse troppa. racconto troppo frammentato per la leggibilità Giud.3: Idea simpatica, alcune trovate esilaranti, ma incoerenze nei tempi verbali e punteggiatura imprecisa o mancante Giud.4: Benchè crudele, non avrei cacciato il cattivo prima della fine, in quanto ha corrotto l’intero racconto. L’episodio però, permette di non allungare la trama oltre il limite delle 4300 battute |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da quel suono terribile!
“Cztoulh, cztoulh”
Un suono che penetrava le orecchie in un modo assolutamente fastidioso.
Saliva dal piano sottostante della casa.
Quella casa che lui e i suoi colleghi, i disinfestatori, erano stati chiamati a liberare dalla creatura.
Appena giunti avevano cominciato le operazioni di routine. Lui era salito al piano superiore a verificare la situazione; i suoi tre amici e colleghi avevano cominciato a lavorare al piano terra.
Poi improvvisamente il silenzio e quel suono orribile.
Rieccolo.
“Cztoulh, Cztoulh”.
A nulla serviva ripararsi le orecchie. Il suono penetrava nel cervello, senza pietà.
Un suono terribile. Quando smise si accorse che non sarebbe riuscito a riprodurlo in alcun modo, non sarebbe riuscito a descriverlo. Faticava addirittura ricordarlo.
Doveva scendere per controllare cosa stesse succedendo.
Improvvisamente i colori scomparvero e tutto diventò varie gradazioni di grigio, terribili a vedersi.
Guardò fuori dalla finestra tutto sembrava normale.
Poi di nuovo: “Cztoulh, Cztoulh”.
Ogni volta si presentava sempre più intenso, peggio, adesso sembrava trapassare l’anima stessa.
Cominciò a scendere le scale per raggiungere i suoi amici.
Quando scorse un mucchio di abiti, si avvicinò per osservare meglio: si ritrasse inorridito, era il corpo di Simone arrotolato in modo incomprensibile ed impossibile come se qualcosa avesse estratto o polverizzato tutte le ossa del corpo e poi lo avesse arrotolato come una bambola di pezza.
“Cztoulh, Cztoulh”.
Fu ancora quel suono terribile a scuoterlo e l’improvviso odore di salsedine che aveva permeato l’aria.
Impossibile! Non si trovavano in una località di mare.
Alla base delle scale fu accolto da una visione terrificante.
Un ammasso di organi umani sanguinanti ricopriva l’ultimo gradino!
Di chi erano? Giorgio oppure Arianna?
Non riuscì a trattenersi e vomitò!
Un terrore crescente gli impediva di ragionare lucidamente.
Doveva scappare; trovare l’ultimo compagno e scappare!
“Cztoulh, Cztoulh”.
Ancora quel suono maledetto!
Tutto intorno il grigio incombente, l’odore di salsedine che si faceva nauseabondo ed ora anche una terribile umidità!
Faticava a respirare!
Si diresse verso il suono.
Sopraffatto dall’assalto ai sensi non si accorse del corpo disteso a terra finchè non vi inciampò.
Cadde a terra, il suo viso a pochi centimetri da quello inespressivo di Arianna.
Scosse il corpo nella speranza di una reazione.
Subito se ne pentì. Brandelli di pelle si staccarono e caddero a terra, come sabbia essiccata dal sole.
“Cztoulh, Cztoulh”.
Ora la paura era stata sostituita dall’odio! Doveva trovare la creatura! Doveva ucciderla e vendicare i suoi amici!
A fatica si rialzò.
Si trascinò verso la direzione da cui proveniva quel suono, ora incessante.
“Cztoulh, Cztoulh, Cztoulh, Cztoulh”.
Il cervello sembrava trapanato da quel suono, l’odore di salsedine era nauseabondo, a fatica riusciva a non vomitare nuovamente, l’umidità rendeva impossibile respirare, sembrava di essere immersi nel mare.
A rendere tutto più irreale quel terribile grigio che permeava ogni cosa!
“Cztoulh, Cztoulh”.
Il suono era fortissimo: finalmente aveva raggiunto la creatura, ancora pochi attimi e l’avrebbe vista!
“Papà ho sete!”
“Ma uffa Marco sempre sul più bello!”
“Ma io ho sete”
“Buoni bambini. Mara ora diamo da bere a tuo fratello e poi….”
“Poi di corsa a letto! E’ tardissimo e tra poco arriva la mamma! Se vi trova ancora svegli e se vede che razza di storia vi sto leggendo, trasforma me in un ammasso di organi sanguinanti!”
“Forza a letto!”
In breve il silenzio scese sulla casa, rotto solo dal rumore della porta che sia apriva
“Caro, sono tornata! ”
“Ma cos’è questo strano odore. Sembra…salsedine”
Valutazioni Giuria
2 – La creatura – Valutazione: 27 Giud.1: Racconto interessante nell’insieme, le frasi bevi e gli attimi di suspance interrotti velocemente lo rendono incompleto. Giud.2: racconto con molta fantasia, leggibile. buona la sintassi. finale a sorpresa. suspance e coinvolgimento per il lettore. bella l’escalation. Giud.3: Troppe ripetizioni, punteggiatura mancante qua e là. Per il resto scorrevole e un bel finale con sorpresa Giud.4: terrificante, orribile, terribile… per quanto il registro scelto possa essere immediato e semplice, ogni narrazione merita un lessico un po’ più completo. Non amo questo spezzettamento dei periodi, ma il ritmo è abbastanza sostenuto. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal fragore assordante dei tuoni che si inseguivano come cavalli fiammeggianti nel cielo nero come l’antro di una caverna, in quella fatidica notte d’inverno del 373 a. C..
In fondo alla valle, le capre belavano impaurite, spingendosi l’un l’altra nel tentativo di sfondare le robuste palizzate del recinto che le tenevano prigioniere. Il cavallo aveva strappato la logora cavezza legata all’anello di fianco alla capanna. Ora correva scalciando in fondo al sentiero che conduceva al sacro boschetto di Poseidone.
“Oh, oooh!” Alceste, il capraro, urlava sopra la rocca mentre si faceva strada con la fiaccola accesa. “Oh, oooh!” ripeteva l’eco tutto intorno. Era in cerca della capretta che rincorrendo la sua curiosità si era avventurata in un mondo ancora nuovo ai suoi occhi innocenti.
Le nubi gravide di pioggia non ressero più il peso e si riversarono sulla terra a lavare l’empietà degli Achei che avevano cacciato i supplici fedeli Ioni dal santuario di Poseidone Eliconio, trucidandoli sull’altare.
Il servo-pastore per mettere al riparo la fiaccola, si infilò sotto un costone incavato nella roccia, mentre la capretta sopra di lui si lamentava atterrita, annusando nell’aria quel vago ricordo di odore del vello materno.
Il ragazzo tremando con il viso nascosto sotto il mantello di lana umida pregò gli dei che lo aiutassero a mantenere la calma. Si sollevò un turbinio di vento che fece scricchiolare intorno i rami piegati dalla sua furia, ma trascinò la tempesta verso il mare plumbeo che mugghiava in lontananza, rischiarato dal lugubre e intermittente chiarore dei lampi.
In quell’attimo di calma apparente Alceste si alzò e guardando in alto incontrò il muso implorante della bestiola.
Nello stesso istante un forte boato e uno sconvolgente tremito percorse la terra.
I massi come balle di fieno rotolavano intorno a lui che abbracciò, appena in tempo, il ramo di un mirto, ancorandosi saldamente come un figlio alla madre che non aveva mai conosciuto. La capretta franò giù insieme a sassi e terriccio, annaspando con gli zoccoli puntati al cielo.
Alceste, con il fiato sospeso per lo sforzo e la paura, si ritrovò con il viso rivolto in giù, verso la ricca e opulenta città lontana, che ora si accasciava su se stessa come un fragile castello di carte. Da essa si sollevò una gigantesca nube di polvere che gli impedì di vedere l’imponente tragedia che vi si stava consumando. Il promontorio su cui sorgeva la ridente città greca di Elice, affacciata sul golfo di Corinto, si spezzò come il pane appena sfornato sulla mensa, sprofondando in un ribollire di acqua fangosa e mefitica. In un paesaggio diventato surreale, Alceste assistette, inerme, a tutta la potenza distruttrice del dio infuriato.
All’improvviso all’ orizzonte, sotto i riflettori della funerea luna, comparve un gigantesco muro d’acqua che si sollevava sempre di più, man mano che si avvicinava alla costa. La invase, avanzando per chilometri fino a lambire i piedi della montagna sacra. Sradicò le poche rovine rimaste, spegnendo sorrisi e cancellando vite umane. Si intravvedevano a malapena le cime degli alberi più alti. Poi, lentamente, come un mostro vorace sazio della sua preda, mollò la presa, si ritirò portandosi dietro persino le ossa di quella miserabile progenie.
Ritornò il silenzio.
Alceste, con le guance rigate di pianto comprese di essere rimasto ancora più solo.
Poseidone lo aveva risparmiato affinché testimoniasse al resto del mondo che Elice non esisteva più.
Valutazioni Giuria
3 – Il testimone – Valutazione: 24 Giud.1: Racconto mitologico ben descritto con un linguaggio scorrevole e piacevole. Giud.2: bella l’idea del mondo greco. descrizioni coinvolgenti. finale non scontato. coinvolgente per il lettore. Giud.3: “Tuoni come cavalli fiammeggianti”, “il recinto le tenevano”. Virgole mancanti. Troppe metafore, ma alcune immagini rendono la drammaticità della distruzione Giud.4: “Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal fragore assordante dei tuoni che si inseguivano come cavalli fiammeggianti nel cielo nero come l’antro di una caverna”…. manca la punteggiatura e così via via nel corso della narrazione. “le capre… l’un l’altra” è un errore. “s’infilò sotto un costone incavato”: o nell’incavo scavato in un costone, o sotto un costone. “franò giù”: è un po’ come “salire su”. “ancorandosi saldamente come un figlio alla madre che non aveva mai conosciuto”: se non l’ha mai conosciuta… metafore non molto centrate. ammetto che amo il genere ed apprezzo lo sforzo. Consiglierei di coltivarlo, ma con più cura e meno, molta meno abbondanza … |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da insistenti e ritmati colpi alla porta. Ta ta-ta-ta-ta-ta ta-ta. Franz sobbalzò, uscendo dallo stato quasi catatonico in cui era piombato negli ultimi tre minuti, dopo quello che gli si sarebbe impresso nella mente come ˝l’incidente˝. Fece vagare lo sguardo per il salotto e represse a stento un conato di vomito.
Occristo, pensò, Dio mio!
I colpi alla porta continuavano. Aveva riconosciuto il modo di bussare, solo uno usava ancora quell’antiquata cadenza al posto di un innocuo toc-toc: Dreyfuss, il suo dirimpettaio. Sapeva che non avrebbe smesso finché la porta non fosse stata aperta o non fosse riuscito a buttarla giù. Ancora intontito decise che la prima opzione fosse la più pratica, andò ad aprire ed eccolo lì, Drey, con la sua barbetta rossa, la lattina di Bud in mano e la vocina da eunuco: «Ehi amico, ho sentito un botto gigante. Hai fatto esplodere un paio di petardi nella vasca da bagno? Mamma mia che faccia, tieni, fatti un sorso.»
Franz obbedì meccanicamente. Nella lattina era rimasto davvero solo un sorso. Caldo, per di più.
Dreyfuss continuava a far andare la bocca: «Ci hai dato sotto, eh? Hai ancora quell’erba favolosa, scommetto. Ce ne facciamo una? Io porto le birre. Che dici?»
Franz riuscì a parlare. Gli sembravano secoli che non lo faceva e la voce gli uscì roca: «È… è successo… un incidente.»
«Incidente? Dove, come. Fammi entrare, così mi spieghi.»
Il padrone di casa si scostò facendolo passare mentre rispondeva: «In salotto…»
«In salotto? Ma che… Fammi vedere, va.»
«No no… non anda…»
Ma Dreyfuss era già arrivato sulla porta della stanza. Buttò un’occhiata all’interno e perse tutta la sua baldanza. La birra gli tornò su all’istante. Vomitò sul parquet, che avrebbe conservato per sempre la macchia di acido.
«Cazzo!» disse con gli occhi fuori dalle orbite dopo aver rigettato tutte le quattro Bud bevute nell’ultima mezz’ora. Con gambe molli raggiunse l’amico che era rimasto in corridoio: «Ma che… CHE CAZZO HAI COMBINATO?»
«È stato un incidente.»
«Quel macello tu lo chiami… Ma mi vuoi… E no, eh! Ciao ciao, carino, io non ho visto niente. Niente di niente. Ci siamo capiti?»
Franz gli artigliò un braccio: «Aiutami.»
Dreyfuss lo guardò come si guarda un pazzo: «Aiutarti? A fare cosa? Lo sai che non è il mio aiuto che ti serve, in questo momento. Lo sai, vero? Te ne rendi conto, sì, o sei talmente fuori che non hai visto bene quello che c’è di là?»
Franz non lo lasciava: «Puliamo… Mettiamo in ordine…»
Dreyfuss si concesse una breve risata isterica: «Per chi mi hai preso, per mister Wolf? Ti sembro uno che risolve i problemi? Mi fai male al braccio.»
L’altro non accennò a mollare la presa: «Ti prego.»
«Ascoltami, amico, ascoltami attentamente. Non c’è niente che tu o io possiamo fare, ormai. E quando dico niente intendo dire niente. Nada, rien, nothing. Lo capisci?»
Franz piagnucolò: «Non è vero. Possiamo pulire, mettere a posto…»
«Pulire? Ci vorrebbero una fiamma ossidrica e un anno di tempo per scrostare dai muri tutto quel… quel…» Al pensiero lo stomaco gli balzò in gola, di nuovo. Ruttò una bolla acre.
«… e noi non abbiamo né l’una né l’altro. No no, io me ne torno nella mia tana. Non so niente, non ho visto niente. Neanche ti conosco, se qualcuno me lo verrà a chiedere. Mi dispiace, fratello, ma se tu sei fottuto io non ho nessuna intenzione di fare la stessa fine.»
Franz lo lasciò andare: «Sei uno stronzo.»
«Uno stronzo vivo, però. Adios y buena suerte.»
Rientrò nel suo appartamento e sbarrò la porta con tre chiavistelli. Come se potessero servire ad arginare la punizione, quando arriverà, pensò Franz.
Poi, rassegnato e incapace di fare altro andò in cucina e si sedette al tavolo, la testa tra le mani, a piangere e aspettare il castigo, inevitabile conseguenza dell’incidente.
FINE
Valutazioni Giuria
4 – UN PICCOLO INCIDENTE NEL SALOTTO DI FRANZ – Valutazione: 20 Giud.1: Linguaggio chiaro e lineare. Suspance fino alla fine … poi? Giud.2: carina l’idea di base, c’è molta suspance. lascia troppe domande al lettore alla fine. c’è un omicidio o un incidente? Giud.3: Corretto e fluido. Ma senza nemmeno un accenno di conclusione. Un conto è un finale aperto, ma così la curiosità del lettore resta del tutto inappagata Giud.4: il racconto ha un buon ritmo, ma anche un grave problema. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un timido battito di mani, a cui se ne aggiunse un altro, e un altro, fino a sfociare in un applauso fragoroso.
Il pianista uscì da dietro le quinte e guadagnò a passi lenti e concentrati il centro del palco.
Fece un inchino e si sedette sullo sgabello, davanti alla tastiera.
Come una fiamma sbattuta dal vento l’applauso vacillò, languì e piano si spense.
Lui si voltò verso il pubblico, un mare nero sotto il firmamento dei riflettori.
La sua voce sembrò il richiamo di una vedetta.
- – Claude Debussy. “Arabesque”.
Il nero fu percorso da un mormorio impaziente, un brivido d’approvazione.
Si girò di nuovo verso il pianoforte.
Il bianco e il nero.
L’ebano e l’avorio.
La felicità e l’infelicità.
Chiuse gli occhi. E attaccò.
Aveva sempre pensato che su quei tasti, talvolta fatti di vento talvolta di pietra, scorresse tutto il mondo, tutto lo spettro delle tonalità di cui si colora ogni cosa intorno racchiuso, come in un guscio, da quei due colori che ora lui solleticava o percuoteva come a volersi disfare di un peso soffocante.
Sentiva lungo le braccia le vibrazioni delle cadute sui tasti, l’energia della sua anima scorreva da dentro per andare a inondare la superficie levigata della tastiera.
Era il momento di un Piano sottilissimo e senza consistenza, come il luccichio di una gemma. Attaccò quella melodia sulle note alte, ricamandola con raggi di luce, beandosi del rintocco argentino dei martelletti sulle corde che quasi sembravano essere fatte di stelle.
Nessuno se ne accorse, ma una piccola lacrima scese, lenta, a rigargli la guancia.
Pensò a se stesso, a ciò che era, a ciò che era stato perso durante il lungo e faticoso tragitto; si sentì perso, solo, come non mai, sentì l’inutilità come un fluido appiccicoso sulla pelle. Milioni di strade percorse, milioni di persone incontrate, milioni di pensieri in testa, quella testa che non smetteva mai di riflettere e tormentarsi e tormentarlo con i suoi nessi logici e non. Si chiedeva il motivo di tutta quella sofferenza, di tutta quella fatica. Tutti gli occhi che aveva incontrato se n’erano andati, per un motivo o per l’altro, per andare o credendo di andare a conquistare la loro fetta di mondo riflessa dentro di loro, lo avevano accompagnato per qualche metro nel viaggio e poi erano scomparsi, lasciandolo un po’ più ricco, un po’ più invecchiato, un po’ più pieno e triste di prima.
Che ne era di quei momenti persi, così, che avevano lasciato solo ricordi come la scia di una stella cadente, togliendogli dall’esistenza una luce in più nel cielo?
Continuò a giocare con i suoni, le note di cristallo degli acuti contro i tuoni dei bassi, un dialogo infinito, la vitale, tormentosa e violenta compresenza degli opposti, ferita regalata agli umani da una divinità gelosa di chiarezza, vertigine di labirinto dove l’anima, oltre a essere aereo, invisibile fumo senza limiti, è anche spaurito battito d’ali che sbatte furioso su durezze levigate di specchio, perdendo la certezza di una direzione, di un’uscita…
Il pezzo finì.
Lui staccò lentamente le dita e le richiuse piano, come a voler trattenere ogni cosa con quel gesto e raccogliere l’eco del suono morente nei palmi.
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dall’applauso crescente.
Era come un loop, e avrebbe potuto continuare per sempre.
***
All’uscita del teatro, sotto l’insegna che annunciava a grandi lettere “JACK LOTER, PIANOFORTE: ULTIMO CONCERTO!”, si fermò, pensieroso.
Lei gli si avvicinò. Jack la riconobbe subito, anche se era passato tanto tempo, anche se indossava la maschera per l’ossigeno come lui e ormai aveva la pelle color cuoio invecchiato per l’esposizione all’atmosfera avvelenata che li circondava all’aperto.
Le labbra di lei si mossero, trasparenti, attraverso la plastica.
- – L’ultimo concerto dell’intera umanità, in questa ultima notte. Non poteva finire in modo migliore. Grazie.
Un sorriso pasticciato.
- – Ho fatto del mio meglio. Non è stato facile.
D’improvviso, lei gli prese la mano, a dispetto di ogni divieto.
- – Non voglio star sola, stanotte.
Lui sussultò. Poi la guardò come se il tempo non fosse passato.
- – Neanch’io.
Silenzio.
Cominciarono a incamminarsi, senza tenersi per mano. Vicini.
Nel cielo balenavano lampi viola, scagliati come bombe attraverso l’aria irrespirabile e infuocata, mentre il pianeta moriva.
Valutazioni Giuria
5 – ARABESQUE – Valutazione: 24 Giud.1: Racconto ben descritto con un linguaggio lineare. Il protagonista fa vivere le sue emozioni a pieno. Il finale è inaspettato. Giud.2: belle le descrizioni, sintassi buona. bello l’argomento. finale non scontato. non mi piacciono i disocrsi diretti senza virgolette. belle le emozioni che lascia al lettore Giud.3: La musica come fonte ultima di gioia ed emozione in un mondo che muore. Ben scritto anche se alcuni periodi rusultano di non immediata comprensione e un pochino stucchevoli. Molto cerebrale, fatica a coinvolgere emotivamente. Giud.4: “un altro, e un altro”: la virgola prima delle “e” a volte si può mettere, altre no. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal suono delle campane. Carla e Diego abitavano in un appartamento non distante dal centro e, quando il vento era favorevole, si poteva sentire il suono delle campane. Carla guardò di sfuggita, quasi a nascondere il gesto, il suo orologio da polso: le cinque del pomeriggio in punto. Nel silenzio che era seguito alle parole di Diego Carla aveva perso anche il senso del tempo e l’aveva ritrovato solo adesso. Decise che non poteva aspettare ancora prima di parlare. Parlò, ma non rispondendo a Diego: “Esco, vado a fare una passeggiata in centro” e uscì, quasi senza far rumore, come se volesse che quel silenzio durasse all’infinito. Un tempo sospeso. Aveva bisogno di riflettere, riflettere tanto.
Era poco tempo che conviveva con Diego, circa tre mesi. Prima c’era stato un corteggiamento di quasi un anno. Lo aveva conosciuto nello studio dove lei lavorava come art director. Era venuto per creare il brand di una ditta di prodotti per parrucchieri e subito, raccogliendo informazioni per creare un marchio che rispettasse tutte le caratteristiche positive della ditta, Carla aveva apprezzato la dinamicità, l’attenzione per le cose nuove ed anche la fantasia di Diego. Non le era però sembrato privo di senso pratico. Anche Diego era stato attratto dalla giovane art director e faceva spesso visita allo studio.
Adesso, uscendo di casa, iniziò a camminare spedita, quasi in fuga e per poco non andò a sbattere contro Marco. “Dove scappi?” Chiese Marco e la risposta di Carla, quasi piagnucolante fu “ Scappo dal mio legame con Diego” “Non mi sembra una metafora, stavi quasi correndo” “Non ti puoi immaginare il dolore che mi ha provocato oggi” “Se ti va possiamo sederci al tavolo di un bar per un caffè, visto che con me non hai fatto finta di niente: hai vuotato subito il sacco”. Carla accettò l’invito. Conosceva Marco fin dai tempi del Liceo: erano in classe insieme. Qualche uscita la sera assieme alla combriccola per un film o una pizza, anche se alcune volte si erano confidati, loro due soli, i rispettivi segreti amorosi. Marco si era sempre dimostrato comprensivo delle varie situazioni che Carla gli prospettava e lo stesso aveva fatto Carla con lui: è per quello che fra i due si era immediatamente ritrovata l’antica confidenza. Adesso stavano giocando ad allontanarsi dalla situazione proposta da Carla, girandoci intorno: la loro conversazione si riferiva alla stagione, al tempo, all’economia italiana… ma poi Carla non resse più e, quasi gridando: “Sai cosa mi ha detto Diego? Che ha un rapporto amoroso con un’altra donna.” Silenzio da parte di Marco. I silenzi segnavano quel giorno la difficoltà a trovare risposte. Ma poi, anche se si era fatta attendere la risposta arrivò, decisa e precisa:” Carla, lascia Diego e guardati intorno: sono venti anni che ti corteggio, che ne diresti di fidanzarti con me?
La proposta arrivò bruscamente a Carla. Il suo volto si riempì prima di smorfie dolorose, poi si distese in un sorriso. Il dolore per il comportamento di Diego era forte. Ripercorse in un battibaleno tutta la loro vita assieme, ma poi pensò che sarebbe riuscita a farne a meno. Si rese allora conto di quanto affetto e quanta attrazione c’era tra lei e Marco e, col ritrovato sorriso sulle labbra accettò la sua proposta, rompendo il nuovo silenzio che si era creato con: “Marco, scusami, sono stata molto egoista in tutti questi anni, ma adesso, col tuo perdono, accetto di vivere la mia vita con te.”
Valutazioni Giuria
6 – Silenzio – Valutazione: 17 Giud.1: La narrazione è chiara e semplice, ma il racconto è poco avvincente. Giud.2: storia interessante, ma non ci sono descrizioni dei protagonisti. sintassi buona, lascia al lettore alcune emozioni, ma manca qualcosa. fnale ni Giud.3: Errori ortografici e punteggiatura carente. Ma soprattutto trama inverosimile, per niente accattivante, non trasmette alcun pathos. Caratterizzazione dei personaggi inesistente. Giud.4: “Aveva sempre pensato che su quei tasti, talvolta fatti di vento talvolta di pietra, scorresse tutto il mondo, tutto lo spettro delle tonalità di cui si colora ogni cosa intorno racchiuso, come in un guscio”: faticoso e poco evocativo. “sentì l’inutilità come un fluido appiccicoso sulla pelle”: metafora poco felice, come alter di seguito. Il finale mi lascia perplesso. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal pianto di un neonato, ma partiamo dal principio.
Vagavo avanti e indietro per il corridoio, ero alta poco più di un metro e venti, con le mie scarpe blu e una felpa nera troppo larga.
Avevo fatto pratica per otto mesi con un bambolotto, avevo giocato alla mamma quasi tutti i giorni, avevo imparato nel modo corretto come poterla tenere in braccio, insomma un vero e proprio corso fai da te.
Non avevamo ancora un nome per lei, si meritava un nome speciale.
La desideravo tanto, avevo sempre voluto una sorella.
Era il 18 ottobre del 2000, erano appena passati due giorni dal mio settimo compleanno.
Quella mattina entrando in bagno avevo visto mia madre in piedi e un lago di sangue sul pavimento, istintivamente sono andata a chiamare un vicino di casa e avevo chiesto aiuto.
Arrivate in ospedale ero rimasta sola, mi dondolavo davanti ad una porta avanti e indietro, non so dire per quanto tempo io abbia aspettato ma penso proprio tanto tempo.
vedevo infermieri e dottori correre fuori e dentro quella porta.
Non avevo ancora neppure il cellulare e non potevo chiamare nessuno.
Aveva deciso di venire al mondo con un mese di anticipo facendomi il regalo di compleanno più bello della mia vita.
Un’infermiera gentile mi aveva chiesto di scegliere per lei una tutina per distrarmi dall’attesa.
Avevo portato con me la borsa già pronta che la mamma avrebbe portato in ospedale, avevo scelto una tutina bianca con delle nuvolette.
“Come si chiamerà?” Mi aveva chiesto l’infermiera, pensandoci un attimo, la sera prima avevamo visto un film di Sharon Stone alla tv, il film si chiamava “Gloria”, lei rappresentava nel film una donna forte che aveva tenuto con se un bambino amandolo come fosse suo, in parte forse dentro di me sapevo già che avrei fatto lo stesso con mia sorella; “si chiama Sharon” le rispondo senza pensarci più.
Mi piace il nome Sharon, rappresentava una donna forte e coraggiosa e mia sorella doveva esserlo per poter stare in questo mondo e soprattutto nella nostra casa.
Mia madre viveva una situazione particolare, una forte depressione e dormiva sempre, io ero sempre al buio e sempre da sola e quando avevo saputo che avrei avuto una sorella ho pensato a quell’evento come una liberazione dalla solitudine ed ero felice, un po’ meno felice pensare che mia sorella avrebbe dovuto passare le stesse cose che stavo vivendo io, una non normalità, ma ci sarei stata io a proteggerla.
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal pianto di un neonato, un’infermiera esce finalmente da quella porta con un fagottino tra le braccia, MIA SORELLA.
Ancora mi emoziono quando ci ripenso, “vuoi prenderla?”, faccio si con la testa e apro le braccia.
Era meravigliosa, due occhi neri e curiosi illuminavano i miei, la amavo già follemente, sentivo che mi apparteneva.
Quando me L’hanno portata via per metterla nella stanza dei bambini mi sono sentita triste, ma in cambio mi era stata data una foto scattata con una polaroid al momento della sua nascita.
Quando mia mamma era stata portata fuori da lì ancora dormiva, le avevano fatto il cesareo perché solo dopo avrei saputo senza capire bene cosa volesse dire, che aveva avuto un distacco di placenta.
io le sventolavo in faccia la foto dicendole “è nata mamma!!”
Con gli occhi incollati al vetro l’avrei riconosciuta in mezzo a tutti quei bambini, l’unica bambina con il braccino alzato quasi in segno di saluto; ancora non sapeva quanto mi avrebbe cambiato la vita.
Ricordo che ho giurato a me stessa che l’avrei protetta e cerco ancora oggi che abbiamo 20 e 27 anni di mantenere la parola.
La guardo ancora come quel giorno, è diventata una splendida donna.
Abbiamo passato la vita a tenerci per mano, solo noi sappiamo a cosa siamo sopravvissute ma ce l’abbiamo fatta.
Ogni anno le dico “tu sei stata il mio regalo di compleanno” ed è vero!.
È difficile capire cosa voglia dire avere una sorella che è più una figlia che una sorella.
Dedicato a Sharon, il grande amore della mia vita, una storia difficile da esprimere e da trasmettere, ma una storia vera, vera come l’amore che ci ha sempre legate e che per sempre ci legherà.
Valutazioni Giuria
7 – Alla mia Sharon – Valutazione: 24 Giud.1: Racconto con trama semplice, ma ben narrata e carica di sentimenti positivi. Giud.2: bello l’argomento, bella la descrizione della bimba. coinvolgente il finale. belle le emozioni che lascia al lettore. Giud.3: Errori gravi nell’uso dei tempi e modi verbali, carenze lessicali, ripetizioni, scrittura zoppicante. Apprezzabile la volontà di raccontare una storia così personale e, immaginiamo, dolorosa. Giud.4: Trama troppo leggera, un po’ inverosimile, stucchevole. Ci vorrebbe un guizzo nella trama, ovvero qualche arguzia stilistica ad impreziosire la narrazione altrimenti… piatta. “Quando me L’hanno portata via per metterla nella stanza dei bambini mi sono sentita triste”: è esemplificativa. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dall’eco dell’ultimo arpeggio del clavicembalo che ancora si librava nell’aria. Poi lo scrosciare degli applausi riempì la sala. La Badinerie di Bach, eseguita insieme all’orchestra da camera, era apparsa strepitosa. Il tono del flauto, caldo e vellutato, aveva emozionato e, quando a metà del concerto il solista aveva eseguito le dodici fantasie di Telemann per flauto solo, in particolare la decima, aveva ipnotizzato il pubblico. Giulio Briccialdi aveva suonato come rapito il suo traversiere barocco in ebano, con grazia e delicatezza anche nei passaggi più difficili. E gli archi e il clavicembalo lo avevano, più che seguito, avvolto, abbracciato negli adagio, sostenuto nei presto, aspettato nelle cadenze e negli a solo. Il pubblico sapeva che il famoso solista, il Paganini del flauto, com’era chiamato, non avrebbe, da lì in avanti, più suonato in pubblico. All’apice della sua carriera, aveva voluto evitare il declino e quest’ultimo concerto, ultimo dono agli appassionati, aveva il sapore di un incontro tra amici, che vogliono salutare un compagno che parte. Briccialdi aveva suonato per quell’occasione speciale, non il flauto Bohem, che lui stesso aveva perfezionato e di cui aveva dimostrato pubblicamente le qualità tecniche in svariati concerti. Per quella serata aveva usato un traversiere del Settecento, costruito nientemeno che da Quantz, arduo da utilizzare nei passaggi di ottava e nei fraseggi più veloci ma ineguagliabile nel suono, profondo e dolce, ampio, generoso, sensuale nei vibrati.
Per più di venti minuti il pubblico in piedi aveva applaudito, sperando in un ultimo bis, ma il maestro non era più apparso sul palco e lentamente la gente cominciò ad affollare l’uscita del teatro. Fuori una gelida serata di febbraio tentava di cancellare velocemente il bel ricordo della serata.
Più tardi, a casa, Giulio Briccialdi, chiese alla moglie di essere lasciato solo nello studio. Seduto sulla sua poltrona preferita, davanti al camino acceso, rimase fino ad ora tarda a riflettere. Non solo per lui cominciava una nuova epoca, la musica stava cambiando, il mondo stava cambiando. Teneva ancora tra le mani il traversiere antico che aveva suonato nel concerto, ricordando l’emozione di quando l’aveva accostato alla bocca la prima volta, il profumo del legno stagionato e degli unguenti usati per lubrificare gli innesti. Irripetibile, pensò, cogliendo per un istante il senso dell’unicità di ogni cosa grande. Ogni attimo è unico e irripetibile e chiuso in sé, chi mai potrà riprodurre fedelmente il suono di un esecutore con le sue sfumature ma anche le emozioni che suscita? Come fissare un singolo momento in modo fedele per renderlo sempre disponibile? Certamente sarebbe stato impossibile. Complice il tempo, cosa sarebbe rimasto di lui e di quell’ultimo concerto?
Una insopportabile malinconia lo colse allora, sentendo che il suo tempo stava passando, come anche tutto un mondo, costruito sul passato, che piano piano cedeva il passo alla modernità, alla tecnologia. Era sicuramente in preda allo sconforto quando attizzando il fuoco nel camino prese la decisione. Non avrebbe più suonato, non solo in pubblico, ma nemmeno per suo diletto. Avrebbe trascorso il resto della sua vita lontano dai teatri, dalle sale da concerto, dai conservatori.
Per il resto della notte, dopo aver lasciato cadere tra le fiamme il glorioso traversiere, restò davanti al camino osservandolo trasformarsi prima in un tizzone scoppiettante, poi lentamente in cenere informe.
Valutazioni Giuria
8 – Concerto d’addio – Valutazione: 25 Giud.1: Le descrizioni dei sentimenti sono delicate ed emozionanti. Il linguaggio è scorrevole. Inaspettato il finale dove l’impulso ha prevalso sull’amore tanto declamato in precedenza. Giud.2: belle le descrizioni, sintassi buona. non mi piace il corsivo per i termini tecnici. escalation delle emozioni. bello il finale inaspettato. Giud.3: Trasmette la malinconia dell’addio, il rimpianto del tempo che passa e del mondo che cambia e soprattutto la dolorosa impossibilità di conservare intatte le emozioni quando si trasformano in ricordo. Giud.4: “Il tono del flauto, caldo e vellutato, aveva emozionato e, quando a metà del concerto il solista aveva eseguito le dodici fantasie di Telemann per flauto solo, in particolare la decima, aveva ipnotizzato il pubblico” un brutto costrutto. E’ evidente che l’autore non padroneggia il linguaggio musicale, ma probabilmente, ne ha fatto una rapida e superficiale ricerca. “Giulio Briccialdi, chiese alla moglie” brutto errore di punteggiatura. |
Ci fu un lungo silenzio, rotto soltanto dal suono delle campane. Eravamo in cucina, con la finestra aperta. Mamma era seduta sulla vecchia sedia azzurra, quella con la seduta sbeccata, e graffiava con l’unghia dell’indice proprio in quel punto. Mi rispose solo dopo parecchi secondi: “Ndo let troada?” Le risposi: “Stavo cercando una foto di papà, nel cassetto della credenza”. Un ragazzo con i capelli mossi, una ciocca sugli occhi scurissimi, mi fissava da un giorno preciso di settembre del 1944. Un bianco e nero ormai sfumato in grigio non era riuscito a intaccare il suo sguardo. “L’è ol Dario” mi disse. Dario. Quando ero piccola mamma mi raccontava spesso storie di guerra, e quella di Dario e Alyna era sempre stata la mia preferita. Dario era un bel ragazzo di ventitré anni e lavorava in una ditta di ceramica. Fu lì che incontrò Alyna. Si innamorarono, ma la guerra non lasciò loro il tempo di sposarsi. Dario entrò a far parte della resistenza, gli cambiarono nome e gli affidarono un compito delicato: aiutare gli ebrei che erano sfuggiti alle retate fasciste, a raggiungere la Svizzera. Anche Alyna si era arruolata, sperando di non separarsi da lui. Lei aveva il compito di fare la staffetta per portare le informazioni tra i vari gruppi partigiani. Dario e Alyna si incontravano una volta al mese, per poche ore, sulle rive del lago Maggiore. Mamma appoggiò la foto sul tavolo e la coprì con la mano. Negli ultimi tempi, sempre più spesso, le tremava. Tra le sue dita, alle spalle di Dario, intravidi un lago. Mi aveva raccontato tante volte l’ultimo incontro tra Dario e Alyna. Era un giorno di novembre del 1944 e dal lago Maggiore soffiava un vento gelido. Si erano dati appuntamento a Stresa, ma non in paese. Scelsero il piccolo cimitero di Brisino. Passeggiarono a lungo, lui avanti e lei dietro. Solo quando furono sicuri che nessuno li avesse seguiti, lui le prese la mano. Da bambina ho fantasticato a lungo su quell’incontro. Mamma mi raccontò solo che avevano parlato fitto, che si erano abbracciati stretti e che la campana della chiesetta del cimitero aveva suonato a lungo. Io sentivo i brividi lungo la schiena immaginando gli abbracci e i baci sparati in bocca, la fretta, la paura di essere catturati, il desiderio che li bruciava dentro. Alyna aveva fatto per lui un maglione di lana verde. Dario l’aveva indossato. Mamma mi raccontò il finale della loro storia solo quando ero più grande. Qualche giorno dopo il loro ultimo incontro, le SS catturarono Dario a Milano e gli trovarono in tasca parecchio contante. Era il denaro che gli alleati passavano ai partigiani per facilitare l’espatrio dei loro connazionali verso la Svizzera. Per questo motivo Dario venne torturato a lungo, prima di essere fucilato. Alyna lo venne a sapere dai ‘compagni’ solo dopo che era morto. Fece di tutto per rivederlo un’ultima volta, ma glielo impedirono. Le dissero che Dario era irriconoscibile, sfigurato. Alyna era invece sicura che avrebbe potuto riconoscerlo dal maglione verde. Ma non lo rivide mai.
Mamma mi restituì la foto, le campane intanto avevano smesso di suonare. “Che bele i campane! I sa de pace” disse. Le chiesi: “Mamma, ma poi Alyna è sopravvissuta?” “L’è insema al sö Dario” disse soltanto. Mi accorsi che era molto stanca e non aveva voglia di ricordare quei tempi. Le diedi un bacio su una guancia e la salutai.
Mamma morì qualche mese dopo. Un ictus me la portò via in un attimo. Un’esecuzione, senza torture, ma ugualmente crudele. Nel mettere a posto le sue cose aprii anche il vecchio cassetto. Tra le lettere, un biglietto attirò la mia attenzione perché aveva una grafia diversa da tutti gli altri.
Rosi, mia adorata, oggi ho accompagnato una famiglia al confine. Il marito aveva un baule di legno pesantissimo, gli ho detto che era troppo grande, ma non ha voluto sentire ragioni. Avevano due figli, un maschietto di otto anni e una bambina di undici che avevano le scarpe bucate. Sono riuscito in qualche modo a fasciargli i piedi con dei fazzoletti. Con la neve non si scherza. La moglie era incinta e non parlava mai. Mi ha ricordato te che non ti lamenti mai! Presto verrà il giorno che anche noi … non te l’ho mai detto ma voglio almeno cinque figli! Ti mando un bacio Rosy mia (o adesso devo chiamati Alyna?) Tuo Dario.
Valutazioni Giuria
9 – Le campane – Valutazione: 31 Giud.1: Un fatto storico così importante e caratterizzato da un periodo così triste ed intenso di storie da raccontare ha sempre un effetto emotivo rilevante. Il testo è scritto con un linguaggio adeguato e scorrevole. Giud.2: bello il dialetto, mi piace la descrizione della storia d’amore. bella l’idea di usare dei racconti del passato. finale molto bello. coinvolgente per il lettore. tocco in più: la lettera finale. Giud.3: Toccante, coinvolgente, scorre benissimo (salvo nell’ultimo periodo: “Avevano due figli… che avevano le scarpe bucate”). Piccola grande storia di guerra, rassegnata tragedia resa con parole semplici che arrivano al cuore. Giud.4: “Tra le sue dita, alle spalle di Dario, intravidi un lago” un’immagine ben riuscita. “da un giorno preciso di settembre”: “impreciso”? “baci sparati in bocca” ??? “nero sfumato in grigio”: brutta costruzione. “Mamma mi raccontò il finale della loro storia solo quando ero più grande”: altra brutta costruzione. Così la frase successiva. “Alyna era invece sicura che avrebbe potuto riconoscerlo dal maglione verde.”: voleva vederlo un’ultima volta o doveva fare un riconoscimento di cadavere? “Ma non lo rivide mai” : o “mai più”, oppure “più” “Ti mando un bacio Rosy mia (o adesso devo chiamati Alyna?) Tuo Dario.”: inverosimile. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal rumore di uno sparo.
Era stato uno degli ex soldati, e chi altri? Gli hippie non avevano armi, non credevano nella violenza, e quel gesto sembrò scuoterli dal silenzio in cui tutti erano caduti dopo che il gruppo dei figli dei fiori e quello degli ex veterani del Vietnam avevano raggiunto una impasse nella loro discussione.
In realtà Josh aveva sparato rivolto al cielo, non c’era stato rischio di ferire nessuno. Ma ora lei lo stava fissando con astio, e a lui non piaceva vedere quell’espressione sul suo viso normalmente sorridente e radioso.
Non gli importava degli altri. Voleva solo che Sophia fosse felice. Non riusciva a credere di aver perso la testa per una come lei, una che si conciava in quel modo e portava i capelli così lunghi e sosteneva che l’amore poteva risolvere qualunque problema nel mondo.
Il fatto era che Sophia non era per niente stupida, nè superficiale. Quando si erano conosciuti l’aveva difeso dagli attacchi di alcuni ragazzi più o meno della loro età che l’avevano accusato di aver ucciso innocenti, bambini, in Vietnam, cosa che lui non aveva fatto. Lei, che si era ritrovata a passare di lì per caso, era intervenuta intimando loro di smetterla di lanciare accuse così pesanti senza uno straccio di prova e non si era fatta indietro nemmeno quando il capo di quel gruppetto aveva assunto un’aria minacciosa che avrebbe intimorito chiunque.
Ma appartenevano a due mondi diversi e quel giorno i rispettivi gruppi si erano incontrati solamente perchè c’era in ballo qualcosa di molto caro ad entrambi: una protesta in città contro la guerra. Il sindaco aveva affidato l’organizzazione al gruppo degli ex soldati (ovviamente, come poteva fidarsi di un branco di fricchettoni come quello degli hippie?) ma anche la banda di Sophia voleva dare una mano, anche a loro stava davvero a cuore.
E così alcuni rappresentanti di ciascun gruppo si erano ritrovati al parco e avevano parlato a lungo, avevano esposto idee differenti, e alla fine avevano iniziato a volare insulti da entrambe le parti. Sophia e Josh però non avevano aperto bocca e alla fine era calato il silenzio. E poi Josh, innervosito, aveva sparato, quasi come per sfogare una rabbia repressa: la rabbia di chi era stato spedito a combattere senza possibilità di scelta, la rabbia di chi si trovava a vivere di nuovo nella cittadina di origine completamente diverso da quando era partito e incapace di ritrovare la persona che era un tempo, la rabbia di chi voleva stare con qualcuno che non poteva avere.
“Potresti mettere via quella pistola?” mormorò Sophia infine, guardandolo in modo diverso dal solito. Cos’era che albergava nei suoi grandi occhi verdi? Delusione?
Lui non replicò, ma infilò di nuovo l’arma nella giacca.
Uno degli hippie, che stava sempre troppo appiccicato a Sophia, si schiarì la voce. “Dobbiamo raggiungere un compromesso, non possiamo fare nè a modo vostro nè a modo nostro. Se iniziamo dalla piazza del mercato poi il corteo potrebbe procedere per la strada dietro al cinema…”
Josh non ascoltava più. Fissava Sophia e si chiedeva come sarebbe stato baciarla.
“Josh, che ne pensi?” fece lei improvvisamente, scuotendolo dai suoi pensieri. Lui esitò. “La penso come te.”
Sembrò divertita, ma non disse nulla. “Ok, allora possiamo rivederci e finire domani.”
Iniziarono tutti ad andarsene, da soli o a coppie. Sophia salutò gli amici e si avviò da sola verso la strada principale.
Josh tentennò solo per un attimo. Le corse dietro.
“Fa caldo stasera. Ti va una Coca?”
Lei lo osservò seria. “Non bevo quella roba. Le multinazionali stanno distruggendo il mondo.”
Josh non aveva idea di cosa stesse dicendo.
“Ma possiamo prenderci un ghiacciolo.”
Josh sorrise appena ma annuì. E quando Sophia iniziò a parlargli del suo libro preferito, Il Buio Oltre la Siepe, e lui rispose che era anche il suo preferito, lei gli sorrise come non aveva mai fatto prima. Gli prese la mano e la strinse piano, senza dire nulla.
Forse non erano poi così diversi.
Valutazioni Giuria
10 – L’ex soldato e la figlia dei fiori – Valutazione: 23 Giud.1: Il racconto è chiaro e scorrevole, ma lo svolgimento della storia non è molto avvincente. Giud.2: racconto carino, ma senza note in più. semplice e leggibile. buon uso della sintassi. Giud.3: Fluido e corretto. La scena dello sparo mi appare forzata. Per il resto: superficiale e non coinvolgente. Giud.4: una narrazione davvero zoppicante |
Ci fu un lungo silenzio interrotto solo da un improvviso frullare d’ali, a cui seguì il tubare appassionato di un piccione intento a nidificare tra le tegole: “U – uuu – u! U – uuu – u!”.
Io rimanevo accovacciato in un angolo del granaio, dietro la basculante e nel buio di due pertiche di juta tirate addosso. La trama larga del tessuto insieme mi nascondeva ed indulgeva ai miei occhi una discreta visuale, mentre l’odore della canapa quietava lentamente il mio affanno.
Il ritmo del respiro tornò regolare e nella sopraggiunta calma valutai la situazione: “Alessandro e Flavio avranno fatto in tempo a nascondersi” – dedussi dall’immobile silenzio – “Spero la loro sia una buona postazione e che non decidano di fare mosse spregiudicate”.
Là fuori qualcuno sperava proprio azzardassimo una sortita ed era quanto dovevamo evitare. Non potevamo rimanere così nascosti per sempre, questo è vero, ma si trattava di trovare il momento più opportuno, con coraggio, arguzia e pazienza.
Sgusciai prudente dal mio anfratto ed abbandonando i cenci di cui mi ero coperto, mi diressi a passo d’oca verso la finestra. Le verdi imposte crepate da cent’anni di intemperie, erano semiaperte e lasciavano entrare la luce in un cono polveroso di mondiglia. Sulle pareti pendevano arnesi di campagna, puntellati su vecchi chiodi arrugginiti. Allineati contro una cassapanca, una serie di stivali e scarponi se ne stava assopita d’un sonno antico, sotto una coltre di ragnatele e là, in un angolo, un vecchio cappotto consunto, che sapevo bene nascondere la doppietta da caccia di mio nonno. Nel mezzo dello stanzone, ammucchiati in un monte alto due volte me, milioni di chicchi dorati di granturco, avvolti da una nuvola granulosa di pula.
Il piccione continuava ostinato, come non esistesse null’altro al mondo che l’oggetto del suo affaccendarsi e mi attraversò il dubbio di sapere intorno a cosa ragionassero gli uccelli in tempo di guerra, quando i cannoni non rombano, le armi tacciono, ma la disperazione non per questo è sopita. Fu un pensiero rapido e silenzioso, come un sasso che affonda nell’acqua, perché tutti i miei sensi erano tesi in direzione del pericolo imminente.
L’intuizione trovò riscontro nel vedere tra le persiane una figura slanciarsi allo scoperto! Mi ritrassi buttandomi schiena al muro e con gli occhi sbarrati nel vuoto, aspettai qualsiasi suono che venisse a rivelarmi la sorte del mio compagno. Eccolo: un urlo trionfante e grottesco, quindi un secondo, sommesso e sconfitto… Flavio. “Flavio, no… maledizione!”
Di nuovo, fuori, tutto tacque e nel silenzio del granaio il piccione non smetteva di tubare: “U – uuu – u! U – uuu – u!”. Trovavo ignorante e meravigliosa quella sua indifferenza per ciò che accadeva al di là di quel microcosmo, costituito dall’anfratto occupato abusivamente.
Lontano, per un attimo, il rumore di un cingolato parve avvicinarsi, ma presto il suono di ferraglia si allontanò per dove era arrivato. Come le pupille si dilatano al buio e pian piano la vista acquisisce acume nella sua nuova dimensione, così il mio udito catturava ora rumori appena percettibili: i tarli nel legno, topolini nelle intercapedini ed oltre i muri spessi, gli animali da cortile ed il fiume, il Cenisio, che saltava lontano, dalla balza.
“Alessandro! No… Alessandro, anche tu!”
Il riverbero dell’aria mi fece nuovamente da messaggero, portandomi nel granaio altre grida ed una nuova scena cieca, come fossi spettatore di un teatro col sipario calato e quella cecità se possibile, esagitava ancor più lo sgomento.
“D’accordo!” – pensai gonfiando il petto di orgoglio – “È il mio turno! Accada quel che accada!”.
Mi avvicinai alla porta, sollevai il chiavistello e spinsi insieme con cautela e decisione. Mentre venivo inondato dai profumi caldi dell’estate, “U – uuu – u! U – uuu – u!”, il piccione parve salutarmi: lo presi come un segno ed inalato un ultimo profondo respiro, mi gettai fuori…
Corsi senza giudizio né criterio e mulinando le gambe più veloce che potessi, volavo sul selciato, di fronte al pozzo e verso l’aia. Là vidi Flavio ed Alessandro che presero ad urlare! Non mi voltai neppure un istante, ma dietro me sentivo rinvenire i passi di Paolo ed il suo vocione – “Ti piglio!” – ma il mio vantaggio era incolmabile ed arrivai primo al capanno: “Liberi tutti!”
Valutazioni Giuria
11 – IL PICCIONE – Valutazione: 27 Giud.1: Il racconto è piacevole, la descrizione della scena è molto dettagliata, la rappresentazione del piccione risulta artificiosa. Giud.2: racconto coivolgente e leggibile. bella l’dea del gioco a nascondino. le descrizioni aiutano nella lettura. Giud.3: Originale il ruolo dei piccioni, osservatori indifferenti. Le descrizioni dei luoghi risultano a tratti ampollose e il finale si intuisce fin da subito Giud.4: |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un roboante e inatteso (quasi da tutti) frastuono. Il nonno si raddrizzò dalla sua obliquità, dopo aver regalato al raccoglimento della chiesa una sonora scoreggia. Era passato qualche minuto da quando il prete aveva detto “ci sediamo”. Il nonno era rimasto fermo, era già seduto. Da qualche anno ormai l’unica cosa che lo spingeva ad alzarsi dalla sedia era il pendolo in salotto, quando suonava le ventuno e gli indicava che era l’ora di andare a letto.
In chiesa, nel mezzo della funzione, la pernacchia aveva fatto girare un po’ di teste. Molte (quasi tutte) nella sua direzione. Il nonno aveva lo sguardo fisso verso l’altare. Si era accorto delle occhiate e sapeva il motivo. Non si era accorto invece della portata dell’eco perché il nonno era sordo. Riconosceva i segnali che gli mandava il suo corpo anche se ormai non era più in grado di controllarli pienamente. Sapeva di averne fatta una grossa, ma questa era ben al di sopra di qualsiasi sua aspettativa. Se l’avesse fatta da bambino nella camerata della colonia di Igea Marina dove passava le estati con i figli degli altri poveri, avrebbe sicuramente vinto la gara delle scoregge. Ma in chiesa non partì nessun applauso. Quelli intorno a lui, i più vicini, trovarono varie scuse per allontanarsi forse temendo che la pernacchia non fosse uscita sola. Il nonno, con la testa sempre fissa sull’orizzonte limitato dell’altare, vide ombre muoversi ma non fu in grado di associarle a nessuno. Così come non sarebbe riuscito ad associare quell’ombra bianca a un altare, se non fosse stato per il forte odore di incenso a dirgli inequivocabilmente che si trovava in chiesa. Non poteva distinguere neanche l’unica faccia che non lo guardava con un velo di disgusto, quella del Cristo che incombeva crocifisso sopra il prete raccolto in una distratta preghiera. Perché il nonno era praticamente cieco.
Ci furono momenti nella sua vita in cui i suoi sensi erano quasi perfetti. Nuotatore, alpinista e paracadutista per hobby. Una vita da sportivo, alla ricerca dell’avventura, sempre in allenamento perché non amava il pericolo. Studiava e si allenava in modo che il suo corpo potesse affrontare ogni sfida con il dovuto margine di sicurezza. Era bello, alto e muscoloso. Ma quando vide per la prima volta la sua Beatrice, così donna da sembrare solo lei a colori mentre tutto intorno era in bianco e nero, si sentì piccolo piccolo. Per qualche motivo davanti a lei si pensò come un ornitorinco, un animale con ogni organo messo a caso nel posto sbagliato. E arrossì anche lui, per contribuire al colore che dava al mondo quella creatura meravigliosa che sarebbe poi diventata sua moglie.
In chiesa invece, quando l’odore dell’incenso non fu l’unico che il suo naso percepì, non cambiò colore. E non perché si accorse di non aver nessuno intorno, ma proprio perché al nonno che qualcuno sentisse la puzza delle sue scoregge non fregava proprio niente.
Il prete disse qualcosa che lui non capì, per tutti i motivi che abbiamo già elencato. Stava seduto sulla sua sedia, masticando la dentiera fissata male, un passatempo che aveva imparato ad apprezzare. Inizio a tremargli anche la gamba destra mentre una domanda alla quale non riusciva a dare risposta non voleva saperne di farsi quieta. Qualcuno tolse il blocco alle ruote e iniziò a spingerlo verso l’altare. E mentre la macchia verde prendeva sempre più la forma dell’officiante man mano che si avvicinava agli scalini, quella domanda si faceva sempre più prepotente: “Ma perché cazzo continuano a portarmi a messa la domenica?”
Valutazioni Giuria
12 – L’enigma – Valutazione: 19 Giud.1: Racconto non molto piacevole, divertente a tratti, risulta di non facile lettura. Giud.2: racconto che non ha ne capo, ne coda. non mi è parso neanche molto divertente. la scrittura a tratti non rende facile la lettura. Giud.3: Niente da dire circa la forma. Mi risulta però sgradevole e perfino offensivo il modo in cui viene rappresentato il declino fisico, la perdita di controllo sui propri sensi e funzioni. Molto amaro e ai miei occhi tristissimo, senza speranza Giud.4: divertente, oppure irriverente? |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da tre spari, quattro, gli sembrava non finissero mai. Furono come schiaffi. Era tutto vero, non era teoria. Le parole, gli slogan, l’addestramento e poi la riserva. Tutto ciò in cui credevano. Tutto quello che rendeva lecite rapine, estorsioni. Morte. Ora tutto era diventato vero, era diventato proiettili nella testa di un uomo, una vita interrotta. Chi fosse quell’uomo non gli era del tutto chiaro, ma era ovvio che se l’era meritato. Pare non pagasse l’imposta rivoluzionaria. L’auto scossa dall’arrivo dei compagni lo ridestò da quei pensieri.
«Gora ETA1!» gridarono Biktor e Patxi.
«Gora ETA!» rispose lui come per un riflesso condizionato.
Partì in gran fretta, ma senza far stridere le gomme. Dopo un’azione, discreti e silenziosi. “Gora ETA!” gli rimbalzava nella testa. Come quella sera, quell’ultima sera. Sua madre era ai fornelli e non si voltava. Probabilmente stava piangendo. Quando era di spalle riusciva sempre a non far capire se piangeva, la sua ama2. Suo padre lo guardava, con occhi di fuoco.
«Come sarebbe a dire “lo fai per la nostra terra”? Hai mai provato a dare due colpi di zappa alla nostra terra? A riempirti le mani di calli e romperti la schiena per lavorarla, la nostra terra?»
«Sai cosa voglio dire, Aita3, è per la libertà di Euskal Herria!»
«Ah, la libertà di Euskal Herria…e me lo sai spiegare la libertà da cosa? Da chi? Franco è morto da quindici anni, nessuno ci impedisce di parlare euskera, se è questo il problema…siete bravi a riempirvi la bocca come loro a riempirvi la testa di stronzate!»
Dentro casa suo padre dava libero sfogo alla frustrazione di vivere in un paese di cui non sopportava il veleno e l’ignoranza.
«Lo sai anche tu che non possiamo permettere che lo stato centralista…»
«Piantala!» aveva tuonato il padre «Non sei a uno dei vostri comizi! È con tuo padre che parli. Non venirmi ad insegnare cosa sia la patria e cosa sia la libertà. Io non ho cresciuto un assassino. E chi vuol essere un assassino non è mio figlio».
Allora Aitor, con rabbia, gli aveva risposto solo «Gora ETA», ed era andato in camera sua. La mattina dopo, al risveglio dei genitori, se n’era già andato. Non era neanche passato a casa di Amaia per un saluto. Non ce l’aveva fatta, sapeva che avrebbe dovuto guardarla negli occhi.
«Ehi, Aitor, cos’è quella faccia?» la voce di Patxi lo aveva riportato un’altra volta al presente. «Non fare così, la prossima volta parteciperai anche tu e in macchina ci starò io.»
Si limitò ad annuire. Stavano per arrivare all’appartamento. Fece scendere i compagni a circa trecento metri dalla casa. Non fermavano mai nello stesso posto. Poi andò a parcheggiare molto più lontano, ci volle una decina di minuti. Quando arrivò al palazzo, guardò la finestra e si bloccò di colpo. La tapparella non era all’altezza concordata. Qualcosa non andava. Si mise nascosto ad aspettare.
Ci vollero due ore, poi dal portone uscì Patxi, con le mani legate dietro la schiena, spinto con violenza da due uomini. Aveva dei lividi in faccia e sembrava sul punto di piangere. Salirono su di un’auto parcheggiata a pochi metri dall’ingresso, che partì immediatamente. Aitor non rimase ad aspettare di scoprire cosa fosse di Biktor. Si incamminò senza sapere bene in che direzione. Se i compagni muoiono o vengono beccati, raggiungere il talde4 più vicino. Si inoltrò nella periferia, a passi rapidi. Vietato ogni contatto con la propria famiglia. Di sicuro i suoi avevano il telefono sotto controllo. Però Amaia no. Entrò nella cabina e fece il numero.
«Pronto» fu bello sentire la voce di Amaia.
«Ciao, mi riconosci?» le chiese.
«Aitor?»
«Scusami. Perdonatemi. Vai da mio padre: digli che gli chiedo perdono. Che mi aspetti. Tornerò. Non so quando e non so come, ma tornerò ad essere suo figlio. E abbraccia la mia ama.»
«Aitor, io…»
«Ti prego. Tornerò anche per te, se potrai perdonarmi.»
Riagganciò e salì sul primo autobus che portava fuori città, verso i monti. Scese all’ultima fermata e si incamminò col solo intento di lasciarsi alle spalle le luci e i rumori. Camminò fino a che riuscì ad ascoltare il silenzio della sua terra. Scavalcò il fosso al lato della strada e si inginocchiò, nel campo, per poter affondare le dita nella terra. E rimase lì, per un po’, a respirare.
1 Viva ETA
2 Mamma
3 Papà
4 Commando
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13 – Terra – Valutazione: 24 Giud.1: Le frasi brevi e l’esigenza di ricorrere a nota a pie di pagina rende il racconto di non facile lettura. Giud.2: storia interessante, argomento inusuale. bello l’ultizzo di parole in spagnolo e il senso di libertà che lascia al lettore.finale inatteso Giud.3: Si fatica un po’ a entrare nel contesto. Non mi è chiarissimo il signifcato. Credo esprima la delusione di un ideale perduto, lo sgomento nel rendersi conto di aver combattuto la battaglia sbagliata. Intensa l’immagine finale delle mani nella terra Giud.4: Apprezzo l’originalità ed un certo studio del contesto. Un buon lavoro |
Ci fu solo un lungo silenzio rotto da un pianto liberatorio, un pianto di vita e di gioia.
Aurora era sola quel giorno in casa. era sdraiata sul divano, in pigiama.
Non si sentiva per nulla bene. Aveva la nausea, una sensazione strana, che non era solita provare.
Non aveva mangiato troppo, non si era abbuffata di dolci o di patatine come solitamente era portata a fare negli ultimi giorni perché imbrigliata dalla frustrazione e dal dolore di non essere ancora riuscita a realizzare il suo grande sogno e il forte desiderio del suo compagno.
Aurora voleva essere madre. Voleva avere un figlio dall’uomo che amava più della sua stessa vita.
Era da tre anni che provava, sperava e pregava di riuscire a rimanere incinta.
Sforzi inutili.
Speranze tante. Pianti infiniti.
Esiti tutti negativi.
Tutto senza alcun risultato.
La linea di evaporazione del test di gravidanza non si presentava mai.
Aurora e Diego avevano tentato – sinora – in qualsiasi modo di concretizzare questo desiderio. Si erano rivolti a medici, specialisti, si erano sottoposti ad analisi, erano stati disposti ad iniziare una serie di cure, lunghe e impegnative.
Il tutto senza alcun risultato.
Avevano provato anche con la fecondazione assistita.
Il verdetto clinico era stato unico e deciso.
Appariva ed era irreversibile, oltre che rigido ed ingiusto.
Citava “utero ostile”.
Due parole che avevano psicologicamente ucciso Aurora come donna, come compagna, ma anche come figlia.
La identificavano come la grande e unica responsabile di questa situazione.
Lei privava il suo Diego del figlio tanto bramato.
Si sentiva in colpa.
Una sensazione di disagio la opprimeva ogni volta che si interfacciava con gli altri, ogni volta che il suo sguardo incontrava quello della controparte, poiché recepiva – senza alcune motivazioni – una sensazione secondo la quale chiunque la circondasse la identificava come la donna sterile, incapace di portare nel suo ventre il germe, il seme per costruire le radici di una famiglia.
Nessuno l’aveva mai accusata.
Nessuno recepiva questa condizione o, quanto piuttosto, le riconosceva questa responsabilità.
Era tutto nella sua testa. Nella sua psiche.
Aurora aveva paura di non essere all’altezza della vita, della sua famiglia e di quell’uomo così straordinario quanto unico che lei amava alla follia al punto di aver voluto, scelto di cambiare città e lavoro per seguirlo e stare con lui.
Diego, per Aurora, era il suo tutto, la sua ragione di vita.
Temeva di perderlo se non fosse stata in grado di mettere al mondo il frutto del loro amore.
Diego amava Aurora, più della sua vita, la mancanza di un figlio proprio per lui era fonte di dolore, ma questo non poneva e non aveva mai messo in discussione la sua relazione con la compagna.
Lei per lui era abbastanza. Lei era la sua vita, la donna voluta, amata e scelta.
Per Aurora quello era un periodo particolarmente difficile.
La sua migliore amica la aveva appena comunicato che avrebbe avuto un bambino.
Un figlio non cercato al punto che Aurora viveva questa situazione come una ulteriore punizione che la vita le aveva presentato per accusarla della sua sterilità.
Erano due giorni che non usciva di casa. Si sentiva stanca, svogliata e anche malaticcia.
Questo non la preoccupava in quanto particolarmente soggetta all’influenza invernale.
Imputava a questo la causa del suo malessere.
Come era solita fare anche quella mattina era scesa in cucina per fare colazione, ma a differenza degli altri giorni l’odore del caffè l’aveva stomacata.
Una cosa molto strana, decise di sdraiarsi sul divano.
Mentre provava a riposare, il telefono di casa iniziò a squillare.
Non squillava mai.
Aurora lo prese.
“Clinica Sant’Anna. Cerco la signora Aurora”
“Sì, sono io.” Rispose mestamente.
“Sono il Dottor De Luca, volevo farle le congratulazioni. Tra 8 mesi sarà mamma.
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14 – Verso il domani, un nuovo domani – Valutazione: 24 Giud.1: Linguaggio semplice di facile comprensione. Ben descritti i personaggi e le emozioni. Giud.2: argomento non scontato, bella la descrizione del desiderio di matenità della protagonista. bella l’escalation di emozioni. coinvolgente per il lettore. finale inatteso (ma sperato). Giud.3: Qualche errore, lessico povero, molte ripetizioni. Finale scontato fin dalle prime righe. Il tema, di per sé profondo e complesso, qui è banalizzato e intirso di luoghi comuni Giud.4: Che incipit è se lo abbandoniamo subito? allora tanto varrebbe dare un titolo. Trama povera e improbabile. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dallo squillo del telefono. Paolo non rispose. Pensando fosse troppo presto per iniziare la giornata lavorativa, lasciò la propria postazione per concedersi un caffè al bar dell’ateneo. Mentre attraversava il chiostro spinse lo sguardo in direzione del portone che s’affaccia su largo Gemelli. C’era troppo movimento data l’ora ma soprattutto dato il periodo, era il 26 luglio. Non erano studenti che si affannavano nella sua direzione ma la polizia.
Ho ascoltato questa storia numerose volte ed il narratore non ha mai cambiato una virgola nel ripeterla. Il suo stato d’animo nel ricordare i particolari è ancora quello di chi non poteva credere ai fatti. Ed io, appassionata di cronaca nera ad oggi non mi faccio mancare l’occasione di farmela raccontare, quasi volessi scorgere nelle sue parole quella prova che non ha mai permesso di risolvere il caso perché mai trovata.
Siamo a Milano, estate del 1971. Città tormentata e violenta, connotata da rivolte studentesche, manifestazioni, gli hippy importati da altre culture. La Milano che aveva appena subito il torto di piazza Fontana, quella che aveva visto i Led Zeppelin, durante un concerto al Vigorelli, passare da protagonisti mentre suonavano le note di “Since I’ve been loving you” a spettatori di una guerriglia urbana. La Milano che stava per andare in vacanza ed anche per Simonetta quell’ultimo sabato di luglio sarebbe stato il giorno della partenza.
Paolo con lo sguardo perso nel vuoto, iniziò: “Trovata nel bagno della scala G, sangue ovunque. Sui quei muri le trentatré coltellate c’ erano tutte. La Ferrero era una brava ragazza, si era laureata l’anno prima in scienza politiche, apparentemente non aveva motivo di essere lì. Poi …. quel lunedì mattina un seminarista fece la macabra scoperta. Passando davanti ai servizi sentì il rumore dell’acqua che scorreva, pensò avessero lasciato un rubinetto aperto, così entrò e quel che vide…beh, fu da subito sospettato, per molti era lui l’assassino”.
“E tu? I tuoi colleghi? Se non ricordo male vi interrogarono tutti?”
“Ebbi il mal di testa per tutto agosto. Caracciolo, il capo della mobile, quotidianamente mandava qualche agente a prelevarci, sempre le stesse domande. Il portiere, pover’uomo fini per esaurirsi. Si dimise pochi mesi dopo. Riccardo, con il quale condividevo l’ufficio, fu ospite per qualche tempo della clinica S. Giuseppe perché non riusciva più a mangiare, ed io ero arrivato a fumare più di tre pacchetti di sigarette al giorno”.
Quante volte gliel’ho fatta raccontare…
Vent’anni dopo l’accaduto, iniziai i miei studi in Cattolica. La scala G. era stretta e buia. A metà si trovava un ammezzato ed una porta murata, dietro, i bagni demoliti, nonostante ciò ricordo ancora che chi saliva quei gradini, affrettava il passo quasi avvertisse la paura di quegli istanti così efferati.
Quando mi trasferii in altro ateneo, al corso di criminologia, studiando il compendio del Ponti appresi che tra gli anni sessanta e settanta, nel capoluogo vennero strappate alla vita altre sei donne.
Era il ’63 quando fu rinvenuta la prima vittima: Olimpia. Esattamente un anno dopo Elisabetta. Nel ’70 Margherita, Salvina nel ’71, Valentina nel ’75 poi fu la volta di Tiziana.
Tutte con stili di vita diversi, uccise in età diverse. Massacrate, smembrate con arma da taglio. Nessuno però, all’epoca, aveva avanzato l’ipotesi dell’omicidio seriale. I casi furono per anni lasciati sospesi ad attendere il progredire della scienza, ancora oggi non si è giunti ad alcuna svolta.
Di recente, mi sono imbattuta in un articolo su un quotidiano. Raccontava di Simonetta, di Mario Toso, quel seminarista, oggi vescovo, sospettato di essere il suo assassino, ma non solo:
“Papà, senti cosa scrivono! Finalmente Franco Posa, il criminologo, ha deciso di riesaminare l’omicidio della Ferrero avvalendosi di esperti e strumenti di alta precisione. Sembra concretizzarsi l’ipotesi che la mano possa essere stata la stessa per tutte le ragazze, l’assassino è territoriale, un serial killer”.
“Non lo troveranno”.
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15 – Anche Milano ha il suo macellaio – Valutazione: 20 Giud.1: La narrazione è un po’ articolata. Narratore e uditore sono poco descritti. Giud.2: l’incursione del narratore non mi è piaciuta. è un fatto realmente accaduto? Giud.3: Virgole latitanti, ma per il resto corretto. Non ricordando i fatti di cronaca narrati nel racconto, si fatica un po’ a seguire lo sviluppo. Giud.4: |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un sonoro “paf”. La mano tozza e irsuta dell’uomo si era abbattuta con forza sulla nuda, bianca latte, natica di lei. Un piccolo gemito di dolore, misto al piacere, era uscito dalla bocca della ragazza. L’uomo aveva continuato a penetrarla con foga, alternando il ritmo delle penetrazioni con quei sonori schiaffoni. I corpi sudati, stretti nell’angusto abitacolo della macchina di lui, facevano fatica a muoversi e solo l’agilità e l’esperienza di certe situazioni della ragazza permetteva quell’amplesso selvaggio. Il ritmo impresso dall’uomo iniziò ad aumentare, la donna capì cosa stava per succedere e con un rapido guizzo lo fece uscire dal proprio corpo e gli dette il piacere finale con la bocca. <<Ti amo, Maria. >> disse l’uomo mentre ancora si contorceva nell’orgasmo. La ragazza lo guardò di sottecchi mentre si ripuliva la bocca. <<Antonio, lo sai che non lo devi dire. Questo non è amore, è solo sesso…a pagamento.>> allungando la mano nella muta richiesta dei soldi per la sua prestazione. L’uomo con lo sguardo improvvisamente triste, prese il portafogli ed estrasse le banconote. <<Adesso fai il bravo e riportami al mio posto di lavoro. Ivan sarà agitato a non vedermi tornare.>> la ragazza gli ricordò implicitamente il suo fidanzato/protettore: un brutale albanese con cui era meglio non avere attriti. Lei lo sapeva meglio di tutti, i lividi e le cicatrici sparsi sul suo giovane corpo spiegavano meglio che a parole come era la vita con quell’uomo. Antonio si rivestì velocemente, in silenzio, accese la macchina e ingranò la marcia, guardando per un attimo la ragazza prima di partire. Fecero il breve percorso, da quel sentiero nascosto al luogo dove la ragazza si prostituiva, immersi ognuno nei propri pensieri. Al loro arrivo il protettore, che girava in tondo come un animale in gabbia, si avvicinò proprio mentre la ragazza stava scendendo dal mezzo. Con uno strattone rabbioso la fece cadere a terra, insultandola (almeno, Antonio la interpretò così perché non comprendeva l’albanese ma riconosceva l’atteggiamento sprezzante e volgare) pesantemente per il ritardo e per la perdita di un potenziale cliente. Antonio sbigottito da quella gratuita violenza fece per scendere dalla macchina ma la ragazza, nonostante la paura per il suo aguzzino, lo fermò. <<Non ti preoccupare. Vai a casa.>> L’albanese in modo molto aggressivo lo apostrofò. <<Sì. Vai a casa che ti conviene.>> Antonio guardando, attraverso gli occhi umidi di lacrime, ora lei ora lui, fece cenno di sì e si avviò verso casa.
Le lacrime scorrevano calde sulle sue gote imporporate dall’ emozione di quello che aveva appena vissuto.
Parcheggiò con l’animo tormentato dai sensi di colpa e dalla vergogna di essere scappato in quel modo, lasciando quella povera ragazza al suo infame destino. Si asciugò il viso, si sistemò per bene i vestiti, rassettò i capelli scombinati nel rapporto sessuale appena consumato ed entrò in casa sorridendo alla moglie e ai figli. <<Ciao, papà. Come è andata la tua giornata?>> chiese il settenne figlio minore. <<Ciao, Luigi. È stata una giornata molto tranquilla.>> rispose, falsamente, l’uomo. <<Non è successo niente.>>
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16 – Non è successo niente – Valutazione: 20 Giud.1: Sentimenti espressi pienamente. Le scene sono raccontate con estrema emotività. Giud.2: incipit è molto “strano”. descrizioni minuziose, forse fin troppo, finale scontato. Giud.3: Il silenzio dell’incipit è poco realista data la situazione. Scrittura imprecisa. Il finale porta a compatire più il cliente della prostituta. Giud.4: Apprezzo il coraggio nella narrazione ed un finale crudo, realistico e non moraleggiante. A volte i fatti sono poco realistici. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal rumore assordante delle vene che pulsavano, un rumore che solo io potevo sentire. Panico. Adrenalina. Per tutti gli altri era ancora silenzio, quello che era calato sul palcoscenico dopo che Ilda, alla terza volta che ripeteva la stessa battuta, aveva preso a balbettare suoni sconnessi. Ripetei di nuovo la mia battuta, un po’ variata, in modo che riuscisse a cogliere più facilmente l’aggancio. Niente. Silenzio. I suoi occhi, invece, parlavano di vuoto e paura, di quell’assoluta certezza di non ricordare più nulla del copione, che ogni aspirante attore ben conosce.
Secondi? Minuti? Ore? Da quanto tempo eravamo lì? Il tempo scorreva per me allo stesso modo in cui scorreva per gli spettatori? Se era così, allora erano passati lustri, io ero invecchiata e probabilmente qualcuno tra il pubblico era pure già morto e decomposto.
E poi, l’inaspettato: Ilda ruppe il silenzio correndo fuori dalla scena, dietro le quinte, e io rimasi sola. Sola sul palcoscenico di fronte al pubblico che non aveva idea di cosa stesse succedendo. Ma davvero, non tanto per dire. Tutti (a parte gli addetti ai lavori) erano convinti facesse parte della commedia, lo si vedeva dalle espressioni divertite e coinvolte degli spettatori in prima fila, desiderosi di sapere come continuasse lo spettacolo. Del resto, si trattava di una commedia metateatrale nemmeno tanto conosciuta, ogni cosa era plausibile. Anche il silenzio, che dal palco sembrava riversarsi nella platea attraverso il boccascena seguendo le ondate di nausea che faticavo a trattenere. Ilda mi aveva mollata lì, sola e senza via d’uscita.
E allora il silenzio lo ruppi io e improvvisai. Vorrei potervi raccontare cosa dissi, quali battute uscirono dalla mia bocca per riempire quel vuoto imbarazzante, vorrei poter ripetere il mio monologo ancora una volta, ma non lo ricordo.
Inventai tutto. Tutto, senza perdere il filo, nemmeno quando Ilda improvvisamente rientrò in scena. Eppure, a quel punto, nulla poteva scalfire la mia convinzione nel portare avanti la parte, convinzione sostenuta dalla certezza che peggio di così non potesse andare. Chiaramente sbagliavo.
Ilda riprese esattamente da dove aveva lasciato, costringendomi a ripetere di nuovo parte della scena. Dentro piangevo ma fuori, ah fuori, ero tutta ardore e determinazione: non mi ero mai sentita così viva in scena. Capii davvero in quel frangente il profondo significato di quello “stai” che i maestri spesso avevano ripetuto durante le lezioni di recitazione. Stai nel momento, vivilo, abitalo mentre accade. Il famoso hic et nunc, qui e ora, dove l’ora per me, in quella situazione assurda, durava da circa trecentoquarantamiliardi di minuti invece dei canonici sessanta.
Trecentoquarantamiliardi di minuti di sudore e di preoccupazione che la camicia non si infradiciasse a tal punto da tradire il mio panico.
Stai.
E stetti.
Stetti lì, retta in piedi dall’adrenalina.
Stetti lì a prendere un applauso a scena aperta che sapevo di aver guadagnato con grande fatica mentre mi odiavo per non aver potuto seguire il copione e le direttive del regista in quello che sarebbe stato l’ultimo spettacolo da lui diretto prima di morire.
E sì, odiavo un po’ anche Ilda e le sarei saltata al collo.
Ma stetti.
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17 – Riempire il silenzio – Valutazione: 29 Giud.1: Racconto piacevole e linguaggio chiaro. La protagonista del racconto fa vivere il suo stato d’animo appieno. Giud.2: belle le emozioni e la suspance che lascia al lettore, racconto gradevole. ho molto apprezzato la scelta del argomento Giud.3: Scorrevole, avvincente, immediato nel coinvolgere. Ruolo centrale del silenzio suggerito dall’incipit. Il sentimento di odio espresso nel finale mi lascia un po’ perplessa. Giud.4: Peccato quel voler far diventare lo spettacolo “l’ultimo” del regista, lo trovo un pensiero estraneo. Comunque un buon lavoro. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un messaggio arrivato con alcuni, troppi, anni di ritardo.
“Sono in aeroporto a Vienna e ti ho pensato”.
Seguì un secondo messaggio: “ Ricordi? Avremmo voluto visitare insieme questa città”.
Con le dita tremanti per il senso di colpa Lisa scrisse, cancellò e riscrisse la sua risposta: “Anch’io sono in aeroporto a Vienna”.
Si voltò a guardare il marito. Forse, per salvare il loro matrimonio, avrebbe dovuto spegnere il telefono ed evitare di scoprire in che punto esatto dell’aeroporto si trovasse Roger.
Danilo alzò gli occhi dal libro che stava leggendo: “Che c’è? Ti annoi?”
“Un pochino”.
“Potresti fare un giro al Duty Free. Magari trovi il profumo che ti piace tanto”.
Lisa era incredula. Danilo le aveva appena fornito un pretesto per allontanarsi e, senza saperlo, per rivedere Roger.
“Vai pure. C’è ancora tempo. Io ti aspetto qui.”.
Lisa si sentì tremare. Stava per realizzare un desiderio che avrebbe tanto voluto realizzare dieci anni prima quando, per stare con Roger, sarebbe stata disposta a mollare tutto e a trasferirsi. Forse quell’incontro fortuito in aeroporto era un segno del destino. Forse tutto sarebbe cambiato. Anzi no. Non sarebbe cambiato niente perché Lisa amava suo marito. E poi Roger l’avrebbe sicuramente lasciata un’altra volta. Lui non era mai stato innamorato quanto lei. E ora che ci pensava bene, era stata lei a proporre di andare insieme a Vienna. Lui aveva rifiutato con una scusa qualunque.
Guardò in alto, verso il bar che Roger aveva descritto “al rialzo come il balcone di una casa italiana” e, nonostante ci fosse tanta gente, riuscì a riconoscerlo subito. Alzò la mano esitando un poco. Magari lui non l’avrebbe vista e lei avrebbe avuto modo di allontanarsi senza farsi notare. Troppo tardi. Roger ricambiò il saluto e si affrettò a scendere gli scalini del bar per raggiungerla. D’istinto anche Lisa gli andò incontro accelerando il passo. Quante volte, dopo quell’estate a Londra, aveva sognato di incontrarlo. Di tanto in tanto, in mezzo alla folla, lui scompariva alla vista di lei per riapparire poco dopo. Era un esempio concreto di quanto era successo anni prima: lei era decisa a tenere in vita la loro storia mentre lui, dal canto suo, aveva cominciato a farsi sentire a intermittenza.
“Ora vedi di non giocarti tutto con qualche stupidata” ripetè a se stessa rimanendo immobile a un paio di metri da lui.
Un gruppo di turisti passò in mezzo a loro con dei trolley e un uomo anziano, poco avvezzo agli aeroporti, urtò il piede di Roger. Lisa non potè fare a meno di ridere, la sua tensione si sciolse e lui ne approfittò per eliminare ogni distanza. Le prese la testa fra le mani e la baciò.
Lisa dimenticò Danilo, le promesse di fedeltà scambiate all’altare e ricambiò il bacio. Si ritrovò di nuovo a Londra, di nuovo single e pronta a rischiare di innamorarsi di uno straniero.
Il suo tuffo nel passato durò pochi attimi. Si sentì annegare.
“Il mio telefono! È sicuramente mio marito, devo andare!”
“Ma non sta suonando!”.
“Invece sta suonando!” Mentì Lisa
“Resta qualche minuto qui con me.”
“Non posso.”.
Roger cercò di baciarla di nuovo ma lei lo allontanò: “Non puoi rovinare la mia vita un’altra volta!”.
Si girò di scatto e, senza dire altro, si affrettò per tornare al gate.
Danilo aveva smesso di leggere e si stava guardando intorno alla ricerca di Lisa.
“Finalmente. Mi stavo preoccupando!”
“Tocca a noi. Dobbiamo imbarcarci!”.
“E il profumo?”
“È tardi andiamo!”.
Danilo restò in silenzio. Aveva imparato che, a volte, è meglio smettere di fare domande. Lisa gli prese la mano, l’avvicinò alle labbra e sussurrò: “Perdonami”.
“Cosa hai detto?”
“Niente”.
Danilo non sapeva perché, ma si sentiva più amato di prima. L’aereo stava per decollare e per loro sarebbe iniziata la parte più bella del viaggio: il ritorno a casa.
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18 – IL RITORNO A CASA – Valutazione: 20 Giud.1: Lo stile del racconto è scorrevole. La trama è poco coinvolgente. Giud.2: carina l’idea del incontro in aeroporto, ma poco altro. manca il resto del racconto. finale inatteso e non scontato. Giud.3: Improbabile, semplicistico. I cambiamenti di stato d’animo della protagonista la fanno sembrare “bipolare”. Giud.4: Un temino senza strappi nella trama, come nella narrazione. Finale moraleggiante… Consiglio più coraggio: si abbia come fine quello di stupire e coinvolgere! |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un sibilo, neanche il tempo di sentire dolore, e Antonio si accasciò a terra.
Iniziò a sentire il freddo che lo avvolgeva, mentre il sangue sgorgava copioso dal suo ventre.
Ma com’ era arrivato a questa situazione?
Antonio non riuscì a spiegarselo. Pensò a quando sentiva che in punto di morte si ripercorresse tutta la vita, ma ora che lui era morente, non riusciva collegare i pensieri e, anzi, una confusione incredibile si faceva strada nella sua mente.
Non si trattò di rivivere dei ricordi, ma piuttosto come se ogni cosa venisse distrutta il più in fretta possibile, prima che la mente potesse spegnersi definitivamente.
Si ricordò di quando si era diplomato, col massimo dei voti, poi di colpo si rammentò del suo primo appuntamento con Francesca, che sarebbe in seguito diventata sua moglie.
Gli venne in mente il suo primo dentino caduto, e subito dopo di quando aveva comprato casa.
Sommerso da tutti questi pensieri, da tutti questi ricordi, Antonio alzò a gran fatica la testa.
Caduto sulle ginocchia, tentava disperatamente di tamponare la ferita al ventre con le mani, ma riuscì ugualmente ad alzare il mento per guardare lei.
Sua moglie Francesca era in piedi, col coltello ancora in mano, a fissare Antonio.
Quel viso per anni raggiante e quasi angelico, mostrava ora un ghigno mefistofelico.
I ricordi sparivano tanto veloci quanto confusi, tuttavia Antonio riuscì a ricordare quel tanto che bastava a capire come era finito in quella situazione.
Dopo il loro primo appuntamento, i suoi amici lo avevano messo in guardia, accusando apertamente Francesca di essere solo una ragazza interessata al denaro. Ma Antonio aveva sempre negato una simile possibilità, difendendo la sua amata a spada tratta.
Poi ci fu il matrimonio e la vita sembrava davvero un sogno divenuto realtà e Francesca incarnava la perfezione.
Solo ora, Antonio si rese conto di quanto fosse stato cieco e stupido, preferendo fare di testa propria invece che ascoltare i suoi amici, nemmeno quelli più fidati.
Le vere intenzioni di Francesca iniziarono a manifestarsi solo negli ultimi mesi, durante i quali lei cominciò a spendere enormi quantità di denaro, prosciugando un intero conto bancario.
Antonio divenne sospettoso, ma era ignaro che la moglie aveva già organizzato ogni cosa nei minimi dettagli.
Facendo appello all’ultima goccia di fiducia del marito, Francesca riuscì a portarlo nel bosco poco fuori città, poiché la famiglia di Antonio aveva una casa in legno nel cuore della foresta. Era un vecchio segreto di famiglia, visto che la casa fu costruita senza permesso, la sua esistenza era da sempre stata taciuta, ad eccezione dei coniugi.
Francesca scoppiò in una risata folle e sguaiata, osservando il marito cadere su un fianco.
La fine era prossima.
Antonio ripercorse gli ultimi istanti prima della coltellata: l’arrivo alla casa, le accuse rivolte alla moglie, poi le scuse e promesse di Francesca, una sorta di riavvicinamento, poi la totale confessione, ed infine lei che brandiva un coltello da cucina e glielo affondava nello stomaco.
Antonio sentì la vita abbandonarlo.
Da quando Francesca aveva confessato il suo piano, lui non era più riuscito a dire una sola parola.
Ormai il silenzio era l’unica cosa che gli appartenesse.
Almeno così si era illuso, perché proprio mentre spirava, Francesca gli rubò anche quel silenzio, dandogli l’ ultimo saluto.
“Addio, tesoro”
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19 – L’ULTIMO SALUTO – Valutazione: 20 Giud.1: Trama che suscita un certo interesse. Il linguaggio semplice manifesta lo stato d’animo di Antonio, mentre il personaggio di Francesca è poco descritto. Giud.2: racconto con emozioni e suspance. ben articolato. argomento insolito. molto realistico Giud.3: Qualche errore, ma piu che altro inverosimile. La moglie assomiglia ad una caricatura più che ad una donna vera Giud.4: Diversi gli errori, le incoerenze e l’insostenibilità dei fatti. Nel mio ruolo mi trovo in difficoltà a superare questi limiti per arrivare ad analizzare la narrazione sotto altri aspetti. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal suono del campanello.
Io ero inginocchiata per terra, la schiena appoggiata alle piastrelle. Il viso di mio padre stretto tra le mani. In quel momento le ultime parole del medico mi tagliarono lo stomaco come una lama.
“Il cancro non è più controllabile. Potrebbe attaccare il polmone, le ossa o l’aorta. In questo caso la morte sarà pressoché immediata.”
E questo era successo. Mio padre era a terra. Un’enorme chiazza di sangue uscito dalla bocca e dal buco sul collo attraverso cui respirava si stava allargando sul pigiama. Le braccia abbandonate lungo il corpo, le gambe piegate.
Mi imposi di non guardarmi le mani.
Il campanello suonò di nuovo. “Aprì cazzo!” gridai “è l’ambulanza.”
Sentii mia madre che apriva la porta piangendo e dei passi concitati venire verso il bagno.
Bussarono. Mi resi conto che avevo istintivamente chiuso la porta a chiave appena avevo visto mio padre accasciarsi a terra. Sapevo cosa stava succedendo e non volevo che mia madre vedesse.
Respirai profondamente e tentai di aprire. La maniglia mi scivolò tra le dita. Le guardai, erano coperte di sangue.
Una dottoressa e un paio d’infermieri entrarono.
Lei lanciò un’occhiata pietosa a mio padre steso a terra e mi fece un debole sorriso.
Mi sedetti sul bordo della vasca e osservai in silenzio, ascoltando l’angoscia che saliva dentro di me. Il sangue avanzava lento. Aveva aggredito il corpo di mio padre, divorandolo come un vecchio serpente che ingoia la preda senza fretta.
Una maschera di sangue opaco avvolgeva i capelli, il viso, il collo.
Era come se il rosso serpente si fosse sdraiato su di lui serrandogli la testa tra le sue spire.
Un odore dolce, mischiato a quello del profumatore per ambienti, aveva invaso la stanza.
Lo fissai a lungo, era la prima volta che vedevo mio padre sconfitto. La prima volta, dopo dieci anni di dolore, che non si sarebbe più rialzato. Avevamo combattuto molte battaglie assieme, ma alla fine avevamo perso la guerra.
Non riuscivo a piangere. Le lacrime non arrivavano, nessun nodo alla gola. Solo una sorda pesante angoscia che mi attanagliava il petto.
Ora del decesso 23.55 per emorragia dovuta alla rottura dell’aorta.
Sentenziò la dottoressa.
L’aria si fermò. Ogni singolo rumore attorno a me scomparve all’improvviso, inghiottito dal vuoto che aveva invaso la mia testa.
Il vecchio serpente, ormai appagato, aveva fermato la sua avanzata e aspettava, immobile.
Guardai la sua vittima indifesa. Era il momento di liberarla dalla morsa del rettile e lasciarla andare, per l’ultima volta.
Allungai una mano per toccare mio padre. La pelle era livida, ma stranamente calda e morbida come se quel corpo, svuotato dalla sua linfa vitale, stesse tentando comunque di sopravvivere.
Il pianto isterico di mia madre che veniva dalla cucina mi riportò alla realtà. Le vicine erano accorse appena sentita la sirena dell’ambulanza e stavano cercando di calmarla.
Non sapeva ancora niente. Non aveva visto come suo marito si fosse arreso, sconfitto dalla fredda indifferenza della morte e non era necessario che sapesse.
Bagnai un asciugamano ed iniziai a pulire il viso di mio padre per ridargli dignità umana nella morte. Gli infermieri mi chiesero se volevo una mano per cambiarlo, accettai. Nessuno lo avrebbe portato via quella notte. L’avremo passata assieme.
Lo spogliammo. Pulii le ultime tracce di sangue. Gli misi la sua biancheria e il suo pigiama più belli e lo adagiammo sul letto.
Mandai tutti a casa, diedi venti gocce di valium a mia madre e la misi a dormire nella mia stanza.
“Voglio vederlo” sussurrò.
“Non ora mamma. Domani mattina, dormi adesso.”
Tornai da mio padre. Mi sedetti sul bordo del letto accanto a lui. “Stai qui stanotte” dissi “stiamo insieme per l’ultima volta, poi domani mattina ci salutiamo.”
Mi sembrò che sorridesse. Rimasi seduta fino all’alba, ascoltando il silenzio della notte.
Rimasi seduta, aspettando di piangere. Mi alzai la mattina seguente, all’arrivo di coloro che lo avrebbero portato via per sempre.
Stavo ancora aspettando di piangere.
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20 – IL SERPENTE – Valutazione: 25 Giud.1: Racconto commovente. Il rapporto padre figlia si evidenzia in modo appropriato. Giud.2: racconto ricco di descrizioni dettagliate. emozioni molto forti. coinvolgente per il lettore. molto realistico Giud.3: Ben scritto e capace di commuovere. Azzeccata e molto evocativa la metafora del serpente. Poco credibile l’esclusione totale della madre. Giud.4: “Gli infermieri mi chiesero se volevo ” “quella notte. L’avremo passata assieme” due brutti errori. Tema “facile” e finale pietista… Detto quanto di negativo, ammetto che la narrazione è ben eseguita. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo dal suono del campanello.
Ma chi poteva essere a quest’ora?
Io e Luca avevamo appena finito di mangiare, avevamo sparecchiato il tavolo, lavato tutti piatti e finalmente c’eravamo accoccolati sul divano. Di certo non aspettavamo nessuno.
Luca chiese chi fosse, ma non ricevette alcuna risposta.
Fece per aprire la porta e, come un uragano si fiondò in casa Lara.
Iniziò a sbraitare contro di me.
Io ero sorpresa e sinceramente non capivo cosa stesse accadendo.
Era talmente infuriata che non riuscì subito a comprendere le sue parole, poi capii: tutto per quel suo dannato corso.
In pratica Lara è un estetista incallita che, nonostante abbia conseguito il diploma accademico e nonostante abbia tanti anni di esperienza nel suo settore,si ostina a voler partecipare ad ogni corso che si presenta nella sua vita.
Vuole a tutti i costi migliorare e conoscere qualsiasi cosa nel suo mestiere.
Farebbe anche bene, se non fosse che a quasi ogni corso richiede la mia presenza come modella o meglio cavia per sperimentare i nuovi apprendimenti.
Ogni volta è sempre la solita storia e ogni volta, con qualche scusa cerco di svincolarmi perchè a me non interessa nulla.
Sono una ragazza che si piace per come è e non crede di aver bisogno di ricorrere all’estetista ogni due per tre…be diciamo che non sono una fissata ecco.
A me non importa un fico secco di avere le unghie tutte belle laccate di sgargianti colori, non mi importa di tutti quei trattamenti che ti consigliano di fare per rimpolpare le ciglia.
Lei che sa bene come la penso ogni volta mi chiede di poter andare con lei.
Oltre questo c’è anche da dire che a questi benedetti corsi si deve attendere in sala d’aspetto ben cinque ore.
Sì perchè ovviamente prima studiano la teoria e poi la applicano su noi povere cavie.
Se tutte le altre volte ero riuscita a cavarmela dicendole che lavoravo, questa volta, avendo perso il lavoro, non potevo scappare.
Non volevo dirle chiaramente che non mi interessava perchè avevo paura di ferirla.
Ma fortunatamente si era tradita da sola.
Mi aveva mandato un messaggio dicendomi che altrimenti poteva chiedere a mia cognata di accompagnarla, proprio lei, la persona che più detesto al mondo.
Utilizzai proprio ciò per dirle chiaramente che non sarei andata.
Non poteva che capitarmi un occasione migliore per rifiutarmi senza né ferire qualcuno né sentirmi in colpa.
Avevo fatto male i miei conti perchè se lei era nera di rabbia in casa mia era solo perchè aveva intuito.
Forse avevo tentennato troppo prima che lei nominasse quella lì.
Così, smascherata, passai per un’ amica di merda, una che abbandonava le persone nei momenti di bisogno.
Sapevo in cuor mio che esagerava e non me ne fregava nulla delle sue parole.
La pregai gentilmente di girare i tacchi e prendere la porta di casa perchè ero stufa.
Non ci parlammo mai più.
Valutazioni Giuria
21 – La rottura – Valutazione: 19 Giud.1: Racconto semplice e scontato, privo di originalitò. Giud.2: bella la descrizione iniziale, ricca di dettagli. interessante l’argomento del racconto. finale non scontato. Giud.3: Ortografia, grammatica e punteggiatura da rivedere. Trama insulsa, senza capo né coda. Non dice assolutamente nulla Giud.4: fatico a commentare gli errori, numerosi e gravi, distratto da un contenuto e soprattutto da una capacità espositiva gravemente insufficienti. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da quell’unica parola e da altre farfugliate di corsa: “Basta!” Ora basta, non ne posso più, non ne posso più dei tuoi rimproveri, non sono più una bambina, devi lasciarmi in pace”. Mia non ricordava di essersi mai rivolta così a sua madre, non lo ricordava perché non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare quelle parole, ma ora che era diventata una donna, sentiva che era arrivato il momento di mettere fine a quel rapporto malato e distruttivo, era giunto il tempo dell’addio.
Era stata una bambina vivace, poco incline alle regole, questo sì, ma in cuor suo sentiva che non era stato questo il motivo per il quale la madre le aveva sempre preferito la sorella Eleonora, nel suo cuore sapeva che quella donna non le aveva detto tutto.
Tante volte si erano ritrovati a tavola tutti insieme per Natale o per qualsiasi altra festa, era un giorno uguale a mille altri e la stessa scena si ripeteva ogni volta, lodi e complimenti per il meraviglioso lavoro di Eleonora, gli stupendi figli di Eleonora, il prestigioso, affascinante marito di Eleonora e per lei, sempre e solo disappunto, accuse, critiche.
Non era di certo un esempio da seguire, anche questo è vero, con la sua vita incasinata, un matrimonio fallito e neanche la gioia di un figlio, uno solo, un nipotino per quella anziana donna che, magari, si sarebbe addolcita un po’, niente; e non ci era riuscita neanche con il lavoro, perché in quella famiglia, essere un’artista non era considerato un vero e proprio lavoro ed in quanto a risultati, anche lei stessa, spesso, si chiedeva se ne valesse veramente la pena; ma dopotutto non era la perfezione che cercava e non riusciva a capire perché gli altri e soprattutto sua madre la cercassero in lei e per lei.
Era arrivata in ritardo anche quella sera, l’avevano aspettata per mangiare o meglio, lei, la mamma, quella che avrebbe dovuto consolarla, rassicurarla, spronarla, l’aveva aspettata per iniziare lo show, 10 minuti di ritardo, zuppa fredda e spettacolo caldo, si entra in scena, iniziamo il “massacro di Mia”.
Lo sapeva e non era certo per quello che aveva fatto tardi, ormai assisteva anche lei, impassibile a quel momento in cui, prima sua madre e poi tutti gli altri, apparecchiavano la tavola con i fallimenti di Mia, per dare un po’ di sollievo alle loro tristi e grigie vite. Ci aveva fatto l’abitudine e tutte le volte, se ne stava in silenzio, non c’era mai nessuno che la difendesse e neanche lei aveva mai avuto intenzione di farlo, lasciava passare il tempo, sperando che la cena finisse presto o che nel corso della stessa, qualcuno lanciasse qualche pettegolezzo più ghiotto e più scabroso di cui parlare, qualcosa che avesse distolto l’attenzione da lei.
Ma non andò così, anzi, quello che lei stessa non avrebbe potuto neanche immaginare, fu che, poco dopo che erano tutti lì seduti a mangiare o meglio ad ascoltare ogni tipo di maldicenze sulla poveretta, la voce di Cristina si fece, improvvisamente più forte e dalla bocca le uscirono queste testuali parole : “Mia, non fare finta di niente, se noi tutti qui, ci divertiamo a parlare delle tue sventure, è perché le nostre vite sono noiose e almeno, così, ci sembra di guardare la televisione, lo so che ne faresti volentieri a meno, ma siamo noi che non possiamo smettere”, poi come se niente fosse, si rivolse ad Eleonora e, con una voce ancora più forte e senza nessuna inflessione disse: “ Cosa aspetti a dirle che non è tua sorella?”…Mia non riusciva a credere a quello che le sue orecchie avevano sentito, ci fu un lungo silenzio, tutti restarono ammutoliti, il fratello cercò lo sguardo della moglie, Eleonora quello di suo marito, la madre guardava in basso e ad un tratto si sentì solo la voce di Mia che gridava: “Basta! Ora basta, non ne posso più dei tuoi rimproveri, non sono più una bambina. Devi lasciarmi in pace! Ora apro quella porta e nessuno di voi mi rivedrà mai più”.
Restarono tutti increduli di fronte alla reazione di Mia, che non aveva dato alcun peso alle parole della madre, forse il non essere parte di quella famiglia di matti le diede la forza di dire finalmente addio a tutte quelle voci che continuavano a rimbombarle nella testa, era libera, libera di andarsene, in fondo, pensò se Eleonora non è mia sorella, questa non è la mia famiglia e non ho nessun motivo per restare.
Valutazioni Giuria
22 – Basta – Valutazione: 21 Giud.1: La storia di Mia è ben raccontata. La descrizione degli stati d’animo della protagonista e dei commensali durante le tavolate di famiglia sono descritte con trasporto. Giud.2: frasi troppo lunghe. bello. non mi piace la scelta del tempo verbale. bella la scena del pranzo in famiglia. finale non scontato. Giud.3: Non scorre, periodi pesanti, qualche errore. Dinamiche familiari calcificate rendono il finale poco realista. Giud.4: i contenuti son troppo importanti per essere trattati con tanta superficialità. Consiglio di far affiorare le vicende attraverso un percorso che supporti i fatti, piuttosto che una scarna descrizione. Il pietismo di Mia suscita fastidio, più che solidarietà. |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un ticchettio nervoso e tremolante alla destra della scrivania dove il dott. Floris ogni mattina era solito leggere il suo quotidiano sorseggiando con avidità la sua tazza di caffè americano. Erano le sue dita che continuavano imperterrite il movimento verticale. Guardandosi l’anulare sinistro pensò – Non riesco a dormire, a mangiare, a lavorare. Quell’anello, quell’adorato maledetto anello lo devo ritrovare. Tutte le fortune della mia famiglia hanno dipeso per centinaia di anni da lui e ora non so che fine potremo mai fare senza -.
Aveva ripercorso in lungo e in largo i sentieri dove quella mattina aveva camminato con Elena, un’amica che da qualche giorno era solita andarlo a trovare più per parlare che per farsi visitare. Erano usciti un sabato lungo il fiume che costeggia la grande pianura dalla quale, spesso e volentieri, si potevano scorgere i cavalli della Contessa De Simone.
La Contessa se ne stava quasi sempre chiusa in casa ma quando passava il dott. Floris, si affacciava, lo salutava e rientrava come un’esecuzione mattutina affrontata nel migliore dei modi.
Due giorni prima la Contessa per la prima volta, lo aveva invitato nella sua immensa tenuta dove aveva sorseggiato un caffè. Dopo aver disinfettato le mani a causa dell’epidemia di Covid, il dottor Floris le si era avvicinato per la prima volta. La sua casa era perfettamente bianca senza alcuna traccia di colore. Il dottor Floris usava conoscere le donne attraverso le loro case e quella della Contessa rappresentava paura, angoscia e insicurezza. Era strano poi come una dimora storica fosse completamente priva di ricordi o di suppellettili atti a far riemergere ricordi di vita della famiglia. Dove conservava la sua storia? In quale altra parte della dimora era nascosto il suo passato?
Ora, però, non aveva tempo di pensare a lei, doveva ritrovare l’anello. Elena, che ormai era lì tutti i giorni, cercò di mettere a soqquadro il suo studio, ripercorsero il tragitto lungo il fiume fino ad arrivare alla casa della Contessa ma niente.
Era disperato e ormai le sorti della famiglia erano segnate. L’ultima mattina prima di ripartire per Roma, aveva ripercorso con la mente tutti i momenti di quel pomeriggio a casa della Contessa. Lo aveva fatto entrare nell’area bianca, accomodare nella sua sala da the’, fatto andare in bagno e usato il disinfettante. Le si era avvicinata per dargli l’asciugamano da bagno e in quel mentre, la mano bagnata con l’anello aveva incontrato la sua che l’aveva stretta tanto quanto basta per asciugarla bene. Sempre nello stesso istante aveva squillato il telefono. Era Elena che lo aveva avvertito che dei clienti lo stavano aspettando a studio.
– L’anello! – pensò. – La Contessa, ora ricordo quella stretta, quel momento in cui l’asciugamano ha coperto la mia mano, poi ha squillato il telefono e sono corso via – .
Il dottor Floris, nel primo pomeriggio, si diresse verso la dimora dove vide in lontananza Elena e la Contessa che stavano parlando. – Non sapevo si conoscessero – pensò. Con il binocolo vide che la stanza dove parlavano era ricca di quadri e di mobili, probabilmente la sua storia nascosta. Elena uscì dopo quindici minuti.
Si nascose dietro a un cespuglio mentre seguiva Elena che indossava una piccola borsa. Una volta giunta in città fece finta di incontrarla per caso e la invitò al suo studio, la fece sedere e le disse: – Elena, guarda dentro la tua borsa, sono disperato, magari è caduto lì e non ce ne siamo nemmeno resi conto -.
Elena gli disse che era una cosa assurda ma lui insistette. Iniziarono a litigare e nella confusione lui prese la piccola borsa, la rovesciò e uscì il suo anello.
– Che significa Elena? Stavo per morire dalla disperazione perché l’hai fatto? – chiese il dott. Floris ancora incredulo.
– Io non c’entro, me l’ha commissionato la Contessa De Simone, dice che alla sua collezione di anelli da uomo manca l’anello di un dottore, di un plebeo. In cambio mi avrebbe trovato un buon lavoro e sai quanto ne ho bisogno – rispose Elena piangendo.
– Potevi dirmelo, ti avrei aiutata io – disse il dottore sedendosi nel divano.
– Non avresti capito, poi non potevo sapere che un anello così avrebbe rappresentato molto per te.
– Va bene, non ti preoccupare, parlerò io con la Contessa e ti troverò un lavoro, d’altronde tutti i migliori sono matti e lei credo sia matta davvero – rispose il dottor Floris uscendo dallo studio.
Valutazioni Giuria
23 – L’ANELLO – Valutazione: 19 Giud.1: La mancanza dell’anello che suscita nel dott. Floris una perdita significativa, la descrizione particolareggiata della casa della contessa che danno al racconto la sensazione di un salto nel passato e la contemporaneità di un momento attuale rendono la storia affascinante. Il finale è meno appassionante. Giud.2: bello l’incipit. consiglio l’utilizzo di virgolette no barre per i pensieri del protagonista. molto attuale il rimando alle attenzioni causa covid. finale da rivedere. Giud.3: Assenza di virgole, termiti ripetuti a distanza di poche righe, “hanno dipeso” . Quanto alla sostanza… non ce n’è. Giud.4: Un contenuto davvero leggero leggero… consiglierei un po’ più di coraggio sia nell’esposizione, sia nella trama |
Ci fu un lungo silenzio, rotto solo dalla voce attutita di Gloria Gaynor che cantava ‘I will survive!’ dal salotto. Una colonna sonora perfetta per l’ultimo giorno dell’anno.
Bevvi un sorso del vino rosso che Anna aveva appena versato e mi appoggiai al bancone della sua cucina, godendomi l’espressione disgustata e la sfumatura verdognola che le deturpavano il viso.
Guardò prima me, poi la coppetta di silicone ancora insacchettata che teneva in mano, poi di nuovo me. “Ma che schifo!”
Trattenni una risata. “Prego, cara. Sono contenta che il mio regalo di Natale ti piaccia…”
Lo sguardo contrito che mi rivolse non aveva prezzo. “Grazie del pensiero, Gaia, davvero, ma… Cristo, ci conosciamo da una vita e tutti gli anni mi fai questi regali! I cotton fioc lavabili e lo shampoo solido sono ancora impacchettati nel mobiletto del bagno…”
“È proprio perché ti conosco che ti faccio questi regali. Se non fosse stato per me, manco la raccolta differenziata avresti fatto.” Evitai di ricordarle che un cassetto del mio armadio era riservato interamente alle sciarpe che mi aveva regalato per Natale negli ultimi quindici anni.
Poggiò il sacchettino sul tavolo e bevve un sorso di vino. “Certo che l’avrei fatta… Prima o poi. Non c’è bisogno che mi stai addosso.”
Alzai un sopracciglio. “Lo sai quanto ci mette un assorbente a decomporsi?”
“Eccoci, ora parte coI pippone…”
Feci un passo verso di lei. “Cinquecento anni.”
“Sai, è per questo che fai scappare tutti i ragazzi che ti presento…”
“Ci sono più di tre miliardi di donne sulla Terra…”
Indietreggiò, un indice puntato sul mio petto. “Fai paura alla gente!”
“E ognuna consuma in media dodicimila assorbenti nel corso della vita. Prova a fare il calcolo e dimmi se non ti senti un po’ in colpa!”
“Woah, calma Greta Thunberg!” Alzò le mani per placarmi. “Ammiro tutte le donne coraggiose come te che sono disposte a maneggiare coppette piene di sangue mestruale per salvare il pianeta, ma io non sono una di quelle.”
Scoppiai a ridere. “Ah, è di questo che hai paura? Del sangue?”
Con gli occhi della dimensione di due piattini da tè, Anna aprì la bocca al rallentatore, forse per farmi una descrizione dettagliata della scena splatter stile Kill Bill che infestava la sua mente, ma in quel preciso istante suonò il campanello.
“Oh, Gesù, grazie!” mormorò uscendo di corsa dalla cucina.
La seguii, implacabile. “Ehi! Questa conversazione non è finita!”
Raggiunse la porta d’ingresso e l’aprì facendo finta di non sentirmi.
“Anna, parliamone, a trent’anni non puoi aver paura delle mestruazioni.”
“Chi ha paura delle mestruazioni?” La voce di Davide entrò in salotto prima di lui.
Sorrisi sotto lo sguardo inceneritore di Anna. “La tua fidanzata.”
Davide spostò lo sguardo da me a lei e ritorno. “Non voglio saperlo, vero?”
Scuotemmo la testa all’unisono.
Lui fece spallucce e si schiarì la voce. “Beh, allora… Ragazze, vi presento il mio amico Giulio.”
Solo allora notai una figura magra e slanciata nascosta per metà dall’oscurità del pianerottolo. Quando fece un passo avanti, notai che le sue spalle occupavano per intero l’entrata e che i suoi riccioli neri mi facevano tremare le dita dalla voglia di toccarli.
Un secondo troppo tardi, notai anche che mi stava offrendo la mano. La strinsi. “P-piacere, Gaia.”
“Giulio.”
Dio, persino il suo sorriso sembrava di un altro mondo.
Sbattei le palpebre. Gaia, riprenditi!
Il nuovo arrivato si presentò anche ad Anna, offrendole il pacchettino che portava nella mano sinistra. “Per la padrona di casa.”
Lei arrossì. “Oh, grazie… Non ce n’era bisogno!”
Anna prese a scartare il regalo con un sorriso, ma via via che il contenuto diventava visibile, il suo colorito si faceva sempre più pallido. “Non ci posso credere…”
Sbirciai sopra la spalla di Anna e vidi un set di spazzolini di bamboo tremare fra le sue mani come una bomba a orologeria.
Per la seconda volta, quella sera, vidi Anna rimanere senza parole, mentre io… Beh, credo di essermi innamorata in quel preciso momento e di aver smesso di ridere il giorno dopo.
Valutazioni Giuria
24 – Una serata memorabile – Valutazione: 23 Giud.1: Linguaggio semplice. Il finale, con la presentazione di Giulio, è improvviso e senza tante spiegazioni. Giud.2: racconto carino, semplice e leggibile. il finale non mi è piaciuto. Giud.3: Spiritoso, brillante, arguto, provocatorio. L’innamoramento finale magari è superfluo, mentre la risata suona benissimo. Giud.4: Concordo: spiritoso e brillante, ma scivola sul finale |
Ci fu un lungo silenzio rotto solo da un sottile mormorio nella sala. Avevo vinto. Ero riuscita a mostrare al mondo le vessazioni e la violenza psicologica di cui ero stata vittima in Conservatorio.
Il pubblico del convegno, composto da insegnanti ed esperti della voce taceva, qualche professoressa sensibile si asciugava gli occhi umidi. Avevo vinto.
Poi una voce tenorile incerta rispose: “Lei doveva cambiare Istituto.” Cenno di assenso degli astanti.
Ed ecco che era diventata tutta colpa mia.
Dovevo saperlo che colpire le istituzioni era impossibile.
Il giudizio era stato preso ed era inappellabile.
Una parte di me lo sapeva: era inutilmente pericoloso esporre la mia esperienza sperando di salvare voci e persone che amavano la musica.
Avevo speso tutti i miei soldi per imparare il canto fino al livello più alto esistente in Italia. Poi avevo speso tutti i miei soldi per mostrare quanto quel lungo percorso potesse essere mostruosamente popolato di gente infida.
Ed ora ero esposta al pubblico ludibrio.
Guardai nei loro occhi: tanti sapevano, tanti erano la mia esperienza. Tanti avevano scelto di trasformarsi da vittima in carnefice relegando in un angolo quell’enorme vuoto da colmare. Quante cose c’erano in quella polvere spazzata sotto al tappeto. Non bastava alzarlo per poterne discutere perchè essi, pronti, soffiavano via il pulviscolo: dritto nei tuoi occhi.
Le voci aumentavano in un vortice. Forti del sentimento comune dicevano ogni cosa: che non avevo studiato, che non avevo talento, che ero debole, che … .
Io non avevo speso anni per vendicarmi o screditarli davanti al mondo: ero lì davanti per risolvere un problema, per migliorare un sistema che si basa ancora su leggi del 1800.
Mi ritirai dietro al palco e dovette passare molto tempo perchè avessi il coraggio di uscire da quel nascondiglio.
Ricordavo parole importanti, parole di amici vittime di soprusi e violenze e, immancabilmente, si erano scontrati con il fatidico: “E’ colpa tua.”
Qualcuno dice che il male è attirato dall’innocenza come ingenuità: che uno inspiegabilmente chiama l’altra in un uroboro di causa-effetto.
Quando i miei piedi raggiunsero la strada il mondo non sapeva niente di ciò che era accaduto. Ancora potevo vivere, strisciare tra la gente. Bastò però approdare sui social network per constatare che nulla era stato immaginato. Davanti a me il caos: quello era il momento di rititarsi per sempre o combattere in modalità bersek, con tutta l’energia che mi aveva spinta ad arrivare fin lì.
Non mi stancai di essere fraintesa e offesa, ignorata e odiata. Le mie parole venivano smembrate dal sistema, ma ancora riuscivano a sfiorare animi affini che mi seguivano, dapprima con distacco. Si creava un fronte composto da coloro i cui soldi ed energie erano serviti come ponte per il successo altrui. Ma noi non avremmo insegnato perpetrando l’odio, no, ce ne saremmo liberati prima di influenzare altri. Avremmo combattuto la loro battaglia, al fianco di chi non ha voce.
Di nuovo messa in ridicolo, minimizzata, offesa, … ma la mia voce risuonava nelle storie di tanti che erano stati destinati a non essere nessuno, come me. Tanti nessuno, tantissimi.
Fino a che questa diatriba non raggiunge il malsano orecchio dei media, che, si sa, amano le battaglie perse e la violenza gratuita. Da loro arrivò un colpo fatale, che dichiarò la nostra battaglia vinta.
Ma la guerra non era finita. Avvocati, intimidatori, minacce. Li avevo già visti lungo il mio percorso, ma ora erano assetati non solo del mio portafogli ma anche del mio sangue, più ancora della mia voce. Non dovevano uccidermi, dovevano piegarmi. Il sistema doveva fagocitarmi e digerirmi così che nulla sarebbe successo,
polverizzando i nemici. Mi avrebbero dato una cattedra, ma non ero ancora sufficientemente innocua.
Ero sola. Il contrattacco fu duro e si giocò in tribunale.
Ci fu un lungo silenzio.
Colpevole.
Valutazioni Giuria
25 – Voce spezzata – Valutazione: 24 Giud.1: Testo complicato e con frasi articolate. Giud.2: sembra un processo penale, non in un conservatorio. leggibile e ricco di descriozini dei sentimenti della protagonista Giud.3: Alcuni errori (“il giudizio era stato preso “) e imprecisioni nei tempi. Brano di non facile lettura. D’altro canto descrive con passione il coraggio di opporsi, di sfidare l’ordine costituito, di scendere a patti con il senso di colpa e la vergogna che spesso accompagnano le vittime. Giud.4: Non mancano gli errori di punteggiatura tra periodi principali e subordinate, così come scelte lessicali discutibili. Un solo netto errore: “il malsano orecchio dei media, che, si sa, amano”. Devo finalmente ammettere che la capacità narrativa è tale da desiderare di essere puntigliosi: come a dire che qui si ha diritto di pretendere, perchè c’è del buon materiale di partenza. Mi compiaccio per alcune immagini riuscite. Trovo la digressione psicologica un po’ eccessiva e le metafore troppo sbrigative, ma a mio parere un buon lavoro. P.S. ho capito il gioco di parole, ma non amo molto il titolo… |
1 – NEL MONDO DELLE FIABE
2 – La creatura
3 – Il testimone
4 – UN PICCOLO INCIDENTE NEL SALOTTO DI FRANZ
5 – ARABESQUE
6 – Silenzio
7 – Alla mia Sharon
8 – Concerto d’addio
9 – Le campane
10 – L’ex soldato e la figlia dei fiori
11 – IL PICCIONE
12 – L’enigma
13 – Terra
14 – Verso il domani, un nuovo domani
15 – Anche Milano ha il suo macellaio
16 – Non è successo niente
17 – Riempire il silenzio
18 – IL RITORNO A CASA
19 – L’ULTIMO SALUTO
20 – IL SERPENTE
21 – La rottura
22 – Basta
23 – L’ANELLO
24 – Una serata memorabile
25 – Voce spezzata
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