Iniziavano i primi freddi
Iniziavano i primi freddi. Lo sentivamo tutti nel bisbiglìo della gelida corrente d’aria, lo vedevamo nello smagrirsi degli alberi. Lo gustavamo nei vapori confortanti delle tisane.
Lo tastavamo addirittura, indossando quel vecchio maglione grigio a lungo dimenticato e così caldo. Un abbraccio obliato, come tanti che quell’anno non ci eravamo dati.
Ciononostante non eravamo pronti.
Gli scoiattoli attenti avevano carpito dal volubile ruscello che ci attendeva un lungo inverno, e avevano fatto scorte, più che gli anni precedenti!
I cervidi avevano intrapreso la loro migrazione anche quell’anno, ma si erano spinti oltre nei territori caldi.
Ci avevano sempre detto di tenerci pronti, di vegliare, e il periodo dal quale venivamo non si poteva dire che ci avesse rasserenato, ma ci trascinavamo lungo il calendario come ombre, incapaci di reagire a quel mare che ci aveva inondato a partire dalla primavera precedente.
Un sottile e autarchico strato di brina ammantava tutto il paesaggio, e noi con lui.
Rosee albe terse si svegliavano come concupiscenti alleati che sembravano volerci rassicurare. Falsi amici, che mostrano solo ciò che vuoi vedere.
La verità era semplice e disarmante. Gli arcobaleni non splendevano più. Non era un gioco, una ferita nella storia che avremmo potuto togliere dai sussidiari strappando una pagina.
Si avvicinava il solstizio d’inverno, la notte più lunga dell’anno, e il freddo era alle porte. Quella posizione astrale offriva una vicinanza unica al mondo sconosciuto e ignoto, percepito e richiamato con simboli e nomi diversi da ogni cultura.
Da noi tanti anni fa si chiamava Yule, ma il monopolio del Natale ha relegato questa data, il 21 dicembre, a guardiana dell’inverno.
Penso sia rassicurante che dopo primo giorno d’inverno le ore di luce riprendano ad allungarsi, per quanto si irrigisca il freddo.
“Il peggio è passato!” sembra voler dire il premuroso solstizio.
Quell’anno c’era un’altra misteriosa coincidenza chiamata la Grande Congiunzione: Giove e Saturno si sarebbero allineati a zero gradi nell’acquario.
Chi aveva tempo per pensarci? Dovevamo acquistare i regali di Natale che non avremmo potuto distribuire. Chissà, forse sarebbero stati aperti durante una videochiamata Skype, mostrando ai destinatari dei doni le nostre mirabolanti compere.
No, non eravamo proprio pronti: come chi, all’arrivo dei primi freddi, ha dimenticato la sciarpa.
Il mondo stava trasformandosi inesorabilmente, non poteva aspettare di guadagnarsi la mostra attenzione.
Per anni ci eravamo raccontati che “se avessimo avuto solo un po’ di tempo” ci saremmo dedicati ad attività nobili, imparando tante cose che avevamo sempre desiderato. Invece non avevamo fatto niente. I mesi passati nella sospensione avrebbero dovuto innescare domande, ricerca,… Invece avevamo elaborato solo lamentele.
Ricordo bene quei giorni: la natura non si era dimenticata di noi, e pittoreschi uccelli stavano facendo la posta alle nostre finestre, gelosi dei luminosi alberi di Natale. Le piume colorate e un delicato canto sembravano suggerirci di quanta bellezza avessimo bisogno per poter affrontare il lungo buio. …ma ormai la bellezza era diventata sinonimo di qualche viso cosparso di luce e make-up nello scintillante rettangolo televisivo.
Iniziavano i primi freddi, e il nostro cuore era stato il primo ad avvizzirsi. Sarebbe stato un lungo e gelido inverno.
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1 – Apocalisse silente – Valutazione: 21 Gaia: Un affresco ben delineato, con un linguaggio piacevolmente ricercato. Peccato i diversi refusi, segno di una mancata rilettura finale. Suggestivo, scorrevole: un buon esercizio di scrittura. Un po’ lontano dal “racconto”, però… Non c’è trama, non ci sono personaggi, non c’è una narrazione. Ci si aspetta che, una volta descritto tanto finemente lo scenario, arrivino gli eventi. Ma lo spazio narrativo, ahimè, é finito. Matteo: Il racconto è ben scritto (con l’eccezione di qualche imprecisione). Purtroppo però trovo che il cuore della narrazione sia piuttosto sfuggente: il narratore sembra girare a vuoto nella bella cornice invernale da lui costruita. Paola: Il testo è davvero ben scritto, salvo qualche sbavatura nell’uso della punteggiatura. Il racconto dell’arrivo dell’inverno è delicato e malinconico allo stesso tempo. Fa riflettere sui mesi passati e su quelli che ci attendono. Pietro: Confesso che fatico a vedere il testo come un racconto. Mi sembra qualcosa a metà tra ricordo, storia e mito, sul tipo dei grandi affreschi sulla fine di una civiltà, per di più privo di una cornice che fornisca le coordinate necessarie al genere. Ma anche lasciando da parte i miei dubbi a riguardo, rimane un problema sostanziale: l’oggetto della trattazione è quasi del tutto implicito. Nascondere la natura dell’apocalisse genera ambiguità: che cos’è «quel mare che ci aveva inondato dall’inizio della primavera»? E la trasformazione inesorabile del mondo? Sono lo stesso fenomeno, o no? Perché pensare a Yule significa tenersi pronti? A che cosa occorre tenersi pronti? Tutte domande che non hanno risposta. |
Iniziavano i primi freddi e a Rogo e la sua compagna cominciavano a non bastare più le pellicce di harü per ripararsi dal gelo che, specialmente di notte, si infiltrava nella caverna e li aggrediva con una ferocia degna del kellor più affamato.
Da quando avevano perso il loro clan si erano stabiliti in una grotta cercando solo di restare vivi, nutrendosi di radici e piccoli animali, se Rogo riusciva a catturarli. Non era mai stato un cacciatore, il fisico gracile l’aveva relegato, nella tribù, a livello delle donne, provocando lo scherno degli altri uomini. Per questo non era riuscito a stare al passo quando i suoi compagni avevano abbandonato il Dirupo per raggiungere la Piana, ricca di selvaggina. Era rimasto indietro con Elua, che sapeva sarebbe restata al suo fianco qualsiasi cosa succedesse. Una ragione in più per fargli provare una stretta al cuore sentendola rabbrividire mentre la teneva stretta, cercando di scaldarla come poteva, e si chiedeva se fosse stata una saggia decisione quella di non tentare di raggiungere gli altri. L’arrivo della stagione fredda avrebbe messo a dura prova la loro resistenza e lui non era affatto sicuro di potercela fare.
Quella mattina lasciò Elua a riscaldarsi al sole sempre più debole, mentre lui andava a procurare il cibo necessario per affrontare un altro giorno. Si avviò per un sentiero nella foresta, con occhi attenti a guardare di qua e di là in cerca di bacche o fiori commestibili. Un guizzo alla sua sinistra lo bloccò: un piccolo lempur lo guardò per un attimo, poi si tuffò nel tronco cavo di una sgrovia. Lui fu svelto a seguirlo e riuscì a infilzarlo col suo bastone prima che quello si rintanasse il più in basso possibile. Alzò la sua preda al cielo e urlò la sua soddisfazione, come aveva visto fare cento volte ai cacciatori della tribù. Solo che loro uccidevano kellor enormi, non di certo un esserino scarno dalla polpa tenera ma insapore. Questo pensiero comunque non lo rattristò, la felicità di poter offrire a Elua un minimo di carne ebbe la meglio. E se fosse stato ancora più fortunato avrebbe potuto tornare alla caverna con una leccornia che di certo le avrebbe allargato sulla faccia l’eterno sorriso triste. Ma doveva fare in fretta, il cielo si andava ricoprendo di nuvole nere e il vento lo faceva rabbrividire. Infilò la mano nel tronco in cerca delle saporite uova di lempur che piacevano così tanto alla sua donna. Tastò alla cieca fin dove arrivava il suo braccio e toccò qualcosa di freddo e levigato. Non un uovo, neanche una pietra. Tirò fuori qualcosa di mai visto: gli stava tutto sul palmo della mano, aveva la forma squadrata e il materiale di cui era fatto gli era del tutto sconosciuto. Strani segni erano incisi su di esso e rigirandolo tra le mani si aprì in due, scoprendo una piccola strana scultura con una rotellina di fianco. Rogo la fece girare e per poco non cadde tra i cespugli per la paura quando ne scaturirono minuscoli lampi. Ma la curiosità vinse di nuovo: continuò a farla girare finché da quello che sembrava un grosso pelo di harü non si levò una lingua rossa. Stavolta si spaventò sul serio e lanciò lontano l’aggeggio infernale. Atterrò su una manciata di foglie secche che non ci misero molto ad avvampare. L’uomo stette a guardare lo strano fenomeno mai visto, poi si armò di coraggio e si avvicinò. Cercò di riprendere il suo tesoro ma scoprì che il piccolo falò emanava un calore che gli impediva di farlo.
Calore? Calore!
Aspettò che le foglie si spegnessero, recuperò la sua scoperta e riprovò la magia: di nuovo i lampi, di nuovo la lingua calda. Tornò di corsa alla caverna, dimenticandosi anche del lempur.
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«Quindi mi stai dicendo che adesso il tuo Zippo è a spasso nel tempo?»
«È sparito, no? L’hai visto.»
«E… dov’è andato, di preciso?»
«Non lo so, devo perfezionare il tracciamento. Nel passato, però. La macchina non può andare in avanti. Ancora.»
«Servirà a bruciare qualche strega, che dici?»
«O a scaldare qualche Neanderthal.»
«Il Capo lo sa come usi le Risorse della NASA nella pausa pranzo?»
«Perché dovrebbe?»
FINE
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2 – WINDPROOF LIGHTER – Valutazione: 25 Gaia: Il racconto è ben scritto, la trama coinvolge e incuriosisce, i personaggi sono ben caratterizzati. Peccato il finale, che sembra ridicolizzare il tutto e fa perdere vigore alla narrazione. Matteo: Il racconto riesce a essere davvero appassionante, soprattutto durante la disperata ricerca di cibo da parte del protagonista. La deriva fantascientifica, seppur intrigante, non appare del tutto necessaria o, quantomeno, avrebbe bisogno di più spazio per essere approfondita. Buono lo stile. Paola: La quasi totalità del racconto è efficace e ben scritta. Ci si immedesima nei timori del povero e gracile Rogo e ci si affeziona alla fedele Elua. Si tifa per loro e perché sopravvivano, facendo spallucce a Darwin. Meno centrato invece il tentativo di rendere contemporanea e fantascientifica la vicenda. Mi sarei limitata a regalare ai protagonisti una caverna calda e la possibilità di cucinare i lempur. La buona sorte e l’intelligenza possono compensare un fisico non prestante. Pietro: Il racconto della scoperta del fuoco in un tempo preistorico (anzi fantastico simil-preistorico) non ha bisogno delle battute finali, che anzi lo compromettono seriamente, ridicolizzando le passioni di un protagonista molto ben caratterizzato. Questa appendice sgraziata manda fuori fuoco il testo, che senza di essa sarebbe un gran bel racconto (né d’altra parte riesco a ipotizzare che l’intento originario prevedesse entrambe le parti: non c’è equilibrio tra loro, il loro accostamento non genera un senso ulteriore, ma solo una certa arguzia un po’ cinica). |
Iniziavano i primi freddi: il fiato caldo, che usciva dalla bocca, si mostrava come una piccola nube di fumo, condensata con l’aria gelida. Durante il pomeriggio, se c’era il sole, non si percepiva quell’alito gelato che sarebbe sopraggiunto da lì a poco. Così ci si vestiva poco e, alla sera, si cercava un caldo rifugio dove ristorare il corpo infreddolito.
Ero una bambina, all’epoca, che desiderava crescere in fretta e seguiva i ragazzi più grandi, nelle loro avventure. Sono nata e cresciuta in campagna, nonostante il mio lignaggio.
Scelsi la libertà dei campi, dei piedi nudi che correvano sull’erba in estate e del freddo gelido già alla prima metà di Ottobre.
In quel periodo, nell’avvicinarsi di Halloween, che per noi era la Festa di Ognissanti, ci si radunava intono a un modesto falò per narrarci le storie più spaventose, inverosimili e suggestive.
I “grandi” lo facevano per incutere timore a noi, fanciulli più piccoli, nonostante al primo rumore sospetto, sobbalzavamo tutti, in preda al panico e all’atmosfera.
Ho sempre pensato che, quelle storie, non avrebbero avuto lo stesso effetto senza la nebbia che saliva, il freddo che faceva soffiare sulle mani per riscaldarle, la necessità di nutrire il fuoco affinché restasse vivo.
Siamo figli degli anni settanta: i genitori ponevano molta fiducia e, un poco di irresponsabilità da parte loro, su quello che facevamo.
Vivevo in un allevamento di suini, di mia proprietà.
I miei genitori non hanno mai permesso che lo definissi tale, poiché ogni uomo è uguale all’altro. Dopo tanti anni, ancora non ho smesso di ringraziarli per questo loro, preziosissimo e ante litteram, insegnamento, considerando la situazione attuale.
La campagna era immensa, ricca di luoghi dove nascondersi. Ed era lì che noi andavamo.
C’era la storia della carrozza mai giunta a destinazione ma della quale erano rimaste le tracce, quella del ragazzino che aveva visto un uomo di neve e non aveva più fatto ritorno a casa, quella della Signora che sapeva predire la Morte con molto anticipo.
Erano racconti avvincenti, scaglionati da scherzi per indurre ancor più paura, ma erano i nostri giochi di inizio inverno.
Dopo, sarebbe arrivata la neve, che ci avrebbe completamente distolti da questo narrare che ancora rimpiango.
Perché in quelle parole, pronunciate sfidando il freddo, per renderle ancora più reali e cupe, si nascondeva il coraggio, il desiderio di stare insieme, la capacità di divertirsi e giocare senza nulla che non fosse la nostra fantasia.
Il tempo dei primi freddi è terminato da anni: si passa da un tepore sopportabile al gelo completo.
Senza voler essere retorica “non esiste più la mezza stagione”.
Questa affermazione, dettata dalla consapevolezza contadina, che non sapeva più qual era il miglior periodo per la semina, ora è divenuta una barzelletta.
Ma , nella realtà, è stato un difficile periodo nel quale adeguare orti e mestieri con le proprie tradizioni.
Ora, ogni 21 Settembre, quando sembra ancora estate piena, mio figlio e io accendiamo una candela non appena cala il sole.
La chiamiamo “la lanterna dei viandanti” perché speriamo che offra luce a coloro che sono in cammino.
Non si possono dimenticare i primi freddi: sono quelli che ti fanno aggiungere una coperta all’ultimo minuto, una sciarpa sopra le spalle mentre osservi il sole che cala tra le valli velocemente.
E magari ci scappa il sorriso: quello dell’ultimo racconto che ti aveva spaventata.
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3 – “RESPIRO” – Valutazione: 18 Gaia: Manca la storia… L’autore sprofonda nei ricordi infantili, ma questo non conduce da nessuna parte… Il testo manca di sostanza. La narrazione non è particolarmente fluida, la forma non sempre ineccepibile. Matteo: Manca il racconto. Il testo sembra piuttosto un nostalgico ricordo di un passato immobile. Anche la forma è migliorabile, soprattutto dal punto di vista della punteggiatura. Paola: L’idea dei racconti di ragazzi intorno al fuoco è bella ma il racconto alterna i tempi narrativi senza un ordine preciso, il che lo rende poco fluido. Ci sono anche alcune imprecisioni sul piano lessicale. Pietro: La mancata scelta del materiale narrativo impedisce al testo di diventare un racconto vero e proprio. Al suo interno ci sono almeno tre livelli, con altrettanti possibili oggetti della narrazione: i racconti (verosimilmente un racconto) dell’orrore tra ragazzi, la bambina che ascolta i racconti dell’orrore, la madre che, in nome dei suoi ricordi, fa accendere al figlio la «lanterna dei viandanti». Tutti questi materiali sono molto promettenti, e si fanno ottimamente da cornice l’un l’altro, ma occorre sceglierne uno e puntare su quello con decisione. |
Iniziavano i primi freddi. La temperatura scendeva inesorabilmente da giorni. Un silenzio irreale dominava la valle. Il giovane tenente rabbrividì, alzandosi il bavero. Si accese una sigaretta e decise di fare il giro della trincea per scaldarsi.
Iniziò a piovere. Una pioggia gelida, sferzata dal vento. Nel giro di pochi minuti il terreno si trasformò in fango viscido. I suoi stivali iniziarono ad affondare.
Alcuni soldati dormivano appoggiati alla parete di sassi. Il pastrano, buttato sulle spalle, era l’unica cosa che li riparava dal freddo.
Il tenente li superò e s’infilò in una strettoia. Sospirò, offrendo il viso alla pioggia battente. Era in prima linea da sette giorni, ma iniziava già a provare un profondo senso di oppressione.
Superò il restringimento e si trovò davanti un vecchio sergente che tentava di togliere uno scarpone ad un soldato.
Il ragazzo mordeva un pezzo di stoffa per non urlare. La sua testa si muoveva rabbiosa quasi volesse staccarsi dal collo. Il suo sguardo incrociò quello del tenente. Non doveva avere ancora vent’anni.
“Allora? Mi aiuti” gridò il sergente. “Lo tenga fermo.”
Il tenente s’inginocchiò e prese la gamba del ragazzo. Quando il sergente tolse lo scarpone un puzzo di carne in putrefazione aggredì l’aria. La calza si era incollata al piede e furono costretti a tagliarla con un coltellino. Il giovane soldato svenne. Il busto iniziò a scivolare lungo la parete di fango. il tenente lo trattenne per il bavero.
“Cancrena” sussurrò il sergente osservando il piede del ragazzo. “Bisogna amputare. Devo avvisare le retrovie. Se non lo operano subito morirà.”
Il tenente rimase solo con il giovane soldato. Osservava il suo petto che si alzava a scatti.
La pioggia continuava a cadere feroce. Il vento di bora soffiava senza sosta. Un rivolo di acqua gelida si era fatta strada sotto il cappotto del tenente. S’impose di non tremare.
Dopo alcuni minuti il sergente tornò con un paio di soldati che caricarono il giovane su una barella improvvisata. Il tenente rimase in ginocchio ad osservare il gruppo di uomini che si allontanava.
Quando sentì i piedi e le mani che iniziavano a congelarsi decise di alzarsi. Continuò a camminare rasente il muretto della trincea. La pioggia si era trasformata in aghi di ghiaccio che sferzavano il viso e rendevano difficile tenere gli occhi aperti.
All’improvviso il tenente inciampò su un corpo seduto a terra. Si piegò sull’uomo. Un ghigno gli attraversava il viso. Il corpo era gelido. Un rivolo di sangue ormai secco era sceso dalla tempia fino al collo. Il tenente cadde seduto e non riuscì a trattenere un grido.
Un paio di uomini comparvero alle sue spalle. Guardarono il cadavere senza tradire la minima emozione. Uno dei due mise una mano in tasca e prese un pacchetto di cicche. “Hai vinto” sussurrò allungando le sigarette verso l’altro.
Il tenente osservava quella scena surreale senza riuscire a smettere di tremare. I due soldati tentarono di sollevare il cadavere. I piedi scivolarono nel fango. Uno dei due cadde sulle ginocchia imprecando.
Si voltò verso il tenente che era ancora seduto a terra, le ginocchia strette al petto.
“Pensa di darci una mano?” chiese l’uomo, fissandolo con uno sguardo carico di disprezzo.
Sì alzò e li aiutò a issare il cadavere su una tavola di legno.
“Cos’era quello scambio di sigarette?” chiese, cercando di riprendere un po’ di autorità.
“Quale?” chiese l’uomo che aveva ricevuto il pacchetto.
Il tenente sopirò, fissandolo. “Non far finta di non capire.”
Il soldato alzò le spalle. “Erano due giorni che delirava. Parlava a sua moglie come se fosse qui.”
“Quindi?” incalzò il tenente.
“Quindi abbiamo scommesso. Io ho detto che non avrebbe superato la notte e che si sarebbe ucciso” sibilò il soldato in tono di sfida.
“Fate così qui? Invece che aiutare i vostri compagni scommettete sulle loro vite.”
Un sorriso beffardo comparve sul viso del soldato.
“Da quanto è qui tenente? Io sono qui da un anno. Questo sarà il mio secondo inverno. Presto il suo corpo non smetterà mai di tremare, di freddo, di fame, di paura. Le urla dei soldati feriti o impazziti le penetreranno nella testa. A quel punto la sua unica preoccupazione sarà sopravvivere.”
I due uomini se ne andarono, trascinando la tavola con il corpo. Solo il freddo umido della trincea rimase a fargli compagnia.
Valutazioni Giuria
4 – TRINCEA – Valutazione: 30 Gaia: Un racconto ben scritto e ben ambientato, che scorre bene e si fa leggere volentieri. Non risulta però mai particolarmente incisivo: è come se gli eventi scivolassero inerti davanti al lettore. Matteo: Il racconto ha il respiro delle grandi narrazioni di guerra. Il protagonista si ritrova in una situazione estraniante: non sa che fare, se non dare una mano. Il gelo iniziale cala a poco a poco sulle cose e ci si domanda se presto non prenderà anche lui. Paola: Sarà che ho una gran passione per la storia e per la la Prima Guerra Mondiale in particolare, ma devo ammettere che il racconto è efficace, davvero ben scritto e ben tratteggia, con un misto di compassione e disincanto, i giorni della trincea. Suggerisco all’autore, se già non l’avesse fatto, di leggere “Fiori di roccia” di Ilaria Tuti: proprio una bella storia. Pietro: Uno scorcio ben fatto della vita in trincea, una passeggiata innocua che rivela al protagonista l’inferno in cui è finito. Manca forse un filo conduttore ben definito. Se il tenente avesse una caratterizzazione più forte (un obiettivo, dei pensieri, delle paure… se fosse, insomma, qualcosa di più di una macchina da presa che gira per le trincee), il racconto sarebbe ancora più riuscito. |
Iniziavano i primi freddi, quando venne per me il momento di affrontarne una.
Era il giorno del mio sedicesimo compleanno, e Monica occhilucenti mi aveva regalato una notte da passare con lei, nel capanno vicino al fiume.
Il mattino dopo rimanemmo a crogiolare al caldo morente delle braci fino a che spiovve e un vento gelido di tramontana spazzò via le nubi, mostrando al di là dei vetri i rami bruni degli alberi ingioiellati dalla galaverna.
La creatura ondeggiava sulla riva, muovendosi in cerchio con movenze da pierrot disarticolato.
Ci guardammo stupiti, chiedendoci silenziosamente come avesse fatto ad arrivare fino a lì, visto il modo in cui si muoveva.
La piena, probabilmente.
Forse era caduta in acqua molti chilometri a monte, alcuni mesi prima, e la corrente l’aveva portata fino quel punto, a continuare il suo assurdo girotondo.
“Cecco, che fai lì impalato? Vieni!”
Mentre facevo ipotesi, Monica si era vestita del tutto e mi chiamava dalla soglia.
Di solito, si comportano proprio così. Come burattini che un demente muove sul proscenio del mondo, senza scopo, ragione, schema visibile.
Alcune, però, hanno “imparato” a camminare, a mordere, a nutrirsi e a diffondere il virus che le rende tali.
Pericolose? Niente affatto. Basta non trovarsi nel bel mezzo di un gruppo numeroso di esse, basta non essere sfortunati…
Mentre Monica aveva gettato a terra la creatura sul dorso e la teneva ferma con un forcone, io mi avvicinai.
Era la prima volta che lo facevo, ma, stranamente, non avevo paura.
Con un colpo secco della falce ne staccai di netto la testa che rotolò vicino a me sbattendo impotente le fauci; la spinsi nella gabbia che Monica mi porgeva e cosparsi il corpo, che continuava a contorcersi infilzato a terra dalle punte del forcone, con della benzina e gli diedi fuoco.
Per la testa, sarebbero arrivate le tute bianche.
Non so cosa se ne facessero, però le pagavano bene.
Sì, Monica fu davvero sfortunata.
Forse a causa delle piogge una delle palizzate a fianco del sentiero aveva ceduto, proprio mentre tre creature lo percorrevano.
Non potevamo permettere che se ne andassero a zonzo per i campi, col rischio di infettare le poche vacche da latte che avevamo, così molti di noi uscirono dalle case con pertiche, badili, rastrelli e quant’altro per risospingerle sul sentiero.
Del gruppo, Monica era la più ridicola.
Stava pulendo casa, quando la palizzata cedette. Usci di corsa così com’era: pantaloni di flanella grigia, tuta bordeaux, uno spazzolone di plastica azzurro come arma.
Mentre sospingeva una di esse verso il sentiero, il terreno sotto di lei cedette all’improvviso. Per un attimo sembrò che ce la facesse a mantenere l’equilibrio, poi…
Dicono che sia stata la sua morte a rendermi così feroce, con esse.
Lei, Monica capeldigrano, a cui mozzai la testa appena il suo cuore smise di battere.
Monica che un attimo prima del fendente aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso, come mai prima…
Dicono che sia stata la sua morte.
Può darsi.
Quel che è certo: dovevo essere io, quel giorno, a verificare che le palizzate fossero infisse bene nel terreno.
Stanno, di nuovo, iniziando i primi freddi.
Presto arriveranno, da quelle che un tempo erano le nostre città, segnate all’orizzonte dal grigio scuro del fumo diritto nel cielo appena meno grigio
Arriveranno e noi le spingeremo attraverso varchi sempre più stretti, fino a qui.
Il mattatoio.
E sarà una mattanza lunga e strana, senza sangue, senza urla se non quelle dei nostri bambini eccitati e spaventati nel vedere i corpi senza testa delle creature agitarsi sulle griglie per ore, mentre il calore delle braci distrugge il virus che dà loro una parvenza di vita…
Non è granché, la loro carne. Amara e fibrosa. Occorre rosolarla a lungo, perché diventi appena passabile.
Ma che importa?
Il sole sta morendo, la terra sta morendo, piante e animali stanno morendo.
E noi abbiamo fame.
FINE
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5 – E NOI ABBIAMO FAME – Valutazione: 18 Gaia: Qual è il senso del racconto? Parlare di Cecco e dell’origine della sua ferocia? raccontare il degrado della terra? raccontare delle creature (non meglio identificate) che lo stanno determinando? Manca il fulcro della narrazione. Diversi punti risultano piuttosto infelici: l’incidente sulle palizzate (descritto in modo poco chiaro, con salti temporali poco funzionali); la testa mozzata alla povera ragazza; i bambini eccitati durante la “cottura” dei mostri… La lingua qua e là scricchiola, ma nel complesso la forma è corretta e il lessico appropriato e non scontato. Matteo: La narrazione è piuttosto confusa. E’ complicato seguire i vari passaggi della storia e il senso generale del racconto è sfuggente. Paola: Un testo mal scritto, con un contenuto povero e decisamente contorto. Le creature di cui si parla non sono definite e non si capisce perché attacchino gli uomini. La figura di Monica, che passa dall’essere giovane amante a sfortunata vittima, non convince. Anche il protagonista manca di carattere. Alcuni errori nella forma. Pietro: Il racconto ha un problema di messa a fuoco (nonché, secondariamente, di montaggio). Se la morte di Monica è lo spartiacque della storia – l’evento che ha determinato la vita del protagonista e che spiega la sua morte interiore (la ferocia nell’uccidere e la rassegnazione a mangiare la carne delle «creature») – allora è proprio questa che va narrata più diffusamente. Il racconto della mattina dei sedici anni spiega, certo, perché Monica fosse così importante per il protagonista, ma non è il piatto forte. |
Iniziavano i primi freddi. I piedi mi facevano male dentro gli stivali consumati, doloranti e gonfi come il mio povero cuore provato da stenti e patimenti, malato di solitudine in una steppa sconosciuta e desolata.
Erano lontani i tempi della partenza festosa, quando agitando i berretti dai finestrini di un treno in partenza da Padova andavamo inconsapevoli incontro alla morte, convinti dalla propaganda del Regime di essere gli eroi di una nazione e pronti a sacrificare le nostre giovani vite sull’altare della Patria.
“Angelo, è arrivata la posta” sussurrava il furiere strisciando verso di me sulla prima neve spruzzata sui radi cespugli di erba secca. Erano trascorse settimane dall’ultima missiva e iniziavo a preoccuparmi. Erano le fisime di un novello sposo innamorato di una avvenente sedicenne dagli occhi verde foresta. Strinsi al petto la lettera della mia adorata Michela, l’unico filo che mi teneva ancora legato al ricordo dei giorni felici del nostro amore spensierato fatto di sguardi furtivi e passeggiate, prima che la guerra recidesse quel cordone ombelicale che fino ad allora ci aveva fatto vivere in simbiosi. La aprii delicatamente come una reliquia con le mani intirizzite.
La lessi avidamente e la rilessi ancora e ancora finché non si fece scuro. Poi la sfiorai con le labbra screpolate incorniciate da ciuffi ghiacciati di barba incolta, cercando di riprovare la medesima emozione del nostro ultimo e impacciato bacio d’addio che profumava di dolci promesse, davanti agli occhi curiosi di tuo fratello che ci aveva accompagnati alla stazione.
Il tuo amore era pudico e misurato perché non doveva scandalizzare lo scrivano pagato tre lire, né la censura militare. Respirai nelle tue parole che mi parlavano delle piccole noie domestiche quel desiderio di normalità e di quotidianità che mi mancava tanto.
“Angelo, attento a destra!”. Stropicciai la lettera nell’enorme sacca e aguzzai la vista in quella direzione. I cecchini erano ovunque, mimetizzati tra i cespugli del vicino bosco di argentee betulle e pronti a colpire. Ne percepivo la presenza come centinaia di occhi che ti scrutavano e attendevano il momento propizio per saltarci addosso come lupi famelici. Correva voce che si fossero infiltrati anche tra le nostre file. Dietro i ruderi di una vecchia isba si aggiravano ombre furtive, allungate e rese terribili dal sopraggiungere della sera. Imbracciai il moschetto e attesi nel silenzio, mentre il pulsare delle tempie mi stordiva. Mi addossai ancora di più alla mia macchina infernale, un autocannone chiamata Obice 100/17. Quel contatto metallico mi dava sicurezza e allo stesso tempo di terrorizzava perché mi rendeva un bersaglio ambito.
Per fortuna era solo qualche cane randagio affamato come noi. Mi sentii cullato dal sibilo freddo del vento dell’est che assopiva la paura come una nenia, che avresti cantato anche tu, Michela, alla nostra bambina che non avevo ancora stretto tra le mie rudi braccia. Guardai la sua foto, scivolata furtiva dalla busta in prossimità del mio ginocchio. Era bellissima, anche se una foto troppo piccola e scura non le rendeva giustizia. Avrà i miei occhi o quelli di sua madre?
Addentai un pezzo di pane duro. Mentre lo masticavo lentamente ripresi la lettera che mi infuse un po’ di calore, poi crollai sullo zaino che mi faceva da scomodo cuscino.
Il mio compagno d’armi mi scrollò vigorosamente:” Oh, oh Angelo, svegliati se non vuoi morire assiderato! “mi ripeté più volte con il suo marcato accento veneto. Qui era una babele, un pullulare di accenti diversi, accomunati da un’unica sorte.
Mi battei ripetutamente sulle spalle incrociando le braccia, agitai i piedi per riscaldarmi. Presi la mia scatola di legno di betulla acquistata nel villaggio di ***, e ci adagiai la lettera insieme alla foto della mia bambina, il mio angelo custode, per il quale risparmiavo fino all’ultimo centesimo della mia misera paga di soldato.
La lunga notte era del tutto trascorsa; vidi l’alba sorgere meravigliosa lontano, tra le sponde del Don. Avrei voluto approfittare di quei sereni momenti di sosta per risponderti, ma non feci in tempo a slacciare la cinghia del mio zaino che…
“Soldati in marcia!” tuonò imperiosa la voce del tenente colonnello. Di colpo tutti quei sacchi grigi sparsi sulla neve si animarono, scrollandosi di dosso le umide coperte. La lunga colonna si ricompose e cominciò ad avanzare come un lungo serpente d’anime al comando di “Avanti march!”.
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6 – La lettera – Valutazione: 22 Gaia: Buona l’idea della letterra, non originale, ma efficace. Peccato per il pasticcio narrativo: la prima persona lascia improvvisamente il posto a un “tu” (gli occhi di “tuo” fratelo) che non si riesce a comprendere…. I periodi sono troppo lunghi e conferiscono pesantezza alla narrazione. Alcune frasi non reggono “Respirai nelle tue parole che mi parlavano delle piccole noie domestiche quel desiderio di normalità e di quotidianità che mi mancava tanto”: manca la punteggiatura e c’è un errore nella concordanza: è il desiderrio che manca al soldato? o non è piuttosto la normalità?; “prima che la guerra recidesse quel cordone ombelicale che fino ad allora ci aveva fatto vivere in simbiosi”: il cordone ombelicale simboleggia il legame madre/figlio, non quello fra coniugi!). Nel complesso, tuttavia, la forma è corretta e alcune immagini risultano particolarmente riuscite. Matteo: Racconto nel complesso ben scritto e dalla lettura scorrevole. La costruzione della scena non è però impeccabile: non è del tutto chiaro, soprattutto nella prima parte, se il protagonista sia in azione (paura dei cecchini) o in fase di riposo. La narrazione non sembra andare oltre la semplice costruzione di una scena (un soldato che legge una lettera da casa). Perchè raccontare questa storia? Cosa la rende diversa da quella delle altre migliaia di soldati italiani in Russia? Non è chiaro poi il motivo per cui, parlando della moglie, il narratore passi all’improvviso dalla terza alla seconda persona. Paola: Efficace la contestualizzazione storica e bella l’idea di una lettera da casa che scalda il cuore al soldato sul fronte russo. Purtroppo c’è un uso inappropriato della voce narrante, sottolineato da imprecisioni nell’impiego dei pronomi. La narrazione procede in modo meno lineare e il lettore ne viene confuso. Pietro: Il racconto è ben scritto e ha cura del dettaglio storico. Purtroppo è compromesso a livello strutturale da scelte sbagliate circa la voce narrante. Non c’è motivo, a mio avviso, di rivolgersi a un «tu» che, oltre a non essere sempre rigoroso, non raccoglie la narrazione né di fatto (come rivela il racconto) né idealmente (un colloquio interiore di un soldato con la sua amata avrebbe una forma più dialogica, da «lettera dal fronte»). Anche la prima persona singolare mi sembra immotivata, tanto più che alcuni passaggi, pur essendo corretti di principio, la rivelano sostanziata di una visione tipica della terza (ad esempio «erano le fisime…» o anche, più microscopicamente, buona parte dell’aggettivazione). Perché, allora, non assecondare quest’ultima? |
Iniziavano i primi freddi, le temperature erano sempre più rigide, ma nonostante questo il cielo era limpido, azzurro. Puro.
Sveva non aveva mai amato le stagioni fredde in quanto le incutevano una sensazione di “bisogno” ingiustificato di casa…così come se avesse la necessità di individuare un luogo in cui sentirsi protetta, coccolata.
Oggi però le mura la opprimono creandole un senso di ansia, di soffocamento.
Ha bisogno di uscire. Di stare all’aria aperta, a stretto contatto con la natura, con la fisicità della terra.
Prende in mano il montgomery grigio e si butta addosso la sua sciarpona rossa.
Non si pone troppe domande. Ha bisogno di aria.
Esce.
Si dirige verso il parco, quel luogo ameno in cui soleva ritrovare l’interazione con la “materia”, con la concretezza.
Si siede sul prato. Sente freddo al contatto del terreno. Non le importa e si lascia andare. Si sdraia.
Persa nei suoi pensieri la sua attenzione viene incanalata su una solitaria farfalla che vola.
È libera. Sbatte con energia le sue ali che volteggiano freneticamente muovendo l’aria. Armonia e fatica sembrano condensarsi in quel piccolo meraviglioso insetto che lotta insaziabile contro il freddo, verso la sua meta.
Sveva osserva la farfalla bianca. La invidia in un modo talmente vivido al punto che risulta quasi innaturale.
Per quale motivo, lei, avrebbe dovuto provare questo sentimento verso quell’insetto, così fragile e vulnerabile, al punto che si trovava obbligato a concentrare tutte le sue energie per riuscire a compiere dei movimenti?
Lo scruta ancora con attenzione mentre questa strana sensazione accresce in lei.
È come se Sveva desiderasse essere quella piccola, innocua farfalla bianca perché vi riconosce quel coraggio a cui lei, come donna, timidamente ambisce. L’insetto si mostra nella sua fragilità, capace di agire concretamente, propenso a combattere per riuscire a superare i propri limiti.
Lei si osserva. Attentamente.
In quel preciso istante si guarda dentro e coglie la sua completa mancanza di coraggio nel prendere in mano la sua vita per seguire il suo grande amore, Jake.
L’uomo che ha amato dal primo minuto in cui l’ha visto, e con cui è stata coinvolta in un amore folle, passionale e travolgente. Lui deve traferirsi dall’altra parte del mondo, a New York, per poter concretizzare la sua carriera di fotografo.
Vuole accompagnarlo a Manhattan.
Vorrebbe, ma non sa prendere una decisione. Una scelta inattesa, dall’oggi al domani, che stravolgerebbe completamente la sua vita.
Sveva ama la c.d. city e la sua vita caotica, ma partire, proprio in questo momento significherebbe sconvolgere la sua quotidianità, la sua routine. Prendere quel volo l’avrebbe portata a lasciare Chanel, la sorella verso cui provava un sentimento materno da quando aveva dovuto fare le veci della loro madre, scomparsa precocemente.
Una vera sfida per lei, sapeva che Chanel non sarebbe partita per NY.
Respira, il suo sguardo segue la farfalla.
Riflette. È confusa.
Ascolta e assapora l’aria fredda alla ricerca della risposta che ha nel cuore e nel ventre. Sveva sta per diventare madre. Da pochi giorni ha saputo che un piccolo fagiolino, frutto dell’amore con Jake, sta crescendo nel suo utero. Un segreto che pensa di sapere solo lei.
Chiude gli occhi.
L’aria si muove. È Chanel.
Si sdraia accanto a lei, la abbraccia, come una figlia, come un’amica, come una confidente.
Il leggero vento alzatosi muove i loro biondi capelli in una danza dove i fili d’erba dettano il ritmo.
Chanel la guarda e afferma, “Diventerò zia”.
Sveva apre gli occhi. È sconvolta.
“Ho trovato le analisi. Sono felice. Non vedo l’ora di venire e trovarvi a New York.” continua Chanel. “Queste sono le carte per iscrivere il bimbo al nido, so che sembra presto, ma a NY la lista d’attesa è chilometrica”.
Sveva vorrebbe dirle che non è incinta. Non riesce. Non riesce a parlare.
Chanel è un fiume di gioia e di parole. I suoi occhi parlano.
Sveva la guarda e inizia a piangere. È felice.
Si guardano, si capiscono. Come non lo avevano mai fatto.
Dicono in coro “Andiamo a preparare la valigia”.
Arriva Jake.
Sveva lo guarda, con un filo di voce sussurra: “Il nostro fagiolino non vede l’ora di volare a New York.”
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7 – Spiccare il volo – Valutazione: 20 Gaia: Un racconto troppo confuso: tanti elementi accostati, ma non ugualmente utili alla narrazione. L’esordio (un po’ pesante) sull’apparente disagio esistenziale della protagonista, il lunghissimo (troppo!) excursus sulla natura della farfalla e poi,con un improvviso mutamento di registro, la vicenda “spiccia”: l’amore per il compagno, la difficoltà nel decidersi alla partenza per gli USA; e poi la sorella, la gravidanza….. , l’intesa con la sorella, l’arrivo del compagno: troppo! La narrazione non particolarmente scorrevole si sposa ad un linguaggio non sempre corretto. Matteo: Il cuore del racconto è sfuggente, a tratti inconsistente. Il pensiero fisso della protagonista dovrebbe essere il bambino che porta in grembo. Sembra invece che Jake venga prima di tutto. Quali sono veramente le sue priorità? Dovrebbe trovarsi in un momento di grande agitazione, a causa dell’indecisione sulla direzione da dare alla sua vita: di certo questo non riesce a essere trasmesso dall’immagine (troppo leggera) della farfalla. Come fanno Chanel e Jake a sapere dove trovarla? La loro comparsa è improvvisa e poco credibile. Paola: L’idea del racconto è bella ma ci sono alcuni elementi che ne inficiano la potenzialità: da aspetti più marginali (per tener viva l’immagine della farfalla era necessario ambientare la storia in primavera, il fatto che la sorella scopra il test e non, invece, intuisca la situazione perché conosce bene la sorella, l’iscrizione prematura al nido come nulla osta a partre) a elementi più strutturali (il fatto di attendere un bambino condiziona la scelta in maniera significativa, il ruolo marginale del fidanzato che appare solo alla fine). Attenzione all’uso della consecutio. Pietro: La storia è semplice ma ben concepita, il racconto ha problemi di varia natura. Il rilascio delle informazioni non è ottimale, e impedisce al lettore di seguire la vicenda con il giusto coinvolgimento: per la prima metà del testo Sveva non sembra essere alle prese con una decisione difficile, ma con un generico attacco di panico. Alcuni eventi poco plausibili, poi, spesso segnalano altrettante occasioni narrative mancate. Jake appare senza motivo quando, invece, sarebbe stato perfetto immaginare un appuntamento fissato da Sveva per comunicargli la propria decisione. Chanel prepara i moduli di iscrizione all’asilo di un bambino appena concepito quando piuttosto, essendo questa la scena madre, ci si aspetterebbe che si dilungasse sulle ragioni della sua decisione inaspettata. Anche la farfalla al presentarsi dei primi freddi, pur non essendo io un esperto, non mi convince. Infine, attenzione ai tempi verbali. Un’osservazione di ordine generale. La voce narrante è molto diretta, a volte quasi brutale e ai limiti del «dire» (opposto al «raccontare»); può a buon diritto essere uno stile, ma sarebbe meglio, dato che è molto evidente, che fosse altrettanto evidente il motivo per cui lo si adotta. |
“Iniziavano i primi freddi, proprio come in questi giorni, quando cominciai a frequentare tua madre”
“Dai papà racconta!”
“Come mai questa improvvisa curiosità di sapere come ho conosciuto la mamma?”
“Ma niente. Non me lo avete mai raccontato e sono curiosa.”
Dopo un attimo di silenzio la ragazza torna a spronare il padre: “Dai papà!”
“Va bene, va bene. Ora ti dico”
“Non è che non la conoscessi proprio tua madre, frequentavamo la stessa compagnia, anche se in gruppetti diversi.
Da noi iniziavano i primi freddi, ma in montagna era già nevicato e le piste da sci erano pronte ad accogliere i primi amanti della neve, così qualcuno pensò di organizzare una “domenica bianca”.
Io decisi di partecipare, anche se non sapevo assolutamente nulla di sci, ma visto che partecipavano tutti i miei amici non potevo certo tirarmi indietro.
Tua madre lo fece per lo stesso motivo, perché come ben sai lei odia il freddo!
Quando arrivò la domenica partimmo con il pullman verso la nostra meta, trovammo traffico ed arrivammo a mattinata inoltrata, quindi si decise di trascorrere il resto della mattina insieme, al rifugio.
Tra partite a carte e canti stonati arrivò l’ora di pranzo, poi il resto della compagnia prese gli sci e andò sulle piste.
Al rifugio restammo io e tua madre.
Dopo aver fatto finta di fare cose assolutamente urgenti restammo un poco a fissarci in silenzio.
Proposi di giocare a carte, così facemmo per una buona mezz’ora, ma giocare a carte in due, alla lunga diventa noioso.
Rischiava di diventare un lungo e triste pomeriggio.
Per fortuna a risolvere la situazione ci pensò il gestore del rifugio.
“Ehi ragazzi! Perché non vi fate un giro con le ciaspole? C’è un percorso facile e panoramico, che parte proprio fuori dal rifugio. Non è molto lungo, un’ora, un’ora e mezza al massimo. Magari riuscite anche a vedere qualche animale che è sceso a valle a trascorrere l’inverno”
“Ma noi non abbiamo mai provato a camminare con le ciaspole!”
“Non è affatto difficile. Dopo pochi minuti sarete degli esperti! Fidatevi, vi divertirete”
Io e tua madre ci guardammo perplessi, ma alla fine decidemmo di provare, anche perché il pomeriggio rischiava davvero di diventare molto lungo.
Così indossammo le ciaspole e uscimmo a camminare.
Non fu affatto facile!
Però le continue, a volte assurde e comiche, cadute aiutarono non poco a rompere il ghiaccio tra noi.
Comunque tra una caduta e l’altra riuscimmo a stare in piedi ed anche ad apprezzare il percorso, con i suoi scorci panoramici, un lago ghiacciato, l’impronta di cervi scesi a valle a svernare.
Così, quasi senza accorgerci, cominciammo a parlare anche di noi. Solite cose: cosa studi, cosa pensi di fare all’università.
Alla fine impiegammo molto più del tempo previsto.
Quando rientrammo al rifugio era quasi buio e il resto della compagnia era quasi pronto a rientrare.
Per il viaggio del ritorno ci sedemmo vicini sull’autobus, i nostri amici, stanchi per la giornata sugli sci, erano quasi tutti addormentati, noi continuavamo a parlare, ricordando con piacere gli avvenimenti della giornata.
Arrivati a casa, pronti a rientrare ciascuno a casa propria, lei mi si avvicinò e mi disse:
“Hai programmi per sabato prossimo?”
“Altra gita sulla neve?”
“No! No! Per carità! E’ stato bellissimo ma quanto freddo!”
“Pensavo più ad una cioccolata calda al locale in piazza!”
“Ma come papà! E’ stata la mamma a fare il primo passo?”
“Eh già! Così tra una cioccolata ed un thè, passò l’autunno ed anche l’inverno!”
“Ora mi vuoi dire perché eri così curiosa di sapere del mio primo appuntamento con mamma?”
Con un poco di imbarazzo la ragazza rispose
“Beh! Dunque! C’è un mio amico che mi ha invitata a prendere una cioccolata domani pomeriggio!”
Il padre mise un braccio intorno alle spalle della figlia
“D’accordo. Direi che non ci sono problemi. Puoi andare”
Questi primi freddi, che fanno venire voglia di calore e di intimità!
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8 – Gita sulla neve – Valutazione: 23 Gaia: Un racconto molto semplice, al limite della banalità. Nessuna sorpresa, nessun elemento che dia particolare vivacità all’insieme. La narrazione è fluida, ma pecca di un errore strutturale: il racconto del papà comprende dialoghi privi di adeguata introduzione e che male si integrano nel racconto stesso. Anche nella parte finale il passaggio dal ricordo al presente è brusco, con frasi “virgolettate” appartenenti a momenti diversi, ma indebitamente giustapposte. La lingua presenta diverse ripetizioni che, soprattutto in considerazione della brevità del testo, si potrebbero evitare. Matteo: Per come è costruita, la narrazione (pur scorrevole e molto chiara) non funziona. Il dialogo tra padre e figlia non è affatto credibile. Si trasforma in effetti in una vera e propria narrazione con tanto di dialoghi diretti riportati (davvero difficile immaginarsi il padre che riporta parola per parola discorsi sentiti decenni prima). In poche parole: il racconto non è nè carne nè pesce. Dovrebbe scegliere una direzione e seguirla fino alla fine: o si tratta di un vero dialogo (e allora deve essere plausibile) o può diventare una vera e propria narrazione (potrebbe essere il padre a ripercorrere con la memoria i vecchi tempi, proprio perchè la figlia ormai è diventata grande). Paola: Il racconto è semplice e la struttura narrativa non è particolarmente sofisticata, ma è delicato e intimo. Efficace la scelta della conclusione che chiude il cerchio rispetto all’apertura Pietro: L’idea funziona, il racconto scorre. Solo alcune osservazioni. Tutto ciò che è al di fuori del dialogo è così esiguo che, per pulizia stilistica, sarebbe meglio abolirlo (la battuta finale è invece semplicemente brutale). Per la stessa ragione andrebbero sistemati alcuni brevi passaggi in cui la prosa è ripetitiva (ad esempio «alla lunga diventa noioso» e «Rischiava di diventare un lungo e triste pomeriggio»; «il resto della compagnia era quasi pronto a rientrare» e «pronti a rientrare ciascuno a casa propria»). |
Iniziavano i primi freddi e Patrizia passava tutti i pomeriggi chiusa in casa, nel tepore della sua cameretta. Sugli alberi dei viali rimanevano ormai poche foglie, tranne che sulla via Garibaldi, costellata di oleandri con le foglie verdi, ma ormai senza fiori. Patrizia frequentava il Ginnasio e aveva molti compiti da fare a casa. Sua mamma la esortava, a volte, dopo mangiato: “Fai un giretto in bicicletta o a piedi, adesso è certo più caldo di stamattina” A volte Patrizia usciva, col suo cappotto beige, l’unico che aveva, altre volte no, dicendo che aveva tanto da studiare.
La mattina, alle sette, doveva fare un lungo tratto di strada a piedi per prendere l’autobus, come tutti i ragazzi del suo paese che andavano alle scuole superiori che si trovavano 12 chilometri più lontano. Ormai si conoscevano tutti e si salutavano. Prima di salire sull’autobus, parlavano fra di loro. Poi, seduti, in silenzio, ancora assonnati, aprivano un libro, quello studiato di meno e ripassavano o leggevano ex novo. Passava il fattorino, a bucare l’abbonamento mensile o a fare il biglietto.
Già da un pezzo Patrizia si sedeva accanto a Gino, più grande di lei, che frequentava il Liceo. In classe, prima che arrivasse il Professore, Luisa le chiese: “Cosa c’è fra te e Gino?” e Patrizia rispose, scostando dalla fronte con un gesto veloce i suoi lunghi capelli biondi: “E’ sicuramente nato un amore, ma non so quanto durerà.” “Perché? “ chiese di nuovo Luisa ripiegando la sua sciarpa e mettendola sotto il banco ”Stiamo assieme, c’è intesa intellettuale e attrazione fisica, ma non ci siamo mai parlati degli obiettivi del nostro rapporto.” disse Patrizia che aveva risposto dicendo la verità, tutta in un fiato, anche se era visibilmente contrariata dall’invadenza di Luisa ”Forza Pat” la salutò Luisa.
A casa ricevette una telefonata di Claudio. Credette di svenire e rispose balbettando. Ma la sua risposta non fu chiara. Claudio, da Milano, le aveva detto che a Natale sarebbe tornato al paese di Patrizia, nota località balneare, e che intendeva riprendere il rapporto con lei. Patrizia aveva risposto che doveva pensarci. Come fare con Gino? Naturalmente il pensiero era andato all’estate.
L’estate, terminata da qualche mese, era stata molto felice, piena di tante novità. Aveva trovato lavoro come commessa in un negozio di antiquariato e aveva imparato a parlare dello stile dei mobili e addirittura aveva proposto, con tanto di pianta, l’arredamento per diversi ambienti. Claudio era fra i suoi clienti, anche se era giovane rispetto al consueto pubblico. Era figlio di antiquari e comprava mobili per il suo negozio di Milano. Patrizia era fiera di aver conquistato un milanese e, quando usciva con lui nelle sere libere dal negozio, si faceva bella con estrema cura. Poi, quando fu per lui tempo di tornare a Milano, Claudio sciolse il rapporto, contro la volontà di Patrizia.
E ora? In questa nuova stagione?
Patrizia uscì, nel pallido sole, dopo aver salutato la mamma. Andò sul pontile e, guardando il mare, si decise a scegliere tra Gino e Claudio. Scelse Gino e la mattina seguente, senza dirgli niente, si sedette, come ormai di consueto, accanto a lui. Era felice.
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9 – Patrizia – Valutazione: 20 Gaia: Una trama debole e piuttosto scarna, fondata su un personaggio non del tutto ben delineato. Il tema sul quale si fonda la vicenda (le scelte amorose della protagonista) non è dei più coinvolgenti e non appassiona il lettore. Tutta la prima parte (la descrizione dell’autunno che invita a chiudersi in casa e gli inviti della mamma di Patrizia affinché la stessa esca) non ha grande attinenza con la vicenda. La decisione finale (per la quale non è stata creata poi tanto attesa) arriva preciptosa, senza che nulla la prepari o la spieghi: il lettore deve prenderla per buona. La narrazione è fluida, la forma corretta e coerente, ma l’insieme non convince. Matteo: Racconto piuttosto incolore. La personalità della protagonista non risulta ben delineata e la gestione delle informazioni non è molto efficace. Gino e Claudio sono praticamente indistinguibili e non abbiamo nessun indizio che ci aiuti a capire cosa porti Patrizia a scegliere uno piuttosto che l’altro. Paola: La figura di Patrizia è piuttosto singolare: inizialmente appare come una ragazzina estremamente riservata cha la madre è costretta a spingere ad uscire e poi, improvvisamente, diventa contesa fra due ragazzi e il suo dilemma è scegliere quale. E anche la decisione è ambigua e immotivata, quanto meno al lettore. Di Claudio infatti vengono accennati pregi e difetti, mentre Gino sembra subire un rapporto tutto giocato sul sedile di un autobus diretto a scuola. Forse andava anticipata la presenza di Claudio o creato un collegamento tra il suo stare in casa e il dissidio interiore. Lo stile narrativo è scorrevole. Pietro: Un racconto dalla prosa molto buona, con alcuni passi falsi. Il primo e più evidente è la scelta errata del materiale narrativo. Se l’evento che dà origine al problema di Patrizia – dunque alla storia intera – è la chiamata di Claudio, tutto quanto viene prima e non è funzionale alla comprensione del problema stesso non fa parte della storia (mi riferisco ai pomeriggi di compiti e al colloquio con Luisa). Il secondo è la scarsa credibilità della scelta di Patrizia. Mentre, infatti, la figura di Claudio ha luci e ombre notevoli, nulla ci viene detto del povero Gino se non che «c’è intesa intellettuale e attrazione fisica, ma non ci siamo mai parlati degli obiettivi del nostro rapporto»; in effetti è il fantasma del racconto. Perché allora alla fine è lui a spuntarla? |
Iniziavano i primi freddi.
La luce di seta della mattina scoprì, filtrando dai vetri, la stanza immersa ancora in una piccola penombra.
Nel letto due forme riempivano le lenzuola.
Una di queste, forse disturbata dal tocco insistente seppur delicato del sole, si mosse un po’ di più, quasi emergendo piano dai precipizi dei sogni nei quali aveva nuotato fino a poco prima.
Sul comodino la copertina un po’ lucida di un libro brillò, colpita da un riflesso vagabondo. Accanto alla lampada, il telefono si accese, a testimoniare la completa carica avvenuta.
Una testa sbucò dalle lenzuola, si tirò su, lentamente, in silenzio, cercando di non fare scivolare via il tepore della notte, rifugio gradito dalla temperatura inospitale che bussava ossessiva alla finestra.
Si girò verso l’altra forma, al suo fianco. Dormiva ancora e, sotto i suoi occhi, emanò un mugolio impercettibile.
La stette a guardare ancora per qualche secondo, un sabba di pensieri in testa.
Poi si girò verso il comodino, verso l’invito illuminato dello schermo del suo telefono.
Appoggiò la schiena alla testata del letto.
C’era un nuovo messaggio.
Buongiorno, Amore. Ho sognato che eravamo insieme, stanotte. Mi manchi.
Sulle labbra un sorriso provò ad aprirsi, ma si trattenne subito, quasi dovesse star nascosto.
Il dito si mosse, scorse lo schermo, fece apparire la tastiera dei caratteri e poi – dopo un attimo, lunghissimo, di esitazione – iniziò a digitare.
Buongiorno. Manchi anche tu. E questo freddo non aiuta.
Alla sua sinistra la forma che dormiva si mosse ancora, stavolta un po’ più forte, uno scatto infastidito, come se c’entrassero in qualche modo le parole appena scritte e che baluginavano dallo schermo. Non erano state nemmeno inviate.
Finiscila, pensò. Non farti prendere da pensieri strani. Mantieni la calma, pensa a te. A quello che è giusto per te.
Inviò il messaggio. Poi si girò ancora verso l’altro lato del letto. Niente si muoveva.
Nonostante tutto, però, sentì, fulminea, una fitta di rimorso.
Perché doveva andare così? Era davvero giusto quello che stava facendo?
Strinse di più il telefono fra le mani.
La sua mente tornò senza volerlo a una frase sentita in un film guardato di recente, come una risposta per quelle domande silenziose:
Quando ami qualcuno devi fare attenzione, perché potrebbe non capitarti più.
Quanto tempo sprecato, quante inutilità e meschinità arse da quelle poche, roventi parole… quasi insostenibili il peso e il rimpianto che celavano, come anche, però, la feritoia che si intravedeva fra le maglie del suo significato… perché forse anche il Tempo, di solito perfettamente spietato, avrebbe concesso una tregua ai meritevoli.
Amava? Sì, amava. Perché amasse non lo sapeva dire, non c’era spiegazione, come di tutto ciò che è veramente grande, del resto.
Allora perché si trovava lì, con il silenzio di fianco e le sue parole più intime rivolte all’aria e non verso chi dormiva in quella stanza?
Non lo sapeva. Forse il motivo era una forma di debolezza, forse era il non sapersi accontentare, forse il non poter sopportare l’imperfezione, nelle cose, nelle situazioni, nelle persone.
Forse era l’inseguire qualcosa che non c’è, non accorgendosi di averlo già in mano, come respirare dentro una stanza pregna di un buon profumo senza avvertirlo più, a un certo punto, ma continuando piacevolmente a riempirsene i polmoni.
Era strana, quella mattina. Il clima era cambiato durante la notte e, se guardava oltre i vetri, poteva quasi sentire sensorialmente quanto tutto fosse già diretto verso l’inverno, quanto la luce fosse già velata e le foglie sugli alberi a un passo dal macchiarsi di morte.
Tutto muore, pensò. È una fortuna preziosa se riesce a rinascere, se non si perde definitivamente, se fa parte solo di un giro di ruota.
Già. Un giro di ruota.
Scrisse un nuovo messaggio.
Anzi, forse aiuta. Aiuta a riscoprire il calore. Perdonami, ma il mio è già qui.
Addio.
Mentre posava il telefono, alla sua sinistra il fagotto di coperte si ribaltò, aprì gli occhi e le parlò con un tono caldo, profondo, quello che l’aveva fatta innamorare di lui.
– Buongiorno, amore… quanto sei bella, la mattina…
Lei, dall’alto, non poté impedirsi di sorridere apertamente e lo guardò con uno sguardo che sembrava quasi essere stato lavato.
Un’allegria nuova nella voce.
– Tesoro… Andiamo a fare colazione?
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10 – BIVIO – Valutazione: 21 Gaia: L’esordio è promettente, ma precipita presto. Uno scambio di messaggi che si fonda sulla menzogna, un incipiente senso di colpa, repentinamente tacitato, ma poi ascoltato; la protagonista che liquida via sms l’amante per ritornare dal compagno ritrovato…: la dinamica è decisamente sbrigativa, descritta con superficialità e senza alcuna possibilità di essere compresa dall’impreparato lettore che nulla sa dei personaggi (a parte la loro modalità di risveglio, descritta fin nei minimi dettagli…). Un periodo lunghissimo, contorto e di difficile comprensione (e non privo di errori grammaticali): “Quanto tempo sprecato, quante inutilità e meschinità arse da quelle poche, roventi parole… quasi insostenibili il peso e il rimpianto che celavano, come anche, però, la feritoia che si intravedeva fra le maglie del suo significato… perché forse anche il Tempo, di solito perfettamente spietato, avrebbe concesso una tregua ai meritevoli.” Le riflessioni della protagonista sono confuse. Un racconto poco equilibrato. Una scrittura non sempre convincente. Matteo: Molto ben riuscita l’ambientazione iniziale e la descrizione dei protagonisti come masse informi (fino a quando, alla fine del racconto, non verranno illuminati da un’energia nuova nel loro rapporto). In questa prima parte l’unico oggetto ben definito è il cellulare, strumento del tradimento. Nella parte centrale, però, il racconto si fa troppo riflessivo e il lettore perde qualche punto di riferimento. Il finale, pur essendo concettualmente corretto, mi pare eccessivamente repentino e di conseguenza non del tutto credibile. Paola: Il racconto si apre in maniera davvero efficace e invita il lettore a proseguire. Purtroppo lo sviluppo si fa contorto perché si sofferma eccessivamente sulle riflessioni della protagonista che, incapace di scegliere, taglia fuori il lettore dalla sua decisione, come fa per altro con entrambi gli uomini coinvolti. Pietro: Tutto fila liscio finché non cominciano le riflessioni. Qui la mancanza di visione fa smarrire il lettore, che è di fatto escluso dalla vita privata della protagonista: può solo raccogliere pensieri «vuoti», cioè senza un riferimento a nomi, volti, vicende… Per il resto il racconto è scritto molto bene, soprattutto all’inizio, e solo di rado la scrittura diventa imprecisa (si emerge nuotando, ad esempio, dagli abissi, non dai «precipizi») o criptica («quasi insostenibili…»). |
Iniziavano i primi freddi. Ma come in tutte le cose anche questa era relativa, in montagna coi primi freddi ci si può aspettare temperature attorno agli 0° gradi e la neve può apparire anche ai primi di dicembre.
Infatti, anche se mancavano pochi giorni all’inizio dell’inverno, dall’ampia finestra che guardava sulla collina dietro casa, avevo visto la trasformazione del panorama nel passare del tempo. Il cielo, fino a qualche giorno prima ancora tinto di un pallido azzurro, adesso era plumbeo rendendo grigio tutto il paesaggio. La neve però, col suo candore, ne ingentiliva la visione. Ammirare quel panorama risvegliava in me ricordi lontani. Ancora adesso mi torna alla mente di quando, timido bambino curioso della vita, percorrevo insieme a mio nonno un piccolo sentiero che dipartiva da casa nostra e si inoltrava nel bosco attiguo. Che emozione in quelle tiepide giornate primaverili riscoprire la natura che si risvegliava dal suo letargo invernale. I prati, gli alberi e le piante iniziavano a ricoprirsi di foglie e di fiori accendendo il paesaggio con un’esplosione di colori e riempiendomi il naso con una miriade di profumi diversi. Sentire gli uccelli cinguettare spensierati, scorgere svariati animali nel loro vivere quotidiano, tutto era per me nuovo e stimolante e continuamente domandavo al nonno il motivo di una cosa o il perché di un’altra. Lui, paziente, rispondeva a tutti i miei quesiti, orgoglioso e felice che suo nipote volesse conoscere quel pezzo di terra che lui tanto amava. Col passare degli anni mi ritrovai a passeggiare per quei sentieri senza più la sua compagnia, era andato a scoprire sentieri più alti. Mi rammento le calde giornate estive in cui il sole faceva sentire la sua cocente presenza e camminare al riparo degli alberi era l’unica opzione per poterlo fare in un modo gradevole ma, purtroppo, non era sempre possibile. Allora cercavi un piccolo e fugace ristoro rinfrescandoti nelle chiare acque dei minuscoli corsi d’acqua che incontravo nel mio girovagare. Sovente mi capitava di imbattermi, in queste piccole soste, con le mucche che erano al pascolo. Ormai ero cresciuto ma la loro mole mi intimoriva, come da bambino. Erano animali, però, assolutamente placidi e passavo molto tempo ad osservarli, anche se a debita distanza: il loro lento camminare contraddistinto dallo sbatacchiare del campanaccio, il ruminare interminabile, i loro rumorosi muggiti, guardavo tutto quello che facevano. Volevo conoscere il più possibile di quel mondo che il nonno mi aveva insegnato ad amare. L’arrivo dell’autunno, che per molti era un momento triste, trovava in me invece un appassionato estimatore, quei colori caldi (il verde e gli altri colori dell’estate lasciavano spazio al rosso, al giallo e al marrone), la temperatura mite, il cielo sempre azzurro ma un po’ meno luminoso e per questo più godibile, lo scricchiolare di foglie e rami al tuo passaggio, tutto era per me fonte di piacere e mio figlio, guardandomi, se ne rendeva conto nonostante la giovane età. <<Nonno.>> La voce della mia piccola nipotina mi risveglia dai miei dolci ricordi. <<Dimmi, Iris.>> Mi sento rispondere mentre la mia mente ritorna al presente. <<Andiamo a fare l’angioletto?>> Mi chiede speranzosa. So che è uno dei suoi giochi preferiti, quando la neve inizia a ricoprire il terreno le piace sdraiarsi e, muovendo gambe e braccia, lasciare il disegno di un angelo. Lancio una rapida occhiata a mio figlio e a sua moglie e ricevuto un cenno d’assenso. <<Certo. Vai a prepararti.>> Un piccolo grido di gioia riecheggia nel grande salone. A noi adulti sfugge un tenero sorriso nel vedere la sua felicità. <<Anche a me piaceva tanto farlo quando avevo la sua età.>> Mio figlio mi guarda con un lampo di malinconia negli occhi. <<Non si è mai troppo vecchi per fare le cose che amiamo. Vestiti che usciamo.>> Gli dico mentre gli porgo il giaccone. Il sorriso che mi rivolge è lo stesso di quando aveva 6 anni.
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11 – Ricordi lontani – Valutazione: 19 Gaia: Più che un racconto, un susseguirsi di ricordi… Il testo è poco fluido, appesantito dalla mole di aggettivi spesso ridondanti. Il freddo dell’incipit porta il protagonista, inaspettatamente, a pensare alla bellezza della primavera che amava da bambino: un po’ incoerente… Piacevole la scena finale, con il grazioso quadretto nonno, nipote, figlio riuniti per un gioioso gioco infantile; solo qui il racconto prende corpo, ma è un po’ tardi… Il lessico è talvolta inadeguato (il sentiero che si “dipartiva”…, ad esempio); alcune espressioni errate (“mi capitava di imbattermi CON le mucche”…). Un testo un po’ sbilanciato, non particolarmente ben scritto. Matteo: Ad eccezione della scena finale, piuttosto riuscita, la narrazione risulta fumosa e poco fluida. La spirale dei ricordi non riesce più di tanto ad appassionare il lettore, che invece rischia di perdersi nella sovrabbondanza di immagini. Paola: L’idea che l’amore per luogo abbracci diverse generazioni è bella, ma la resa è meno efficace. Si fatica a seguire lo sviluppo della narrazione, anche per una certa sovrabbondanza di elementi descrittivi che appesantiscono il flusso. Più efficace la conclusione. Pietro: L’idea è chiara e molto interessante ma è sviluppata in modo disordinato. Il «presente» da cui partono tutti i ricordi non è stabile: a volte sembra coincidere con il tempo in cui il narratore parla, altre sembra precederlo. La suddivisone in paragrafi, in un montaggio così veloce, in cui le visioni della montagna fanno da trait d’union tra diversi personaggi e momenti temporali, è fondamentale. Se è assente, il lettore si perde. |
Iniziavano i primi freddi e con loro, la nostalgia dei passati inverni, quelli dell’infanzia, il calore del camino acceso ed i Natali tutti insieme.
Andrea era stata una bambina fortunata, nata sotto una buona stella, l’amore della sua famiglia e l’adorazione dell’amato padre, l’avevano accompagnata negli anni più importanti della sua vita ed i suoi ricordi erano molto gioiosi, in netto contrasto con la sua vita di adesso e, forse, proprio per questo, molto più felici di quanto fossero stati in realtà.
Guardava fuori dalla finestra dell’ospedale , la neve che cadeva, lenta, e immaginava l’ennesimo Natale sola, chiusa lì dentro.
Come fosse arrivata lì o come ci si fosse fermata per cinque lunghi anni, non lo ricordava, o meglio le sue erano memorie confuse e tutto quello che le era rimasto di quel tempo, era solo confusione e solitudine.
Qualcuno l’aveva portata in quell’istituto, qualcuno aveva pensato di doverla salvare, qualcuno l’aveva trattenuta in questa vita poco prima che saltasse dall’altra parte, poco prima che saltasse da quel ponte.
A volte, ringraziava quell’angelo, altre, malediva quel mascalzone e quel momento, il momento esatto in cui il suo sguardo aveva incrociato quello del suo salvatore; forse, il suo dolore sarebbe finito, forse, per lei non c’era più speranza e quel gesto, altruista e caritatevole, ora le sembrava inutile e vano.
La neve cadeva silenziosa, senza far rumore, copriva tutto, gli alberi, le foglie, le panchine del parco davanti alla casa di cura e Andrea sapeva che, anche questo Natale, sarebbe rimasta lì, senza un regalo, senza una visita, senza un sorriso.
Non aveva nessun dubbio che sarebbe andata così, ogni 25 dicembre, come ogni giorno di ogni anno che aveva passato in quell’ospedale.
Della sua famiglia non aveva più notizie, da quando suo padre era mancato, tutto era cambiato, la mamma si era chiusa in un dolore sordo e silenzioso, le sorelle vivevano in città diverse, inghiottite dai mille impegni e dalle nuove vite che erano riuscite a costruirsi, lontane dalla città natale.
Lei ci aveva provato, si, ci aveva provato tante volte, aveva cambiato città, amori, amicizie, ma ogni tentativo era andato peggio di quelli precedenti, lavori sempre meno adatti a lei, uomini che le avevano tolto ogni illusione di poter trovare, prima o poi, quello giusto, di poterlo trovare l’amore, quello vero, l’amore per lei, era solo una fantasia e nella sua fervida immaginazione, Andrea, si era rifugiata, per sconfiggere tutto il suo dolore.
Quando andava a scuola, quella fantasia l’aveva salvata, le era servita per scrivere storie e per raccontarsele, anche; sperava che potesse esserle utile anche da grande, ma da adulta, quell’immaginazione, quel suo essere fuori dal mondo, era diventata una malattia e, forse, per questo era rinchiusa in quel palazzo, a guardare la neve, dalla finestra.
Non sarebbero più bastate le mille storie che continuava a leggere nei tantissimi libri che aveva trovato in biblioteca e che, ormai, riempivano la sua stanza, questo Natale le serviva qualcosa di reale, qualcuno da toccare, da abbracciare.
Ma non ci sperava, per la speranza, ci vuole coraggio e lei, l’aveva perso da un po’.
Continuò a guardare il parco che si tingeva di bianco, pensò che sarebbe stato bello uscire fuori e farsi coprire dalla neve che, sempre più fitta, veniva giù; pensò che sarebbe stato semplice, lasciarsi morire sotto quella neve.
Ma non lo fece, non uscì, se ne andò a dormire e aspettò che arrivasse il giorno seguente, che arrivasse un altro Natale, triste, solo e malinconico.
Si svegliò di un umore insolito, negli ultimi giorni si era trascinata dal letto alla poltrona, con gesti meccanici, senza alcuna voglia di farlo, mangiava e dormiva, dormiva e mangiava in un susseguirsi ciclico, senza alcuna volontà, ma quella mattina di Natale il sole splendeva già alto quando lei aprì gli occhi ed una luce entrò dalla sua finestra.
L’infermiera Adele era passata per le medicine, come ogni mattina e Andrea le aveva sorriso, non le aveva mai rivolto parola, prima d’ora, non solo a lei, non ricordava di aver parlato con nessuno in tutto quel tempo, ma quel giorno le era uscito dalla bocca un flebile, timido :“buongiorno”.
E fu per quello, forse, che, quando Adele entrò nella camera di Andrea, le disse con un sorriso enorme , una luce che illuminò tutta la stanza: “Andrea, sbrigati a prepararti, c’è una visita per te! Ah, dimenticavo, Buon Natale!”
Valutazioni Giuria
12 – La finestra di Andrea – Valutazione: 20 Gaia: La trama, per quanto triste, ha una sua coerenza e scorre lungo un ritmo narrativo lento, adatto al contesto. Risulta tuttavia un po’ forzato l’abbandono della protagonista da parte di tutti i membri della famiglia (o quanto meno non ci sono elementi che permettano di capire come una famiglia felice sia potuta arrivare a un tale livello di disgregazione). La parte finale purtroppo non è adeguatamente argomentata e non è dato comprendere cosa abbia messo di buon umore la povera Andrea e l’abbia spinta a rivolgere la parola per la prima volta alla infermiera. Forse il racconto sarebbe risultato completo se qualcosa avesse fatto presagire al lettore un futuro migliore per la protagonista, innescato dal felice evento della visita inaspettata, ma l’assenza di spiegazioni non autorizza ad alcuna previsione… e lascia un senso di incompiuto. La punteggiatura è da rivedere. Matteo: Un racconto povero di immagini: escludendo la scena di Andrea alla finestra, tutto viene detto e non fatto vedere. Sembra quasi che il racconto cominci a giochi fatti. La protagonista non ha alcuno sviluppo ed è proiettata in un passato piuttosto nebuloso. La svolta risolutiva finale non viene motivata e appare incongruente. Paola: Il ritmo narrativo lento riflette in maniera efficace il clima ovattato proprio di una grande nevicata e ben accompagna la descrizione della vita della protagonista, chiusa nell’ospedale e chiusa al mondo. Ci sono tuttavia degli impliciti che non aiutano lo sviluppo della narrazione: l’abbandono completo da parte della famiglia (passi la madre, ma perché le sorelle non la vanno neppure a trovare a Natale?) e il risveglio emotivo della protagonista (cosa è cambiato in quella notte? Cosa l’ha spinta a rivolgere la parola all’infermiera) e l’incontro atteso (Chi la sarà venuta a trovare?). Lo stile è nel complesso corretto. Pietro: Il grande pregio di questo racconto è il perfetto dosaggio delle informazioni. I difetti invece una linea del tempo non sempre chiara (la mattina di Natale Andrea si sveglia quando il sole è già alto, ma dopo aver ricevuto la visita di Adele – come è possibile?), delle virgole selvagge che affaticano il lettore, e una certa timidezza nello sfruttare il capitale narrativo. Il «buongiorno» di Andrea – ciò che rende questa giornata straordinaria e degna di essere raccontata – non è valorizzato fino in fondo, soprattutto nella sua connessione alla lotta interiore che occupa tutto il racconto: i fatti sembrano slegati. |
Iniziavano i primi freddi. La nebbia calava sul villaggio e le nubi nascondevano le cime della montagna. La valle intera sembrava isolata dal resto del mondo, perfino i rumori arrivavano attutiti. I cacciatori tornavano all’imbrunire, con i cani stremati, dopo inutili o deludenti inseguimenti. Faceva tristezza, al calar della sera veder apparire le loro sagome sul crinale: il loro passo stanco raccontava ben più delle loro bisacce vuote. Nelle case gli uomini sistemavano gli attrezzi e le cataste di legna. Tra non molto il gelo avrebbe trasformato il ruscello in una lastra di vetro, la cascata in una scultura di ghiaccio.
La piccola comunità degli eretici viveva nascosta in quella valle, allevando capre, e strappando alla montagna quel poco che offriva. Ma ogni anno, all’inizio dell’autunno, l’arrivo dei primi freddi e l’accorciarsi delle giornate, ridestava in tutti antiche paure. Il ricordo delle stragi, in particolare della più cruenta, quella della Domenica delle palme, era ancora vivo nei racconti dei vecchi, come anche le immagini atroci dei roghi, dei lattanti strappati alle madri, delle fanciulle oltraggiate dalla soldataglia agli ordini del Signor De Petitbourg.
In uno di quei tristi giorni d’autunno, la giovane Marie, era uscita da casa all’alba per incontrare in segreto Rodolfo. All’insaputa dei genitori, entrambi avevano percorso un sentiero per ritrovarsi nel luogo stabilito: un angolo della foresta tra i più fitti e solitari. Da quando aveva l’età, Marie aveva messo gli occhi sul giovane, e lui aveva fatto di tutto per darle appuntamento nella foresta. Quel giorno Rodolfo aveva finto di andare per lepri, portandosi la lancia acuminata che usava per la caccia. Marie dopo aver camminato una buona mezz’ora pensò di essersi persa, nessun tronco o roccia le era familiare e la nebbia, invece di diminuire, si era fatta più spessa. Rodolfo non si vedeva ancora. Si guardò intorno. Lontano, tra gli alberi, un uccello invisibile lanciò nell’aria silenziosa un lugubre singhiozzo.
Marie si voltò istintivamente, come per difendersi da qualcosa di imprecisato e al suo sguardo comparve una sagoma indefinita, a non più di una decina di metri. Pensò ad una delle capre selvatiche che popolavano la montagna. Ma se per l’aspetto poteva assomigliare a quello di un grosso montone, il corpo ricoperto di lanugine bianca e soprattutto il muso, sormontato da un unico lungo corno toglievano ogni dubbio. L’unicorno, l’animale prodigioso, il più difficile da sorprendere, e il più difficile da catturare. Subito le vennero in mente le tante leggende legate al mitico animale. L’unicorno, il più pericoloso tra le fiere, il più combattivo, il più imprevedibile. Si diceva che avesse il potere di purificare le acque in cui si abbevera, e anche che davanti ad una giovane vergine, deposta ogni ferocia, l’unicorno diventasse così docile da arrivare ad addormentarsi in grembo alla fanciulla, e che questo fosse l’unico modo per catturarlo.
Terrorizzata, Marie recitò a bassa voce una parte di un salmo che ricordava a memoria: Ma tu, o Signore, non allontanare da me il tuo aiuto, rivolgiti alla mia difesa. Immobile la bestia la fissava. Salva me, Signore, dalle fauci del leone. L’unicorno si mosse verso di lei. E la mia umile persona. Ora era vicinissimo. Dai corni e dagli unicorni. Marie cadde in ginocchio.
Straordinariamente il tempo le sembrò sospeso e le tornò alla mente un sogno, fatto da bambina, che non aveva mai scordato. Era in una cattedrale e contemplava una pala dipinta. La Vergine era seduta in trono, alla sua destra era rappresentato un angelo che soffia nel corno come un cacciatore. Nel grembo di Maria uno snello unicorno appoggiava docile il muso, mentre ai suoi piedi alcuni cani da caccia sembravano appostati in attesa. Dei cartigli tutto intorno spiegavano la scena, e siccome non sapeva leggere, una voce lo faceva per lei.
Aprì gli occhi che aveva chiuso rivivendo il sogno: l’unicorno aveva il muso sul suo grembo. Senza più paura allungò la mano per accarezzarlo, proprio mentre Rodolfo, comparso improvvisamente davanti a lei, con tutta le sue forze spingeva furiosamente la lancia nel corpo dell’animale. Allo sprizzare del sangue tutta la foresta parve scossa da un fremito.
Valutazioni Giuria
13 – Nella foresta – Valutazione: 33 Gaia: La vicenda si distingue per l’originalità: un racconto interessante, arricchito dal sapore mitologico. L’autore ci immerge profondamente nell’atmosfera quasi sospesa che ben descrive. Risulta tangibile un che di primordiale, leggendario. La narrazione è fluida e scorre con un ritmo piacevolmente lento, ben adeguato al “clima” del racconto. Avrei dato meno peso alle vicende della setta, che risultano un po’ ingombranti rispetto al contesto. Peccato per un paio di sviste formali: “Ma se per l’aspetto poteva assomigliare a quello di un grosso montone”: immagino sia rimasto un “per” di troppo…. Una distrazione, più che un errore. Idem per “L’unicorno, il più pericoloso tra le fiere”, con una concordanza discutibile… Nel complesso un buon lavoro. Matteo: Racconto davvero ben scritto (salvo un paio di sviste a livello di punteggiatura). L’ambientazione invernale riesce a divenire protagonista della narrazione, grazie a una riproposizione efficace di alcune immagini. La vicenda è raccontata con estrema raffinatezza e l’utilizzo della figura dell’unicorno è davvero di grande effetto. Tutti gli elementi della storia sono perfettamente bilanciati. Paola: La scelta della tematica è indubbiamente singolare ma, nel complesso, ben riuscita. L’atmosfera della foresta innevata, la vergine che vi si addentra alla ricerca dell’amato, il ruolo simbolico della creatura fantastica rendono l’insieme una favola nordica. Peccato manchi qualsiasi riferimento, nello sviluppo del racconto, all’eresia della setta a cui Marie appartiene. Vista l’informazione posta in apertura, sarebbe stato bello trovare una ripresa nello svolgersi della narrazione Pietro: Originale l’utilizzo della tradizione e del simbolo, ottima la sua traduzione nella trama, aggraziata la rivelazione della fonte. L’atmosfera del racconto è turbata solo da una svista (ancora più evidente, ahimè, perché non commessa in tutte le situazioni analoghe): l’ordine errato del secondo e del terzo paragrafo – o, meglio, delle informazioni in essi contenute. La visione simbolica della natura è la forza del racconto, il suo schema vincente, ripetuto ma non ripetitivo. Perché allora non far sì che sia Marie a vedere nella nebbia fitta le «antiche paure» collettive della sua setta? |
Iniziavano i primi freddi ed eravamo tutti molto preoccupati per la carenza di materiale adatto all’ inverno imminente.
Avevo sentito molte voci su quella che era la vera situazione. I nostri camerati tedeschi, fanatici ed esaltati come sempre, promettevano ed assicuravano che indumenti, armi e cibo erano già in viaggio, ma la verità era tutt’altra. Non c’erano rifornimenti di alcun genere, anzi, si vociferava che numerosi capisaldi del fronte fossero stati smantellati in fretta e furia.
I tedeschi negavano e insistevano nel parlare solo di vittoria, ma nessuno di noi ormai credeva più a quei vaneggiamenti. Ci si stava preparando ad una ritirata immediata, o meglio, ad una vera e propria fuga.
Nessuno riteneva doveroso informare le truppe alleate, a riprova dell’arroganza tedesca.
Non solo superiori ai nemici, ma anche ai propri alleati.
Non ho mai condiviso la loro fanatica propaganda, e non mi erano mai piaciuti i loro metodi, per non parlare delle voci che giravano su stermini di massa, ma che ci piacesse o no, dovevamo accettare di stare ai loro ordini.
Col passare dei giorni il freddo era sempre più insistente e la neve cadeva ininterrotta.
Ancora non avevamo notizie dei piani generali, e la nostra preoccupazione, diventava vero e proprio panico.
Sul fronte era rimasta solo la fanteria. In caso di attacco non avevamo nulla con cui difenderci.
Finalmente arrivarono comunicazioni, ma meglio sarebbe stato se non fossero mai arrivate. L’ ordine era di coprire la ritirata tedesca, rallentando il nemico il più a lungo possibile.
Malgrado il freddo, mi si gelò il sangue. Eravamo solo pedine sacrificabili, lasciati a morire.
Avevamo aspettato troppo ad agire.
In balia del gelo, immersi nella neve e senza la possibilità di fuggire, se non a piedi.
Restare significava morte certa, quindi decidemmo di tentare una disperata marcia verso ovest.
Non so quanto tempo trascorse, né quanta strada feci.
Ricordo che solo che ad ogni passo moriva una parte di me.
Pian piano smisi di aiutare di cadeva nella neve, di seppellire che ormai era morto, persino di preoccuparmi se i miei compagni fossero ancora acconto a me.
Non avevo più sensibilità a mani e piedi, il vento mi apriva ferite al volto che nemmeno sanguinavano, ma mi trascinavo ugualmente avanti.
Pensavo a casa mia, mi immaginavo a tavola con la mia famiglia, dopotutto era Natale, il primo di mio figlio. Pensare a lui e mia moglie, mi scaldò il cuore.
Ero sicuro che li avrei rivisti. Avevo promesso che sarei tornato. E ci sarei riuscito.
Aprii gli occhi, anche se non ricordavo di averli chiusi.
Non sentivo più il vento. Tentai di voltarmi, ma non ci riuscivo.
Allora mossi solo gli occhi e mi resi conto che ero sdraiato a terra.
Mi chiesi da quanto fossi caduto, anche se ormai contava ben poco.
Non sentivo più dolore, al contrario, sentivo che ogni cosa fosse sparita.
Tutto, tranne il pensiero che sarei tornato a casa.
La vista si oscurava.
Ma ero certo che me la sarei cavata.
Dovevo solo riposare un po’.
Chiusi gli occhi.
Ma non gli riaprii più.
Valutazioni Giuria
14 – L’ INVERNO – Valutazione: 20 Gaia: Un racconto che abusa di un tema decisamente greve, quale quello della guerra. Troppo diffusa e alquanto banalizzata la critica al popolo tedesco. Brusco e poco riuscito il passaggio improvviso alla vicenda più intima del protagonista, con il suo ineluttabile cammino verso la morte. La voce narrante del protagonista che tiene a precisare la definitività della chiusura degli occhi è decisamente inopportuna. Un paio di refusi e qualche incertezza nell’impiego dei tempi verbali. Matteo: Approssimativo. L’argomento trattato (complesso dal punto di vista storico e ricco di precedenti letterari illustri) presenta non poche trappole. Non capisco la necessità di dedicare tanto spazio alla situazione generale (senza riuscire in ogni caso a restituirne un’immagine concreta e veritiera). Mi sarei concentrato sin dall’inizio sulla vicenda personale del protagonista, che invece rischia di rimanere piuttosto superficiale. Una domanda sorge spontanea: è davvero importante che la vicenda accada in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale? Paola: Con un esordio come questo, il tema storico è sicuramente uno sviluppo naturale. Il racconto si divide in due parti, a mio avviso: la prima di invettiva nei confronti dell’alleato, se così si può dire, tedesco e la seconda più introspettiva, in cui il viaggio verso un ultimo e disperato tentativo di salvezza è anche un viaggio dell’anima. La dicotomia tra le due parti è tuttavia troppo netta: sembrano quasi due racconti diversi. Pietro: Il racconto scorre, ma manca di plasticità nella prima parte. L’odio verso i tedeschi sprezzanti e bugiardi, il sospetto di essere trattati da loro come carne da macello, il tradimento del proprio comando: tutti questi passaggi, benché espressi a chiare lettere, non si fanno mai davvero visibili, palpabili, «incarnati»; col risultato che si fatica a capire quale sia la posta in gioco – una posta in gioco così viscerale come la vita. L’ultima frase è mio avviso controproducente. Senza di essa il finale sarebbe comunque perfettamente chiaro e molto più drammatico e aggraziato, poiché lascerebbe al soldato morente l’illusione in cui non crede, ma che gli è necessaria per affrontare la morte. Infine non sono sicuro che la prima persona singolare (sempre controversa, peraltro, in bocca a un morto, almeno al di fuori del fantastico) aggiunga al racconto qualcosa che la terza non può dargli. |
Iniziavano i primi freddi. Le ore del mattino e della sera al chiosco cominciavano ad essere dure e i guanti senza dita non erano il miglior alleato nella sfida all’inverno.
Notai quel ragazzo che passava con i pochi studenti scesi alla fermata della linea 7. L’avevo visto per due pomeriggi di fila: dopo essersi avvicinato con una camminata lenta e circospetta, aveva guardato verso il mio chiosco per un po’, con aria indecisa, e poi si era infilato nell’edicola. Ne era uscito per due volte con lo stesso numero de “La Settimana Enigmistica”.
Era un ragazzo alto e magro, sui sedici anni, con capelli piuttosto lunghi e spettinati. Uno di quelli che vogliono sembrare sempre contro qualcuno o qualcosa, volutamente trasandato negli abiti, con lo sguardo dolce e i movimenti un po’ impacciati. Chiacchierava con una ragazza che poteva essere sua coetanea, anche lei magra, una bellezza dolce e acerba, che può non lasciarti scampo a quell’età. Lei gli tirava un lembo del parka verde e rideva, mostrando una finta espressione inorridita. Lui si impettiva, sollevava il mento e indicava la propria giacca con un gesto d’orgoglio, ma anche a lui scappava da ridere. Quando l’attenzione della ragazza fu richiamata da un’amica e lei si voltò per rispondere, notai che lo sguardo del ragazzo inseguì il sorriso che non si era spento sulle labbra di lei. Poi si erano allontanati.
Lo rividi attorno alle quattro e feci una cosa che non faccio mai: uscii dal mio chiosco per invitarlo ad entrare. Non è da me, mi fa sentire come se implorassi o fossi un venditore porta a porta. E io invece sono il fioraio: quello da cui vai per i suoi fiori; perché l’altra volta ti ha composto un mazzo che era un quadro… Quel giorno, però, sentii come fosse un mio dovere prenderlo per mano.
«Hai forse bisogno di me?»
Non rispose, ma mi guardò, tenendo il mento abbassato sul collo, e nei suoi occhi chiari, in mezzo a un mare di imbarazzo, lessi sollievo e gratitudine. Venne verso il chiosco e fui di nuovo io a parlare:
«Facciamo delle belle rose rosse?»
«Sì», si limitò a rispondere, cercando di iniettare nella voce una goccia di sufficienza, senza risultare credibile.
«Quante ne vuoi? Tre?»
Il ragazzo annuì, mentre il suo viso prendeva colore, come se poco alla volta lo stessi sollevando da un grande peso.
«Ecco qua, ti piace se ci metto questo nastro? Ti lascio qui un bigliettino e la penna se vuoi scrivere qualcosa»
Prese la penna e dalla tasca dei jeans estrasse un foglietto sgualcito, scritto in penna nera e pieno di cancellature. Si mise a copiarlo. Toccando il foglietto si sporcò le dita di inchiostro e macchiò il biglietto delle rose. Disse una parolaccia tra i denti ed ebbi l’impressione che stesse per scendergli una lacrima. Gli diedi immediatamente un altro biglietto.
«Grazie» mi disse. Copiò di nuovo ciò che si era preparato, pagò, si strinse nel parka e uscì.
Un paio d’ore dopo, stavo sistemando gli anemoni in vetrina. Il freddo si faceva sentire anche dentro il chiosco, e mi sollevai per soffiare sulle mani gelate. Puntati su di me c’erano gli occhi del ragazzo, rossi, lucidi e pieni di rancore, al di là del vetro. Attirò la mia attenzione il suo maglione a righe orizzontali marroni e azzurre. Era più pettinato del solito ed evidentemente infreddolito. Scappò via.
Cercai di uscire in fretta dal chiosco per seguirlo. Andai verso la strada principale, ma non lo vidi, così tornai indietro e superai l’edicola. Nella piazzetta retrostante la ragazza dal bel sorriso stava ridendo alle parole di un ragazzo alto, moro, con i capelli corti. Lei gli toccava una guancia col dito, lui le sfiorava il braccio. Non so quanto rimasi a guardarli. A un tratto sentii delle gocce di pioggia ghiacciata che mi pungevano gli zigomi. Lui la strinse a sé e la coprì con la sua giacca, accompagnandola sotto i portici.
Tornando verso il chiosco, vidi qualcosa che era stato buttato a terra di fianco a un cestino e mi avvicinai per vedere di cosa si trattasse. Erano un parka verde e tre rose rosse calpestate. E un biglietto. Lo raccolsi e me lo misi in tasca.
Valutazioni Giuria
15 – Tre rose – Valutazione: 25 Gaia: Una vicenda nota (primi amori, primi slanci, prime delusioni…) raccontata in modo piacevolmente inusuale dal proprietario del chiosco di fiori. Curioso e simpatico il modo in cui il protagonista si lascia coinvolgere nella vicendda amorosa dei due ragazzi, alleandosi all’impacciato e ombroso adolescente innamorato. Alcuni passaggi paiono un po’ forzati: la leggerezza allegra con la quale il ragazzo (il tipico adolescente ribelle e arrabbiato, a detta dell’autore) si rapporta alla fanciulla; la facilità con la quale il giovane si lascia guidare dal fiorista; la necessità di mostrare al fiorista la propria rabbia… La forma è corretta. Matteo: Davvero molto riuscita la narrazione dal punto di vista del fioraio. Un punto di vista differente e fantasioso sulla storia più antica del mondo: il primo amore (non corrisposto). La forma è buona e la lettura è scorrevole. La scena finale (dove la ragazza è in compagnia di un altro), pur essendo ben scritta, forse non è fondamentale ai fini del racconto. Si potrebbe invece dedicare maggior spazio all’indecisione iniziale del ragazzo, così da farne emergere meglio la psicologia. Paola: Un racconto semplice, che ha per protagonista le sofferenze generate dai primi amori. Ben tratteggiata la figura del ragazzo impacciato e innomorato, meno riuscita la conclusione. Sarebbe stato forse più efficace limitarsi a far trovare le rose calpestate e sfumare la conclusione. Stilisticamente corretto. Pietro: Il racconto è concepito e scritto bene. A non convincermi del tutto è la figura del ragazzo. Il suo «lato oscuro» (l’incapacità di mostrare e gestire le sue fragilità) non trova espressione adeguata in almeno due occasioni, quando cioè accetta subito, pur con difficoltà, l’aiuto del fioraio (o fioraia – anche questo forse andrebbe chiarito) e quando si limita a guardarlo con rancore. Nel primo caso, per come è stato tratteggiato, ci si aspetta che rifiuti il primo approccio; nel secondo che la sua rabbia esploda in maniera meno composta, anche violenta (con un atto di vandalismo, ad esempio). Inoltre, a livello di trama, non è necessario che il fioraio veda la ragazza col moro. I fiori e il biglietto gettati a terra sono abbastanza eloquenti. |
Iniziavano i primi freddi, Margaret era sempre più depressa d’altronde come non capirla vivevamo in una topaia che puzzava di marcio col soffitto gocciolante ed accendevamo carta da giornale in un secchio per riscaldarci, era tutto così desolante.
Non avevo un lavoro stabile, dipingevo per le strade di New York ma ciò non bastava per sopravvivere, riuscivo a malapena a racimolare qualche spiccio per comprare del pane ed è per questo che Margaret era costretta a prostituirsi.
Mi sentivo uno straccio! Non accettavo l’idea che mia moglie soggiacesse al volere di luridi porci ma era l’unico modo per sfamare la piccola Amy, nostra figlia.
Era un lampo di luce in una vita buia ormai avevamo toccato il fondo eppure è stata proprio la prostituzione ad accendere un barlume di speranza.
Quel giorno Margaret aveva diversi appuntamenti al che portai Amy con me, per intrattenerla le diedi una tela ed un pennello e da li avevo capito che avesse del talento ma sapevo anche che il talento non sempre era ripagato.
Da quel giorno il passatempo preferito di Amy era diventato la pittura, dipingeva cinque sei tele al giorno ero esterrefatto che una bimba di soli cinque anni era in grado di realizzare dei veri e propri capolavori, aveva uno stile mistico ed astratto ma dalla grande profondità prospettica.
Iniziai a pensare che Amy fosse una bambina prodigio ma allo stesso tempo ero conscio che stavo semplicemente elogiando i lavori di mia figlia.
Nella disperazione mista alla curiosità iniziai a portare con me le tele di Amy per avere un riscontro col pubblico, avevo allestito un piccolo museo a cielo aperto.
Molti dei passanti si soffermavano ad osservare quei lavori, incuriositi ne cercavano il significato ma nessuno andava oltre la curiosità, non vi era offerta, quei pannelli restarono invenduti.
Nei giorni successivi, senza perdermi d’animo, continuavo a portare con me quelle tele, il freddo era sempre più pungente e le strade innevate erano quasi deserte.
Uno, due, tre passanti ma nulla quando ad un tratto: “salve sono il signor Martin Koll curatore d’arte e collaboratore presso il Metropolitan Museum, sono i suoi questi dipinti?”
Gli spiegai tutta la vicenda e rimase molto entusiasta della storia ma soprattutto dello stilismo artistico di quelle tele, mi propose una valorizzazione delle opere che, a suo dire, avrebbe avuto una grande ripercussione in termini di successo oltre che economici.
Questa volta, pensai, la giostra sta girando nel verso giusto!
Tornai velocemente a casa, la porta era socchiusa e la neve impediva alla stessa di chiudersi mentre l’aprivo notai le scarpe di Amy rivolte verso l’alto e lei stesa a terra avvolta in una pozzanghera d’acqua che gorgava dal soffitto.
Quel ticchettio del gocciolio divenne un macigno che mi comprimeva il cuore, Amy non aveva alcuna reazione.
“Amy per l’amor del cielo, Amy! Svegliati!”
Il battito non pulsava, il ticchettio dell’acqua diventava sempre più insistente stavo per impazzire Amy era morta assiderata ed accanto a lei v’era un foglio, bagnato, con su scritto “prenditi cura di lei, tua Margaret”.
La giostra s’era di colpo fermata, questa volta per sempre, le mie uniche ragioni di vita mi avevano abbandonato.
Nel giro di qualche mese, grazie al signor Martin, venne allestita una mostra in onore di Amy al Metropolitan Museum ed i suoi dipinti avevano acquisito un valore smisurato ed io iniziai a vivere nel benessere più assoluto.
Il senso di colpa per aver spinto Margaret a quel gesto estremo e la perdita di Amy erano troppo forti, tali che nessuna cifra avrebbe potuto ripagarli.
Quella giostra in realtà non s’era mai fermata aveva solo portato via con se il calore degli affetti in cambio del freddo benessere economico.
Valutazioni Giuria
16 – La giostra – Valutazione: 13 Gaia: Un racconto nel quale vengono accatastate disgrazie, senza alcun segno di possibile miglioramento, fino alla tragica e incomprensibile conclusione. Irreale la morte della bimba per assideramento (improbabile che sia rimasta sola tanto a lungo una bimba piccola adorata dai genitori!), decisamente inspiegabile la fuga della madre e il facile successo del padre ; impensabile che ai genitori non sia stata attribuita alcuna responsabilità per la morte della figlioletta… La narrazione zoppica e precede faticosamente; la forma ha diverse pecche. Matteo: La vicenda è difficilmente credibile. Il fatto che il protagonista lasci prostituire la moglie invece di cercarsi un lavoro non è verosimile. La moglie inoltre scompare quasi completamente nella parte centrale della storia. Il suo personaggio è evanescente e non ne comprendiamo le motivazioni. La forma è decisamente migliorabile. Paola: La vicenda narrata non è solo triste ma ha anche dei contorni grotteschi. Come è possibile che un marito accetti di far prostituire consapevolmente la moglie per continuare a dipingere e non si pieghi a mettere da parte la propria arte per un lavoro che faccia vivere, se non bene, almeno umanamente la propria famiglia? Come è possibile che un padre, invece di tentare di mandare la figlia in una scuola che la tolga dalla strada e ne potenzi il talento (anche con una borsa di studio) pensi a venderne i quadri? Da ultimo, può una madre lasciare una bambina di 5 anni sola per andarsene? Almeno poteva aspettare il ritorno del marito…. Se Amy ha fatto in tempo a morire assidereta sarà stata sola a lungo! Diversi gli errori di forma Pietro: La storia è ben definita, anche concettualmente (come si legge nelle ultime righe); purtroppo la narrazione non la rispecchia. La voce narrante non è convincente: a volte è partecipe, altre sembra dissociata e crudele. La trama è troppo lunga per essere dispiegata in maniera lineare. Forse sarebbe stato meglio richiamarla dall’interno di una sola scena. |
Iniziavano i primi freddi e Marika stava per affrontare il suo primo autunno da mamma. Una notte con troppi risvegli, tre per allattare e almeno altri tre per controllare se Mauro era coperto e respirava. Ora il bimbo dormiva e lei si era alzata. Trascinando i calzini antiscivolo che aveva tenuto ai piedi anche a letto, era entrata in cucina, aveva afferrato la caffettiera per la base senza ricordarsi che Sergio, prima di andare al lavoro l’aveva usata e quindi era ancora bollente. La scaraventò nel lavello ma non gridò, un riflesso automatico che ormai le scattava quando Mauro dormiva per più di un’ora di fila. Soffiando sul palmo della mano destra aveva preso il cellulare con la sinistra: il meteo dava una giornata con le temperature molto in calo. Cercò Google-passeggiate-neonati-primi-freddi: “Quando si esce per una passeggiata è meglio scegliere un body a manica lunga in caldo cotone con sopra una tutina in ciniglia, un golf e un giacchino”. Ho tutto, pensò, oggi si esce! Si versò un goccio di succo all’albicocca e addentò un biscotto secco. Poi guardò fuori dalla finestra. Il vento scuoteva la salvia. Riprese in mano il cellulare: Google-passeggiate-neonati-giornate-ventose. “Consigliamo i guantini, così come le sciarpe solo nelle stagioni rigide. L’unica controindicazione sono le giornate molto ventose, ma l’uso dicuffiette di pile o lana che coprono molto bene la testolina per lo più glabra del neonato, sono da preferire ai cappellini”. Mauro però non è glabro, pensò. Ma quindi sarà meglio il caldo cotone o il fresco lana sulla testolina? Mentre rifletteva, il cellulare iniziò a squillare. Dannazione! Pensò, mentre Mauro dalla sua stanza si era immediatamente svegliato e stava piangendo. – Pronto? – Non penserai di portarlo fuori con questo vento! – Buongiorno a te mamma, comunque sì, devo comprare due cose e poi ho bisogno di aria. – Si prenderà qualcosa! – Devo andare, sta piangendo – Non è che devi correre ogni volta che piange! – Mamma, avrà fame! – Se continui ad attaccarlo al seno ogni volta che piange crescerà viziato! Marika chiuse la chiamata e corse in cameretta. L’odore nell’aria le diede subito una risposta. Lo prese in braccio e lo portò sul fasciatoio. Staccò a uno a uno i bottoncini del body e poi aprì il pannolino. Niente, non ci si può abituare a questo odore, pensò. Lo lavò col sapone neutro e mise la cremina anti arrossamento sulle parti intime. Mauro però non si calmava. Allora provò a rivestirlo in fretta e ad attaccarlo al seno mentre sua mamma, da casa, scuoteva la testa. Nulla. L’unica era portarlo fuori. Lasciò per un attimo Mauro sul fasciatoio ma subito, col fiato in gola, tornò indietro di corsa e gli mise una mano sul pancino. Cretina! poteva cadere, si rimproverò! Lo prese in braccio e lo mise al centro del lettone. Allora, devo vestirlo a cipolla, pensò. Mauro, che nel frattempo aveva ripreso a piangere, le stava mettendo fretta. Body in cotone a manica lunga calzine di lana, tutina in ciniglia, golfino in lana e giacchino, pensò velocissima. Rovistò nell’armadio e gettò tutto vicino a Mauro. Salì con le ginocchia sul letto e provò a canticchiargli una canzone mentre lo vestiva. Mauro irrigidiva le gambine e complicava le operazioni. Proprio in quel momento chiamò Sergio – Ma proprio adesso? Pensò e decise di richiamarlo più tardi. Terminò di vestirlo e disse – Eccoci pronti per un giretto! Solo in quel momento si rese conto che era ancora in pigiama e che non si era lavata. Pur di non spogliarlo di nuovo mise Mauro dentro la carrozzina e lo lasciò appena fuori dalla porta dell’appartamento, dove c’era più fresco, si mise una molletta nei capelli, si risciacquò la faccia, indossò un giaccone e si raccontò che era pronta. Una volta in strada alzò la copertura trasparente anti vento della carrozzella. Ora Mauro sembrava dentro una serra, la fissava con occhi sbarrati e riprese a piangere. Marika allora rientrò con la carrozzina nel palazzo. Corse in casa, prese la fascia, se la legò intorno al corpo e tornò di corsa dal bambino. Lo tolse dalla carrozzina, lo prese in braccio, gli levò il giacchino e legò suo figlio stretto al suo corpo, nella fascia. Mauro smise subito di piangere. Marika allora spense il telefono e iniziò a camminare di buon passo.
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17 – Una passeggiata – Valutazione: 24 Gaia: Un quadro un po’ scoraggiante, ma… Il ritmo narrativo (del tipo: da leggere tutto d’un fiato, senza mai riprendere respiro) è perfettamente adeguato al senso della vicenda: una neo-mamma impacciata, stressata per le mille accortezze che richiede la gestione di un neonato in mani ancora inesperte e ulteriormente appesantita dalle fastidiose e saccenti ingerenze materne, tenta faticosamente di organizzarsi per uscire. Divertente il ricorso a Internet, consigliere ormai universalmente interpellato a qualunque proposito. Il finale, a parer mio, meritava un passo finalmente rallentato (azichè quel “iniziò a camminare di buon passo”), così che il lettore potesse compiacersi del minimo di benessere faticosamente conquistato dalla affaticata mamma, ma il ritmo pare non poter rallentare… Alcune ripetizioni. Matteo: Il racconto è ben scritto e riesce a far emergere alla perfezione lo stress che può essere causato da un neonato. La narrazione è però limitata alla costruzione della situazione e la storia non ha uno sviluppo. Trovo fuori fuoco la frase “mentre sua mamma, da casa, scuoteva la testa”. La narrazione è in terza persona e dal punto di vista della protagonista, che quindi non può assolutamente sapere cosa stia facendo la madre a casa sua. Paola: La vita con un neonato, soprattutto se è il primo figlio, può veramente assumere i tratti tragicomici di una lotta per la sopravvivenza e la descrizione che ne viene fatta è calzante e ben ritmata. Il senso di inadeguatezza della protagonista si coglie in alcuni passaggi (quando parla con la madre, quando si dà della “cretina” per aver lasciato il bambino incustodito….) ma sarebbe stato interessante indagarlo più a fondo, soprattutto nel rapporto con la madre. La paratassi avrebbe dovuto essere accompagnata da una paragrafazione più attenta. Pietro: Il ritmo del racconto funziona. La lotta per una passeggiata mattutina assume proporzioni quasi epiche e coinvolge subito il lettore. L’aspetto tematico è meno chiaro, tanto che in un passaggio emerge per conto suo e in maniera scomposta («Allora provò a rivestirlo in fretta e ad attaccarlo al seno mentre sua mamma, da casa, scuoteva la testa»). La lettura è veramente dura senza una divisone in paragrafi. |
Iniziavano i primi freddi e come ogni anno quel clima lo metteva di buon umore. Non era solo l’attesa della neve, quella coltre magica che ricopriva ogni cosa e nascondeva il più possibile il paesaggio alla vista. Non era la prospettiva di un lungo periodo di ibernazione, la preparazione dei suoi cibi preferiti, leggere sdraiato di fronte al caminetto.
Era tutto questo, certo, ma molto altro.
Gli era sempre sembrato che il clima rigido lo rappresentasse, non perchè lui fosse una persona fredda o distaccata, tutt’altro, si considerava affettuoso con coloro ai quali era vicino, ma era anche uno che cercava sempre di nascondersi, di non attirare l’attenzione su di sè.
Essere rintracciato era un lusso che non poteva permettersi.
*****
Lei stava ascoltando Tiny Dancer, una delle sue canzoni preferite, quando lui entrò in salotto. La osservò, raggomitolata in divano, avvolta in una coperta rossa e blu scuro in tartan scozzese, intenta ad incartare regali.
Lui era un disastro in quello, ed era felice che per il secondo Natale di fila ci fosse lei, in quella casa troppo grande per una persona sola, a riscaldare sia lui sia l’atmosfera. Sedette accanto a lei e le tolse il regalo mezzo incartato dalle mani, avvolgendola in un abbraccio.
“Sei gelido!” protestò lei, senza però scostarsi. Lo strinse ancora più forte a sè, baciandogli la guancia freddissima. “Tutto bene là fuori?”
Lui annuì silenziosamente. “Nessuna traccia.”
“E continuerà così. Sarebbero dei pazzi ad inoltrarsi nel Maine con questo tempo.”
*****
La verità era che sarebbero potuti arrivare in qualunque momento, ma dopo anni di lontananza, di sicurezza, era abbastanza sicuro di aver fatto perdere le sue tracce.
Da quando le aveva raccontato tutta la verità sul suo passato, però, lei gli chiedeva spesso se andasse tutto bene. Per lui era ancora incredibile che fosse voluta rimanere con lui nonostante ciò che aveva saputo, ma lei invece lo faceva sembrare così spontaneo, così normale. Non riesco a immaginare una vita senza di te.
Ci pensava tutte le sere, prima di addormentarsi. Dopo aver iniziato la vita con una mano di carte schifosa le cose avevano iniziato a girare per il verso giusto. Era riuscito ad andarsene, si era trasferito dall’altra parte del Paese e aveva reciso qualunque contatto.
Ogni tanto ripensava a quelli rimasti laggiù. Si sentiva in colpa? In parte sì, per suo fratello. Aveva provato a convincerlo a seguirlo, ma lui aveva avuto troppa paura, non aveva accettato di correre rischi, preferendo la familiarità di ciò che conosceva da sempre.
Ma lui era diverso. Aveva atteso l’occasione giusta per anni.
*****
La sera della vigilia di Natale, dopo cena, se ne stavano raggomitolati di fronte al caminetto in cui ardeva il fuoco. Fuori infuriava una tempesta di neve da ore.
“Perchè non facciamo uno strappo alla regola e apriamo i regali anche se non è mezzanotte?” propose lei.
Lui non riusciva mai a dire di no a quei grandi occhi verdi che lo fissavano adoranti. “Io ho solo un regalo per te, in realtà…”
Lei lo guardò curiosa e attese, mentre lui ignorava i pacchetti sotto all’albero e apriva la cassettiera lì vicino. L’aveva nascosto dove non avrebbe potuto trovarlo, doveva essere una sorpresa.
Glielo porse e attese che lo scartasse, ammirando il suo volto incorniciato dalle ombre create dal fuoco. Era splendida. “Vuoi sposarmi?”
Lei alzò gli occhi dall’anello, incredula, senza parole. Era ovvio che non se l’aspettasse.
“Non riesco a immaginare una vita senza di te…” mormorò lui, copiando le parole usate da lei tempo prima.
Dopo quello che gli parve un intervallo di tempo infinito lei sorrise e annuì freneticamente, gettandoglisi al collo e baciandolo.
“Spero che smetta di nevicare! Voglio andare in città domani e farlo vedere a tutti!” esclamò allegra lei, mentre lui le infilava l’anello al dito e lei lo rimirava quasi con soggezione.
Lui sorrise e la baciò sulla fronte. “Non scapperò. Lascia che nevichi.”
Valutazioni Giuria
18 – Lascia che nevichi – Valutazione: 20 Gaia: Concordo nell’accennare e suggerire gli eventi, più che descriverli pedissequamente, ma così è un po’ troppo… Bisogna pur dare al lettore qualche indizio per capire in cosa consista la vicenda. I fatti che hanno portato il protagonista a fuggire sono così poco chiari che perdono rilevanza e risultano quasi inutili, se non fastidiosi, per il tema centrale (il rapporto fra il protagonista e la fidanzata e la proposta di matrimonio). Il racconto è ben scritto, ma lascia insoddisfatti. Matteo: Il racconto, pur essendo ben scritto, non è adatto alla brevità dello spazio a disposizione. Il passato del personaggio rimane nebuloso e, più che darci risposte, la narrazione solleva nuove domande. Il rapporto tra i due innamorati è più chiaro, ma rimane davvero troppo sbrigativo e il lettore non è pronto alla svolta della proposta finale. Merita più spazio e maggiore approfondimento. Paola: Peccato! Il racconto è ben scritto ma la dicotomia tra le due parti è troppo netta. Il passato del protagonista che tanta parte ha avuto e ha ancora oggi nella vicenda non è spiegato e non è risolto. Vivono nel limbo della clandestinità. E la relazione presente che sembra appena sboccita è invece giunta alla soglia del matrimonio, senza essere stata approfondita. Entrambe le strade erano una promessa interessante ma andavano approfondite. Pietro: Un racconto promettente, ben scritto, che tuttavia non è a fuoco. Non ha senso lavorare così tanto sul passato del protagonista, suscitando attese nel lettore, per poi cambiare direzione come se fosse solo funzionale alla storia d’amore. Anche perché è la storia d’amore stessa, di cui viene detto poco o niente, a soffrirne. Occorre scegliere su quale dei due materiali narrativi puntare. |
Iniziavano i primi freddi e ad annunciar la galaverna era il crepitio della stufa, che scoccò l’ora di fare le scorte di torba e di biada.
In quell’autunno del 1938, ospitammo nell’isba un pigionante, Lyosha, il nuovo medico del paese arrivato dentro un cappotto goffamente abbondante, ma dal cui bavero sbucava uno sguardo sereno e profondissimo. Mamma non aveva amato subito quel proposito, poi papà le spiegò di come i medici portassero in dote dal ministero un camion di torba e la decisione fu unanime.
Nell’unico stanzone, il dottore prese posto vicino alla finestra, dopo aver arredato il suo cantuccio di un tavolo su cui leggeva e prendeva certi appunti. Sulla parete opposta, sotto una madonna nera di Kazan’, era gettata la branda di nonna, mentre mamma e papà dormivano sopra la stufa ed io conservavo soddisfatto il mio angolo, lontano dagli spifferi, seppure un po’ buio e per questo prediletto dagli scarafaggi. Non trascorse molto tempo, che Lyosha s’era fatto una presenza discreta: poco più ingombrate della vetrinetta del samovar ed un po’ meno loquace della pendola che suonava Korsakov due volte al dì.
Accadde durante una cena di novembre, che un ufficiale dopo aver fatto irruzione, si piantò in mezzo alla stanza ansimando:
“Dottore dovete seguirmi immediatamente a Kirov!”
Vidi Lyosha alzare lo sguardo, senza smettere di sorbire il suo orzo:
“Cos’è accaduto?”
“Un ragazzo… sotto un carro!”
“Allora devo far tappa al laboratorio” e si passò il dorso della mano sui baffi
“Va bene, ma fate presto per l’amor di Dio! Una sentinella vi aspetterà all’inizio del paese”
L’ufficiale si dileguò.
Lo accompagnai col calesse attraverso una notte diafana, rotta in cielo dal firmamento e quaggiù dai sassi che tintinnavano sotto gli zoccoli della cavalla.
La nostra guida ci scortò con mia sorpresa presso l’abitazione di Smirnov, il presidente del Kokhoz. Lyosha sembrò non darsene alcun peso, come fossimo alla soglia d’un contadino qualunque e mi fece cenno di seguirlo con la borsa dei ferri.
Nell’isba illuminata a giorno, il silenzio era trafitto da mormorii e singhiozzi. Ci portarono in una stanza dove riconobbi il presidente, il cui sguardo era vitreo e perso in direzione d’un lettuccio. Una macchia amaranto s’allargava sotto le gambe d’un ragazzo straziato in volto e mentre l’odore acre del sangue e della carne viva mi penetrava le narici, l’ufficiale che aveva fatto irruzione durante la cena, confessò con voce angosciata:
“Il ragazzo è stato impallinato ad una gamba” e crollando la testa per nascondere lacrime penitenti sussurrò “Salvatelo! Dovete salvarlo…”
Lyosha prese un tono ed uno sguardo tanto carezzevoli che mi commosse:
“Come vi chiamate?”
“Andrej”
“Andrej passatemi quella bottiglia di vodka, volete?”, ma dovette ripetersi e lo fece con immutata dolcezza: “Andrej, è stato un incidente e salverò vostro fratello”
“E la sua gamba?”
“E la sua gamba. Ma ora fate come vi dico, poi uscite portando con voi vostro padre”
Rimanemmo soli e mentre nella testa mi turbinavano pensieri e domande, subito versò la vodka sulla carne sanguinante: vidi allora il ragazzo irrigidirsi spalancando orribilmente gli occhi e la bocca, e senza emettere alcun fiato, perdere i sensi.
In quella notte ebbi modo di apprezzare Lyosha ben oltre il suo camion di torba, colpito dalla capacità di infondere calma con la propria fermezza e profondere compassione nell’angoscia e nella tragedia. E mentre con agile maestria puliva, incideva, tagliava, estraeva e poi disinfettava, ricuciva e fasciava, rispose di par suo alle domande che non gli avevo ancora fatte:
“È nella paura più profonda che riconosci sommamente la natura delle persone ed in quell’attimo di ineguagliabile umanità, ti è donata la rara grazia di offrire senza riserva tutto ciò di cui sei capace, compreso il tuo amore”.
Pensai che ci dovesse essere nato medico, poiché al di là dell’indottrinamento, non conoscevo davvero chi avesse migliore predisposizione d’animo a tutto questo.
Sul ritorno, attraverso i fumidi campi, il buran veniva a spifferare nei baveri il suono d’un treno lontano e la luna giocava a far brillare atomi di ghiaccio nell’aria ormai gelida. Quell’inverno del ‘38 trascorse caldo ed opulento, grazie soprattutto alla riconoscenza degli Smirnov, condivisa nell’isba dal dottor Lyosha.
Valutazioni Giuria
19 – La dote di Lyosha – Valutazione: 23 Gaia: Una vicenda interessante, ma con sviluppi non sempre fluidi: il rapporto, discreto al punto da risultare di totale indifferenza, della famiglia di Lyosha con il medico pare alquanto in contrasto con la successiva rivelazione della profonda sensibilità del medico stesso. Quest’ultimo si mostra capace di un’empatia totalmente e inspiegabilmente inespressa fra le mura della dimora presa a pigione. Non viene poi adeguatamente chiarita la dinamica dell’incidente occorso al figlio del presidente, con una mancanza di chiarezza un po’ fastidiosa che non giova all’insieme. Buono l’impiego della lingua, sempre corretta e con scelte lessicali interessanti. Matteo: Dal punto di vista formale, la qualità del racconto non è uniforme: non parte bene, ma progressivamente migliora. Ho alcuni dubbi riguardo la gestione delle informazioni. Il medico e il ragazzo non sembrano riconoscere nell’ufficiale che bussa alla porta uno dei figli del presidente (cosa poco plausibile all’interno di un piccolo villaggio e trattandosi di una figura di spicco), eppure, una volta arrivato in casa del presidente, il medico sembra sapere che l’ufficiale e il ragazzo sono fratelli. Avrebbe quindi dovuto riconoscere il soldato fin dall’inizio. Non mi convince poi il fatto che non venga in nessun modo spiegata la dinamica dell’incidente (fondamentale nell’economia del racconto). Capiamo che il responsabile è l’ufficiale, ma non sappiamo altro. Il medico arriva da solo alla conclusione che sia stato un incidente, ma, escludendo il rammarico del fratello (che in ogni caso non ammette esplicitamente la colpa, dicendo “Il ragazzo è stato impallinato ad una gamba”), egli non ha alcun indizio in merito. Paola: I tratti di Lyosha sono proprio quelli che ci aspetta da chi ha prestato il giuramento di Ippocrate: un riserbo che sfiora la freddezza, una capacità di compassione che cura non solo il malato ma anche chi gli sta vicino, una prontezza operosa e capace. Interessante la scelta di mostrare al giovane protagonista questi aspetti “sul campo”. Sarebbe stato bello dare più spazio alla descrizione del cambiamento avvenuto nella famiglia dopo la rivelazione delle potenzialità del loro ospite. Ben scritto sul piano stilistico. Pietro: Racconto ben scritto, che per ambientazione e aspetti della trama mi ha ricordato L’asciugamano col galletto di Bulgakov. Una certa piattezza emotiva, tuttavia, non lo valorizza al massimo. La figura del «sereno» Lyosha è l’unica a dover essere sempre uguale a se stessa; il narratore e la sua famiglia, invece, dovrebbero avere verso di lui passioni forti e ben riconoscibili, poiché è proprio il cambiamento di segno di queste ultime a costituire la sostanza del racconto. Lyosha, tollerato in casa solo in quanto portatore di misera torba necessaria per il freddo; Lyosha, la cui imperturbabilità sembra scarsa sensibilità o provocazione, alla fine si rivela, proprio per la sua imperturbabilità (il super potere grazie quale salva uno Smirnov), la chiave per un inverno al caldo, meritandosi la riconoscenza di tutti. |
Iniziavano i primi freddi, era il 29 dicembre del 2012, attaccata con la faccia alla finestra ammiravo la neve cadere in silenzio: “la mamma se ne va” sento dire verso la mia direzione; mi guardava dritta negli occhi, non c’era affetto ne tanto meno amore nel suo volto.
Avevo tre anni quando mia madre mi ha abbandonato, sola in bagno con le calze a maglia tirate giù fino ai piedi ho sceso le scale singhiozzando, nessuno mi avrebbe sentito.
“La mamma se ne va”, nella mia testa c’era solo questo, ma perché?, cosa avevo fatto per farla arrabbiare tanto da non volermi più?. Seduta per terra con il naso gocciolante avevo scoperto per la prima volta il dolore, quello che ti strizza il cuore finché non ne rimane niente, sono stata due giorni e due notti da sola a casa, il buio iniziava a scendere e io ero troppo bassa per arrivare all’interruttore della luce, quindi con le ginocchia strette tra le braccia e un freddo gelido cercavo di tenermi al caldo dondolandomi avanti e indietro. Nel frigorifero avevo trovato solo un cetriolo e del ketchup, era molto freddo e mi facevano male i denti a morsicarlo ma avevo fame e l’ho mangiato.
Quando mi sono svegliata pensavo fosse stato tutto un sogno, barcollando mi sono diretta nella stanza di mia madre chiamandola ad alta voce ma non avevo ottenuto risposta, con le braccia lungo i fianchi avevo urlato il suo nome in modo isterico.
Decido di sedermi davanti alla porta di casa, convinta che la mamma da un momento all’altro sarebbe tornata da me. Non so per quanto tempo sono rimasta ad aspettare, ma dal giorno era calata la notte, tremavo dal freddo, le mie calze a maglia erano ancora lungo i piedi, non avevo la forza di tirarle su, avevo solo tre anni e avevo in mente l’immagine di una mamma violenta e anafettiva. Mi picchiava sempre, diceva che nessuno mi voleva bene, forse aveva ragione, nemmeno lei mi aveva voluto. Ferma davanti allo specchio volevo capire cosa avessi di tanto brutto da non permetterle di amarmi, ma di occhi ne avevo due, avevo un naso e dei capelli, avevo dieci dita delle mani e dieci dei piedi, non capivo cosa fosse, forse avevo una voce brutta? Forse urlavo troppo oppure ero capricciosa? Che cosa spinge una mamma ad andarsene? Non esistono delle risposte a queste domande.
La mamma non sarebbe mai tornata, avrebbe scelto di vivere la sua vita con il ricordo dei miei occhi che la imploravano di restare. Perché non mi importava se fosse violenta, se non mi amasse, se non potevo piangere tra le sue braccia, non mi importava se non mi voleva, era mia madre. Due giorni dopo sono stata trovata da una vicina di casa gentile, ero troppo arrabbiata per farmi toccare, non avevo mai smesso di piangere e di tremare.
Sono stata portata in un posto che chiamano casa famiglia, qui sono tutti gentili ma io voglio tornare a casa dalla mamma ma loro mi dicono che arriverà una nuova mamma a prendermi, io non volevo una nuova mamma io volevo la mia! “NO” urlo con le mani aggrappata al lenzuolo, gli educatori cercavano di staccarmi dal letto per portarmi a conoscere la nuova mamma ma io non ne volevo sapere, alla fine, costretta e con gli occhi rossi e gonfi mi sono trovata davanti ad una donna, anche lei aveva due occhi, un naso e dei capelli come me, i suoi occhi erano belli e la sua voce era calma, anche lei stava piangendo: “perché piangi?” Le chiedo puntandole il mio piccolo dito sul viso, lei non ha mai risposto a quella domanda, mi ha stretto a se con tutte le sue forze, avevo finalmente capito quello che il mio cuore sentiva, avevo bisogno di una mamma che mi desse amore, forse poco importava se fosse stata la persona che mi aveva partorito, avevo davanti una persona alla quale la mia voce non dava fastidio e mi guardava in modo dolce, mi accarezzava il viso. “Ti va di venire con me?” Mi chiede piano.. il cuore mi batteva forte “si” le dico con un filo di voce, ci siamo strette la mano con tutta la forza che una bambina di tre anni poteva avere, quel si mi avrebbe salvato la vita per sempre. Avevo trovato una casa, dei Natali e dei compleanni, avevo trovato l’amore vero. Non serve generare un figlio per essere una madre, serve solo amore, serve averne tanto e soprattutto serve aver voglia di farlo senza riserva. La mamma è chi ci ama non chi ci genera e chi ci abbandona.
Valutazioni Giuria
20 – L’abbandono – Valutazione: 17 Gaia: Una storia di abbandono alquanto brutale. Il punto di vista della bimba di appena tre anni è incompatibile con il tenore delle riflessioni fatte. Trattato in modo troppo sbrigativo il passaggio dal rifiuto di una nuova mamma alla accettazione della amorevole madre affidataria: evidentemente lo spazio narrativo è troppo ristretto per argomentazioni così delicate e complesse. Il finale suona ridondante e fastidiosamente moraleggiante. Poca coerenza nell’impiego dei tempi verbali. Matteo: L’uso dei tempi verbali è incostante e spesso errato. Il punto di vista dovrebbe essere quello di una bambina di tre anni, ma ci sono delle palesi intrusioni da parte di un narratore più adulto, che rendono il racconto poco credibile. Paola: L’idea è bella ma ci sono alcuni errori di fondo che rendono il racconto meno efficace. Sul piano stilistico c’è un inprappropriato uso dei tempi verbali che inficia la lettura. Sul piano concettuale avrei spostato più in là l’età della piccola protagonista. Una bambina di tre anni sola in casa sarebbe uscita prima o comunque sarebbe stata notata prima su un pianerottolo, soprattutto se figlia di una madre violenta e inaffettiva (i vicini sarebbero stati all’erta), inoltre la bimba dimostra di avere dei pensieri troppo sofisticati per avere solo tre anni. Pietro: Da mamma a mamma, il racconto complessivamente fila. Alcuni passaggi sono troppo veloci e solo accennati (ad esempio «qui sono tutti gentili ma io voglio tornare a casa dalla mamma ma loro mi dicono che arriverà una nuova mamma a prendermi, io non volevo una nuova mamma io volevo la mia!»), altri interrompono la visone – ben fatta – attraverso gli occhi della bambina (come «avevo solo tre anni e avevo in mente l’immagine di una mamma violenta e anafettiva»). L’uso errato dei tempi verbali rende difficile la lettura. |
Iniziavano i primi freddi e tra i grigi mattini d’autunno un’aria frizzante mordeva i nasi dei viandanti. Il mondo era globalizzato; c’era il buco dell’ozono, una realtà scientificamente documentata; e c’erano, pure, le ricerche sui danni ambientali prodotti da un’epoca industriale all’altra, certezze inopinabili. E, accanto a tutto questo, la tecnologia compiva passi da gigante: le comunicazioni erano satellitari, e gli umanoidi, una verita che stava per esordire. Ma la brina era scomparsa dalle gelide albe autunnali. Si poteva imputare un fenomeno del genere alla comparsa del “Nino” che le cronache raccontavano avesse fatto la sua apparizione tanto tempo fa e che, pure, in poco tempo, avrebbe sconvolto la meteorologia. E se si giudicassero i primi decenni del ventunesimo secolo il Nino c’era!
Anche se nessuno ne parlava più; ma il surriscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai l’innalzamento dei mari, erano uno sconvolgimento naturale dietro l’altro cui l’azione dell’uomo aveva dato sì una mano a scatenare, ma era il Nino a condurre le danze! Era facile fare da Cassandra, da quella che ravvisava i prodromi di una apocalisse prossima ventura di fronte ad un qualsiasi cambiamento climatico? E perché? Per un innato senso di catastrofismo? O, per la consapevolezza che ormai non ci fosse più niente da fare? E se non era una idea distopica, cosa altro poteva essere? La descrizione del lento declino del mondo? Il suo crepuscolo? O, non era, piuttosto, la visione di un inguaribile pessimista? Qual era Tullio, che amava giudicare ma a cui non piaceva essere giudicato. Faceva parte del suo modo di essere per apparire, e la sua applicazione, diceva, che favorisse la maturazione del suo carattere. Era un modo di essere simile a quello della natura. Era così e l’unico modo per comprenderlo, era constatarlo. Iniziavano i primi freddi ed era come se si fossero svegliati con essi i primi dolori. Segno di una età in là con gli anni. Era l’atro si, il poco movimento, la pigrizia? Era tutto questa, e soprattutto gli anni che non tornavano indietro. Tullio ci provava pure a farli andare indietro, ma andavano comunque avanti, nonostante gli enormi sforzi. Compleanno dopo compleanno. Marciavano compatti. Sette file per otto. Un complotto alle sue spalle, pensò un giorno Tullio, ordito dalla natura? Ci voleva proprio tutta la fervida fantasia per partorire una idea simile. Ci mancava pure il complotto, non bastavano le leggi naturali in sé! No, la natura si doveva accanire contro di lui! Ma, cosa gli aveva fatto mai alla natura? L’avrà criticata! Tutto qui! Ma, perché l’accanimento?
Domande senza risposte!?
L’imperscrutabilità della natura era pari a quella dell’uomo! Era così! Senza una ragione, compresa pure la natura del Nino
Valutazioni Giuria
21 – Biografia in fieri – Valutazione: 12 Gaia: A che pro scrivere un testo che il lettore non può comprendere e che non comunica nulla? Matteo: Racconto imperscrutabile. La trama si nasconde tra le righe troppo dense e ingarbugliate di un flusso narrativo davvero difficile da seguire. Paola: Il racconto, privo in realtà di trama, è criptico e rende poco piacevole la lettura. Il declino dell’uomo sembra sovrapporsi a quello della natura ma manca anche solo un accenno ad un alito di speranza Pietro: Il testo è involuto, difficile da comprendere. Se non ho capito male è la storia di Tullio, che, immaginato il «Nino» per spiegare il declino della natura, si scopre parte di essa. Ma che cos’è il Nino? |
Iniziavano i primi freddi ad Oban, come da previsione la cittadina dal clima gelido e tempestoso era destinata ad essere percossa dai venti, presa di mira dalla pioggia, inghiottita dalle spesse nebbie marine che avanzano dal sud per essere imbiancata dalla neve che giunge dalle Highlands. Quella mattina Lisa spalancò le imposte della sua camera quando la notte non aveva ancora lasciato il posto all’alba e non fu sorpresa nel vedere le luci delle imbarcazioni dei pescatori sulla via del ritorno. Questa scena era un rituale che le permetteva di iniziare con serenità la giornata: il padre ed il fratello Liam stavano rincasando. L’eco di un boato la fece sussultare: un peschereccio avvolto dalle fiamme. In men che non si dica raggiunse il porto. La Guardia Costiera aveva già attivato i soccorsi ed una folla di parenti si era adunata nell’attesa di veder rientrare i loro congiunti. Nell’angoscia Lisa distinse tra i presenti Liam. La sua mente non impiegò molto ad associare la presenza del fratello alla salvezza. Si sentì immediatamente sollevata. Quando lo raggiunse gli gettò le braccia al collo chiedendo con ansia del padre. Liam spiegò che non ne aveva notizia dal momento che quella notte, causa un malessere, non era riuscito ad accompagnarlo. Entrambi si sentirono appesi ad un filo di speranza, spezzato nel momento in cui venne data la notizia che a saltare in aria era proprio la loro Thor. Liam riconobbe il Mackintosh1 del padre che teneva tra le mani un marinaio. I ragazzi caddero in uno stato di totale sconforto.
I giorni a venire la neve scese copiosa ed il freddo divenne pungente, Lisa non usciva dalla sua stanza nemmeno per pranzare, Liam invece era dedito a sbrigare alcune faccende burocratiche. Pensò bene di mettere in vendita la licenza della pesca invernale che negli ultimi anni aveva avuto una resa economica notevole.
Come da atto dovuto ricevettero la visita dell’ispettore Cox. Andrew Cox era un tipo burbero e di poche parole, aveva un innato senso per lo stile e l’originalità nel vestire ma soprattutto aveva fiuto per le menzogne.
Al termine del giro degli interrogatori si fece largo l’ipotesi dell’omicidio doloso.
Sospettati i proprietari di uno degli altri pescherecci col movente di eliminare un concorrente dalla pesca al bolentino che permette di accaparrarsi un bottino di pagelli fragolino, sugarelli e tutto il pesce invernale che avrebbe garantito un buon profitto per la stagione.
Il giudice istruttore incaricato del caso, dispose una serie di perizie. I TOC.2 identificarono la causa della esplosione nella presenza inusuale di termite: una miscela pirotecnica costituita da polvere di metallo e da un ossido che fungono rispettivamente da combustibile e da ossidante. Con ogni probabilità un arco voltaico aveva generato la deflagrazione, ipotizzandola tra i poli della batteria. Il colore della fiamma ed i residui sui relitti non lasciarono dubbi.
Nel mirino il capitano della Starlight, Brahms. In diverse occasioni era stato visto a discutere con Macleod che nonostante le pressioni subite, non fu mai propenso a cedere la sua licenza. L’ultima lite avvenne proprio la sera dell’esplosione al The pale horse pub, quando Brahms gli mise le mani al collo.
Intanto in casa Macleod, Lisa fece una strana ed inquietante scoperta: un sacchetto contenente polvere di metallo. Conosceva gli esiti degli accertamenti irripetibili disposti e ciò bastò per farle alzare il telefono e chiamare Cox: “Ispettore, ho un dubbio atroce…”
“Lisa, non ne parli a nessuno. Sto giusto per venire da lei, sono all’imbocco del viale che porta alla sua abitazione. A tra poco.”
Sulla porta della cantina apparve Liam “Lisa perdonami, non ne potevo più di questa vita, il mio sogno è la città, un altro lavoro… Papà non me l’avrebbe mai permesso…ed ora finalmente me ne vado…perdonami”
Liam aprì una tanica e si cosparse del liquido contenuto. Stava per estrarre dalla tasca un fiammifero quando Cox, che aveva assistito alla scena, lo sorprese immobilizzandolo.
“Liam è finita”.
1 Giaccone impermeabile ideato dal chimico scozzese Charles Macintosh
2 TOC: Technical office consultant, l’equivalente dei nostri CTU
Valutazioni Giuria
22 – I MacLeod – Valutazione: 16 Gaia: L’inzio lento offre una gradevole descrizione del contesto e una ben riuscita ambientazione. Il racconto pare promettente, ma cambia improvvisamente registro, lasciando il lettore un po’ spiazzato. Ci si aspetta il racconto di squarci di vita dei pescatori scozzesi e ci si ritrova invece in un racconto “investigativo”, senza che ci siano le condizioni per svilupparlo in modo adeguato.Il carattere forzatamente sbrigativo della narrazione impedisce il coinvolgimento del lettore. Anche la forma peggiora con il procedere della narrazione. Matteo: Trama che assolutamente non è adatta a un racconto breve. Non vi è lo spazio per le indagini tipiche di un racconto investigativo. Le motivazioni che spingono Liam a uccidere il padre e a tentare di darsi fuoco sono del tutto insufficienti. I racconti investigativi hanno bisogno del tempo necessario per lo sviluppo della trama, così da renderla credibile e da coinvolgere il lettore nella ricerca, cosa che in questo caso non avviene. Anche il fatto che Lisa non aspetti neppure un istante ad accusare il fratello non è molto realistico. Paola: L’esordio era davvero promettente e così il racconto rimane fino all’inizio delle indagini. Poi, probabilmente per ragioni di spazio, la storia precipita e gli eventi si susseguono troppo velocemente, non lasciando al lettore la suspance necessaria. Peccato. Vale la pena riprendere in mano il testo e lavorarci sopra per ampliarlo. Pietro: Un buonissimo materiale per un romanzo breve, inadatto ai limiti del concorso. Esclusa la veloce scena iniziale, più che un racconto è un riassunto. |
Iniziavano i primi freddi eppure Babbo Natale sembrava aver perso il solito entusiasmo.
“Babbo Natale, che succede?”.
“Sono stanco Fix. Non mi va più di lavorare.”
“Perché? Il nostro è un lavoro bellissimo!” rispose Fix, l’Elfo Anziano.
“Lo è per te Fix. Tu presto andrai in pensione, io invece dovrò portare per sempre regali a bambini che, ormai, non credono più in me”.
Babbo Natale aveva ragione. Molti bambini avevano smesso di credere in lui e, chi lo faceva, sosteneva che Mr Amazon fosse migliore. Lui consegnava pacchi tutto l’anno ed era anche capace di suonare il campanello. Non si incastrava nel camino e non obbligava i bambini ad andare a letto presto.
“Non c’è rimedio Fix! Tanto vale che io vada in vacanza. Ai Caraibi è sempre estate e potrei sorseggiare Mojito sulla spiaggia. Sono stufo della solita grappa di lichene!”.
“No Babbo! Non c’è tempo. Dobbiamo incartare i regali, allenare le renne per il giro del mondo, e aggiornare il Registro!”.
“Quale Registro?”.
Babbo Natale era così ubriaco da non ricordare il Registro Dei Bambini dove, ogni anno, si riportavano i nomi dei nuovi nati e si eliminavano quelli dei bambini diventati adulti.
“Babbo Natale, ma dove vai? Hai bevuto troppa grappa di lichene. Non puoi guidare la slitta! Babbo!”
Troppo tardi. Le renne, estasiate all’idea di un viaggio fuori stagione, si alzarono in volo. Dopo otto minuti e ottantasei secondi, Babbo Natale parcheggiò la slitta all’ombra delle palme in prossimità di una spiaggia bianca. Liberò le renne, tolse il cappotto e, con i boxer felpati, ricevuti in dono da Lady Befana, si tuffò in acqua. Le renne fecero lo stesso anche se, invero, avrebbero preferito ruzzolare nella neve.
Fix, rimasto solo, convocò gli altri Elfi con urgenza.
“Babbo Natale se ne è andato e spetta a noi salvare il Natale!”
“E come? Senza slitta e senza renne!”
Fix non si fece prendere dal panico.
“Elo, Glu, voi siete i più forti. Costruite una nuova slitta! Miu e Calen, andate a cercare altre renne. Trass, tu che sei il più preciso, inizia a compilare il Registro”.
“E tu che fai Fix?”.
“Io scrivo subito una lettera a Lady Befana per chiedere aiuto!”.
Mentre gli Elfi si dividevano i compiti, dall’altra parte del mondo Babbo Natale si crogiolava al sole indisturbato, o almeno così credeva.
“Ma tu sei Babbo Natale! Allora esisti davvero!” Disse un bimbo.
“Sì, è lui – rispose la sorellina – e là, sotto alle palme, c’è la sua slitta!”
In men che non si dica la spiaggia si riempì di bambini. Alcuni finsero di guidare la slitta, altri invece ne controllarono l’interno sperando di trovare dei regali. Qualche bimbo cercò di cavalcare le renne e qualche altro rimase immobile accanto a Babbo Natale con la bocca spalancata per lo stupore. Il più audace di quella combriccola gli si avvicinò e gli tirò la barba per annusarla: profumava di zucchero filato.
“Ehi, stai attento!” esclamò Babbo Natale. La sua voce però non era arrabbiata, era commossa.
“Piangi perché ti ho fatto male? – chiese il bambino audace – Scusami Babbo Natale”.
“No. Tu e i tuoi amici mi avete fatto solo tanto bene. A Natale vi porterò regali bellissimi!”.
Il bambino audace ringraziò Babbo Natale con un abbraccio affettuoso e, poco dopo, gli altri bambini fecero lo stesso.
Ai Caraibi tutto andava per il meglio, mentre, al contrario, in Lapponia gli Elfi erano disperati.
“Brutte notizie. Lady Befana ha risposto alla mia lettera dicendo che non sa leggere la scrittura degli Elfi” disse Fix con l’aria amareggiata.
“Anche noi abbiamo brutte notizie: le renne scappano appena ci vedono! Non riusciamo ad aprire il Registro e la slitta che abbiamo costruito è scoppiata come una bolla di sapone!”.
Il lavoro degli Elfi era inutile e nessuno era in grado di trovare una soluzione.
“E se chiedessimo aiuto a Mr Amazon?”.
“Non possiamo. Le nostre monete non valgono niente per lui! E poi sarebbe come tradire Babbo Natale!”.
“Non ci resta che dire addio al nostro lavoro!”.
“Ma così ogni bambino sarà triste!”.
“Non abbiamo alternative.”
Una voce famigliare mise fine alla loro delusione.
“Oh Oh Oh”
“Avete sentito?”
“Oh Oh Oh”.
“È la sua voce!”.
Gli Elfi guardarono il cielo e, accompagnata dall’aurora boreale, videro la slitta di Babbo Natale prepararsi all’atterraggio. Il Natale era salvo e ogni bambino, anche quell’anno, sarebbe stato felice.
Valutazioni Giuria
23 – Grappa di lichene – Valutazione: 22 Gaia: Un racconto grottesco che toglie al re delle fantasie infantili la sua aura magica e fiabesca. Cercare di far sorridere svilendo qualcosa che rasenta la sacralità mi pare una scelta poco felice. I lieto fine e il Babbo Natale “rinsavito” grazie all’affetto dei bimbi caraibici non basta a risollevare le sorti della vicenda. Non convince neppure la polemica, alquanto sterile e un po’ scontata, sullo strapotere di Amazon… Nulla da dire, invece, sulla forma. Matteo: Racconto che, nella sua semplicità, è ben scritto e dalla lettura scorrevole. E’ però una strana via di mezzo tra un racconto per bambini e una storia comica per adulti. Dovrebbe scegliere una delle due vie e seguirla con più coerenza. Paola: Agli scoccioli di un Natale in cui Mr Amazon l’ha fatta da padrone (e ha dato una gran mano), l’immagine di un Babbo Natale disilluso che poi, anche se attraverso un improbabile viaggio ai Caraibi, si riappropria del valore del suo ruolo è piacevole da figurarsi. Certo, immaginarlo a sorseggiare un mojto forse lo umanizza un po’ troppo e gli toglie, agli occhi dell’adulto, parte della sua magia…. Lo stile è efficace e il racconto ben scritto. Pietro: A mio avviso occorre fare una scelta. O questo è un racconto comico, e dunque rimane fino alla fine su Babbo Natale col mojito ai Caraibi; oppure è un racconto per bambini, e dunque segue gli elfi che, assente Babbo Natale per motivi credibili agli occhi di un bambino, devono salvare il Natale. La prosa è molto buona. |
Iniziavano i primi freddi in un reame lontano
e la neve sui tetti ricadeva pian piano.
Uscì dalla casa un picciol bambino,
appoggiato al braccio un vecchio cestino,
di nulla riempito e ciò sai perché?
Di bocche da sfamare ce n’eran ventitré.
Non v’era polenta, carne o un po’ di pane,
e le speranze di mangiare ormai erano vane.
Inviarono il piccolo a fare provviste,
armato soltanto di volontà e audacia mai viste.
La madre gli disse “Non andare nel bosco”
ma lui nel folto vi s’infilò tosto tosto.
Il padre gli disse “Vai per la tua strada!”
ma lui si fermò quando vide una spada.
Non stava nella roccia né in una mano tesa,
ma nella carne putrescente laddove era lesa.
Il sangue sgorgava dalla fonda ferita
e il cervo restituiva alla terra la sua vita.
In un ultimo alito al bimbo egli disse
“Un cavalier spavaldo alla fine mi vinse.
Gli avevan detto nascondersi nel bosco,
un mostro gigante pronto a farlo arrosto.
Partì rigonfio d’armi e tracotanza,
menando fendenti come fosse una danza.
Partì sicuro della gloria futura,
agitando le lame a mascherar la paura.
Udito un rumore, si girò di scatto,
lo sguardo atterrito di chi non era pronto affatto,
senza nemmeno sapere chi avesse davanti,
urlando mi piantò la spada nei fianchi.
Quando s’accorse che la preda era quella sbagliata,
cercò di ritrarre dalle carni la spada.
Non fece in tempo, il cavalier, a compier l’azione,
alle sue spalle un drago aveva fatto apparizione.
Le scaglie verdi, le ali spiegate,
solo le ceneri ne aveva lasciate.
Il giovin signore era del tutto sparito,
dal fuoco mostruoso completamente investito.
Io a terra rimasi col fianco dolente,
dove tu mi hai trovato, quasi morente”.
“Come posso aiutarti, mio povero amico?”
“Estrai la spada, fai come ti dico”.
Così il bimbo fece e quello spirò,
il sangue la neve di rosso macchiò.
“Estrai la spada e avrai ricompensa”
e appena lo fece, la sorpresa fu immensa:
di pane, di carne e di tanta polenta
il cestino era pieno, pronto per la dispensa.
Lo raccolse da terra il bravo bambino,
in una mano la spada, in una il cestino.
E mentre faceva per riprender la strada,
un rumore sentì dove la verzura era rada.
Gli apparve dinnanzi un drago enorme,
quanto tre uomini eran grandi le orme.
Ruggì forte, la bocca spalancò
e in un sol boccone il bimbo ingoiò.
Restarono a terra il cestino e la spada,
la neve intonsa, nemmeno spostata.
E sebben la preda sembrasse già digerita,
poco tempo passò che fu risputata.
“Che sapore schifoso che ha questo qui!
È fatto solo di ossa, non mi sazierà così!”
Il piccino ancora intero ma ricoperto di bava
di quel che era successo non capiva una fava.
Ma la fame, eh sì, quella assai la capiva,
e allora la mano tese pien di saliva
verso il vecchio cestino stracolmo di cibo,
porgendolo a quei che gli era stato nemico.
Lo guardò negli occhi scuri e ci si vide riflesso,
udì il brontolio del ventre di chi l’ha vuoto spesso.
Gli disse “Forse questo ti darà soddisfazione”
invece che ingaggiar con la spada una tenzone.
Si stupì il drago e raccolse il dono,
mangiò tutto quanto e poi chiese perdono.
Si sorprese il mostro e gustò le vivande,
mai nessun gli aveva fatto un favore assai grande.
“Hai dimostrato altruismo, bontà, gentilezza,
guadagnandoti l’accesso alla mia ricchezza”.
Così sentenziò il verde bestione,
e già lo conduceva alla sua segreta magione.
Varcata la soglia, un ampio stanzone
d’oro e diamanti illuminava il bagliore.
“Puoi prendere tutto, perché accumularlo?
Se poi quando ho fame, non posso mangiarlo?”
“Ti sbagli, caro drago, ti posso aiutare
con questo denaro il cibo vo’ ad acquistare”
Ritornò al reame da cui era partito,
comprò quel che ai suoi cari sarebbe servito,
e anche al drago da cui sarebbe tornato,
dopo che la famiglia avesse sfamato.
Bussò tre volte alla porta di casa:
la madre gli disse “Che creatura strana”.
Batté tre volte il pugno sul muro:
il padre rispose “Come te non conosciamo nessuno”.
“Datemi dell’acqua e qualcosa per lavarmi,
che son vostro figlio posso dimostrarvi”.
Dalla faccia tolse la bava il bambino
e mostrò loro il vecchio cestino.
Seguirono abbracci, baci e racconti,
E vissero tutti felici e contenti.
La fiaba è finita, concluso è il mio canto,
Coraggio bambini, della nanna è il momento
Le pance ancor vuote ma i cuori ripieni
Le menti ferventi di avventure e ardimento
È così che anche oggi arriviamo a domani
Sognando sia meglio, siamo esseri umani.
Valutazioni Giuria
24 – Filastrocca del vuoto e del pieno – Valutazione: 27 Gaia: Apprezzo il coraggio di una scelta originale, quanto ardita. Il componimento non è perfettamente armonico dal punto di vista metrico e, qua e là, anche dal punto di vista stilistico. La narrazione non è sempre fluida, come ci si aspetterebbe da una filastrocca. Il contenuto, tuttavia, è simpaticamente creativo e coinvolgente, con un lieto fine particolarmente soddisfacente (anche il “mostro” viene redento dalla bontà del bimbo), per nulla moraleggiante. Matteo: Filastrocca davvero godibile e con alcune trovate liguistiche molto divertenti. Vi sono però dei passaggi in cui la metrica è incerta e la rima non viene rispettata. Credo che questi siano elementi fondamentali che non possono non essere presi in considerazione. Paola: Mio caro autore accludo anche te, fra coloro i quali han seguito De Andrè. La piccola ballata è ben scritta (inciampa un po’ nelle spire della metrica) e soprattutto il contenuto è quello delle fiabe tradizionali. Bella ‘idea e buona, nel complesso, la realizzazione Pietro: Non sono un esperto, ma a orecchio la metrica inciampa spesso. E siccome la scorrevolezza è forse la caratteristica principale di una filastrocca, qualche colpo di lima avrebbe giovato. Nulla da dire invece sul contenuto, appropriato (a parte la rima bava-fava), originale e ben concatenato. |
Iniziavano i primi freddi e il vento da est si faceva sentire fra le ciglia, mentre lei tentava di rimanere con lo sguardo fisso sull’orizzonte.
Il mare era agitato, forse per combattere o forse per lamentarsi dell’arrivo dell’inverno.
Nelle ultime settimane le spiagge si erano svuotate e tornando tutte le mattine aveva trovato sempre più solitudine ad attenderla.
Lui sarebbe arrivato, e su quella spiaggia finalmente il loro abbraccio avrebbe trovato la forma dei loro corpi e avrebbero camminato insieme.
Non aveva idea di come fosse, ma sapeva che lui l’avrebbe riconosciuta dagli occhi; gli occhi che guardavano l’inverno farsi strada fra le onde e che al mare facevano invidia. Non si era mai visto un azzurro così prima che il suo sguardo accarezzasse la spiaggia.
Un altro giorno era passato, il buio si era presentato e lei decise di ritirarsi. Tornando a casa sentiva sulla pelle l’aria più pungente e il rumore delle onde che aveva iniziato a far coppia con quello del vento, sempre più freddo, sempre più intenso. Era come se soffiasse da un luogo che si avvicinava ogni giorno di più.
La mattina uscì di casa, vestita di un inverno coloratissimo e tornò sulla spiaggia. La sabbia levigata dal vento stava perdendo le tracce di tutte le persone che l’avevano riempita. Lei era con loro d’estate, fra falò, canzoni e racconti di speranze. Giorni caldi pieni di risate e notti abbracciati intorno al fuoco acceso a illuminare progetti e ambizioni.
Poi le onde da invitanti compagne di giochi si erano fatte agitate e scostanti, le giornate si erano accorciate e lei aveva visto diradarsi la compagnia. Fu in quel periodo che aveva iniziato ad aspettarlo.
Non si erano mai incontrati, ma sapeva che lui c’era. Lo sapeva dai racconti di sua nonna e dalle chiacchierate con sua mamma. Così aveva iniziato a tornare da sola su quella spiaggia, usando i suoi occhi come faro, per farlo arrivare da lei, fissi su quel mare che in primavera le aveva insegnato a nuotare e d’estate l’aveva fatta giocare.
Il freddo divenne gelo, il vento si mosse a tempesta e il mare e le sue onde iniziarono a incombere sulla spiaggia, che nel frattempo, deserta, era diventata liscia e levigata. Lei seduta nei suoi abiti sgargianti, riusciva a vedere solo il mare e a sentire solo il vento.
All’improvviso qualcosa all’orizzonte. Una macchia nera che danzava in modo elegante, quasi innaturale in mezzo all’acqua.
Pensò a un ballerino o a un acrobata. Si avvicinò e a lei sembrò vestito in smoking, su una barca a remi. Che incontro meraviglioso sarebbe stato, proprio come nei suoi sogni di bambina! Ondeggiando la figura cambiò forma, mentre si faceva più grande. Ora sembrava avvolto in una muta da sub, come un grande avventuriero, che aveva nuotato dalle acque artiche fino a lei!
Si alzo e gli andò incontro ma come le sue caviglie entrarono in acqua questa si fece improvvisamente calma e il vento tacque. Il mare le restituì nient’altro che un tronco scuro, forse bruciato, che col suo galleggiare l’aveva ingannata.
Di nuovo guardò l’orizzonte. Il cielo era limpido, l’acqua uno specchio. Non si sentiva altro che silenzio.
E non era arrivato nessuno.
Con un buco nel petto voleva scappare, urlare e piangere incolpando il mare di averla ingannata. Ma come si voltò si accorse di lui. C’erano le sue orme sulla spiaggia, ma lui non c’era già più.
Mentre i suoi occhi erano fissi sul mare e le sue orecchie piene del rumore della tempesta, lui le era passato di fianco, ma non le aveva visto gli occhi, non l’aveva riconosciuta e aveva continuato nella sua ricerca.
Fu così che la giovinezza, distratta dal ricordo di sé stessa, mancò il primo incontro con il futuro.
Quando tornò la primavera la spiaggia si riempì di nuove persone e di nuove risate, racconti, ambizioni e impronte a coprire quelle che erano state.
Lei guardò la spiaggia, il mare e la direzione verso cui le orme di lui erano andate. In piedi nel tepore di una spiaggia di nuovo viva, doveva ora decidere se rimanere ad aspettare, rituffarsi nel mare, o iniziare a camminare e diventare lei stessa quello che qualcun altro sulla spiaggia stava aspettando.
Valutazioni Giuria
25 – Una nuova attesa – Valutazione: 25 Gaia: Un racconto intenso, avvolgente e ben scritto, ma non chiarissimo. Matteo: Il racconto è ben scritto, ma l’atmosfera surreale, pur essendo molto suggestiva, rende tutto piuttosto inconsistente. Il lettore rischia di essere sommerso dall’atmosfera e di smarrire il significato del racconto. Paola: Un racconto singolare, tutto fondato sull’attesa di una promessa che, arrivando alla fine, è più promessa di un futuro e di un amore che arriverà che non di una persona reale. L’atmosfera è quasi surreale, forse in maniera eccessiva. La prosa è efficace e il racconto ben scritto. Pietro: Il racconto funziona, l’atmosfera rarefatta dell’allegoria non impedisce al lettore di immedesimarsi. Alcune osservazioni di economia narrativa: non c’è bisogno di due scene molto simili, anzi il racconto procederebbe in maniera più lineare abolendo il paragrafo che inizia con: «Un altro giorno era passato…»; non serve nemmeno che il tempo del racconto si spinga fino all’estate successiva, perché il solo affacciarsi di questo pensiero alla mente della protagonista basterebbe a restituire il suo stato d’animo. Il «ricordo di se stessa» simboleggiato dal tronco potrebbe essere approfondito, data la sua importanza per la trama. |
Iniziavano i primi freddi, questo lo ricordo bene.
Il mio datore di lavoro mi aveva permesso, finalmente, di farmi godere le agognate ferie.
Ogni giorno, negli ultimi due anni, avevo sgobbato per oltre dodici ore infatti erano, ormai, ben due anni che non andavo in ferie; nonostante ne avessi accumulate tante non potevo permettermele in quanto il lavoro era sempre troppo, sembrava addirittura non finire mai.
So bene fossero un mio diritto e più volte, un po’titubante, avevo chiesto al mio titolare di poterle sfruttare ma la sua risposta era sempre la stessa.
Mi ripeteva sempre che non potevo usufruirne perchè io ero quello che lavorava da più anni lì dentro perciò ero il migliore dipendente e lui, di certo, non voleva perdere per qualche giorno il suo miglior dipendente.
D’altronde non potevo ribattere per paura di ripercussioni, non potevo di certo farmi prendere di punta dal capo, non potevo perdere questo lavoro però io non la pensavo proprio così.
É vero che ero il più “vecchio” in azienda ma non per questo ero il migliore.
La verità è che ,essendo il più vecchio, a me toccavano i lavori più “sporchi” che gli altri si rifiutavano di svolgere come ad esempio zappare la terra.
L’azienda era circondata da un ampio giardino che, ovviamente, andava curato; bisognava estirpare le erbacce che crescevano rapidamente e smuovere la terra in modo da tenerla sempre fresca.
Fortunatamente questo compito mi spettava solo due volte all’anno, tutto il resto dell’anno ero impegnato a carteggiare le persiane e le porte oppure a pulire l’azienda.
Questi ultimi erano dei lavoracci.
L’azienda era perennemente sporca perchè i colleghi erano troppo carichi di lavoro perciò non badavano a tenere la loro postazione pulita.
Ero stufo, stanco e lamentavo dolori sempre più acuti alle braccia a furia di carteggiare. Avevo proprio bisogno di staccare la spina.
Quel dannato lavoro ultimamente mi aveva portato a trascurare la mia famiglia e non era giusto, così mi impuntai e pretesi le mie benedette ferie.
Questa volta, finito il mio turno, andai spedito e deciso dal mio titolare.
Erano i primi freddi e lo ricordo perchè lui mi sorprese.
Non so per quale motivo e, poco mi importa, mi diede a disposizione tre settimane lontano da quell’infernale azienda.
Ero entusiasta corsi subito a casa dalla mia famiglia per rivelargli la lieta notizia.
Finalmente potevo portare in montagna il mio bambino.
Lui aveva sempre sognato di poter vedere con i suoi occhi la neve, di tastarla con le mani e, perchè no, persino assaggiarla.
Abitando al sud Italia non aveva mai avuto occasione di veder fioccare il cielo oppure di fare un pupazzo di neve.
Si limitava ad ammirarla nelle cartoline, nei giornali o nei programmi televisivi.
Avevo avverato il sogno del mio piccolo ometto ed avevo avverato il sogno mio e di mia moglie di goderci un po’ di più la nostra famiglia.
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26 – Le ferie – Valutazione: 14 Gaia: Un trama poco interessante e poco credibile (il protagonista è così indispensabile per l’azienda? è concepibile che un lavoratore accetti passivamente di rinunciare per due anni alle ferie? perchè il datore di lavoro dovrebbe improvvisamente concedere addirittura tre settimane?…). La forma è spesso scorretta. Il finale, con l’affondo sul figlio desideroso di scoprire la neve, è pesante e sembra un po’ “appiccicato” frettolosamente al resto come per dare valore al “successo” ottenuto dal protagonista. La narrazione non è scorrevole, ma laquanto “singhiozzante”. Matteo: La forma lascia spesso a desiderare. Il racconto, soprattutto nella prima parte, è assai ripetitivo. E’ del tutto incoerente che il protagonista si occupi del giardino e delle pulizie (se così fosse, le ferie sarebbero davvero l’ultimo dei suoi problemi). La svolta finale non viene motivata: perchè il capo cambia improvvisamente e radicalmente idea? Il personaggio del figlio non viene anticipato e la sua comparsa sembra un’aggiunta che ha poco a che fare con il resto della storia. Paola: Quello che inizialmente sembra quasi essere un caso di mobbing, con tutte le implicazioni emotive del caso, sfuma rapidamente nella parte finale in un esito quasi banale: chiede le ferie, le ottiene e, sorprendentemente, non gli accade nulla. Ci si aspetterebbero dell conseguenze al suo ritorno, quanto meno, viste le premesse iniziali e invece va tutto “troppo” bene. Pietro: La parte che renderebbe questo testo un vero e proprio racconto è quella su cui si passa più velocemente. Vorremmo vivere insieme al protagonista il suo momento più difficile, sentirci stretti, come lui, tra la paura di perdere il lavoro e il desiderio di portare il figlio a vedere la neve. Mancando questa parte il racconto è troppo lineare: il nostro vuole le ferie, le chiede, le ottiene. |
Iniziavano i primi freddi quando Marta si accorse di non aver comprato il meraviglioso completo intimo rosso che ogni anno si scambiava con Elisa. Una consuetudine da rispettare anche se il ventiventi era stato il peggiore anno in assoluto. Ore 20.30 del 30 dicembre quando arrivò il messaggio “Domani zona rossa, tutto chiuso, non possiamo regalarci niente” scriveva Marta.
“Impossibile” pensò Elisa, ci sarà un modo. Domani non possiamo stare senza completo rosso, già quest’anno è stato pessimo, non vorrei ripetere l’esperienza oppure peggiorarla” scriveva in piena cena Elisa cercando nel frattempo di leggere le nuove regole del Dpcm.
L’indomani si incontrarono all’ipermercato dove qualche negozio di intimo era presente. La zona rossa dal 31 dicembre al 4 gennaio non permetteva che l’apertura di ipermercati e farmacie chiudendo tutto il resto. La zona cibo era aperta mentre l’abbigliamento era nastrato con il segno di divieto.
“E’ tutto chiuso, per quest’anno dovremo rinunciarci” disse Marta facendo un giro dentro il reparto alimentari in cerca di qualcosa di rosso da indossare.
“Rubiamoli” disse Elisa guardandola negli occhi.
“Sei impazzita? Ci manca pure che ci arrestino a capodanno” rispose Marta.
“Sta zitta e seguimi. Vedì lì, ci sono dei completi rossi dentro il supermercato, la zona è nastrata perché non possono essere venduti, se tu mi copri le spalle, io ne prendo due e li mettiamo in borsa” disse Elisa prendendola per un braccio.
“Se ci beccano giuro che ti strozzo, sei sempre la solita” rispose Marta cercando di camminare disinvolta.
Le due ragazze si avvicinarono al reparto cercando di scegliere con gli occhi il completo e la taglia. “Va bene per te quello?” disse Elisa sottovoce a Marta.
“Fa’ come ti pare, sbrighiamoci, mi va bene tutto basta che andiamo via di qui” rispose Marta sempre più nervosa.
“Mica ci arresteranno per due paia di mutande e reggiseni no?” disse Elisa avvicinandosi sempre di più alla merce. “Stai buona qui, coprimi le spalle e vedrai che andrà tutto bene”.
“Sei una delinquente, io non ho niente a che fare con te, una figuraccia così non la voglio fare, capito?” insisteva Marta mentre Elisa stava prendendo i due completi.
“Guarda, non hanno nemmeno l’antitaccheggio perché il reparto è chiuso” disse Elisa infilando nella borsa entrambi i completi.
In quella maledetta mattina di lockdown, per passare inosservate e unirsi al gregge di clienti affamati si zampone e lenticchie, comprarono del pane e della frutta.
Una volta alle casse, pagata la spesa, si avvicinò un poliziotto e chiese a entrambe di aprire la borsa.
“Perché” chiese Elisa con suo fare sfacciato e disinvolto unito al vestiario serio e la faccia d’angelo che l’aveva sempre salvata mille volte anche a scuola.
“Perché esistono le telecamere e io faccio il mio lavoro, anche il 31 gennaio” rispose il poliziotto.
“Scappa Marta scappa!!!” iniziò a urlare Elisa.
Nel giro di pochi secondi si ritrovarono a correre con gli anfibi rigidi che stringevano le caviglie e senza ombrello. “Te lo avevo detto, basta Elisa basta!” disse Marta con un filo di voce.
“Corri!! “ disse Elisa cercando di evitare le pozzanghere.
Elisa portò Marta direttamente in mezzo ai palazzi vicino al supermercato, dove le vie popolari sembravano congiungersi a scacchiera con i portoni quasi sempre rotti per l’usura.
“Seguimi” disse Elisa. Voltato l’angolo entrarono in un palazzo, chiusero il portone e salirono le scale fino all’ultimo piano. Il poliziotto le aveva seguite ma in mezzo al quel labirinto, che solo Elisa conosceva perché cresciuta lì, si era perso e le due ragazze, affacciate dalla terrazza condominiale, lo videro allontanarsi.
“Sei una pazza!… ma… è stato fichissimo, ora abbiamo i nostri intimi, se non bellissimi ci porteranno fortuna. Anzi il doppio della fortuna perché non solo regalati ma anche rubati” disse Marta.
Buon anno nuovo a tutti.
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27 – ROSSO SPERANZA – Valutazione: 18 Gaia: Un racconto che pare fondarsi sulla storia di amicizia e complicità fra Marta ed Elisa, ma che subito perde il fascino iniziale. L’improbabile furto, lungi dall’essere conferma della intesa fra le due amiche, risulta un gesto avventato e prepotentemente imposto da Elisa all’amica. Alla fine della disavventura, ispiegabilmente, la reticente Marta si dice apprezzare ancor più del solito il completo rosso proprio perchè frutto di un furto… che però lei non voleva assoluitamente commettere…. L’insieme è un po’ piatto Matteo: L’incipit attrae fin da subito l’attenzione del lettore. La tradizione natalizia tra le due protagoniste è infatti molto particolare. Questo elemento (che sarebbe forse stato utile per approfondire il loro rapporto in modo originale) viene però fatto cadere nel vuoto. La storia diventa sempre meno plausibile con il procedere della narrazione. Paola: L’esordio lasciava presaguire che l’amicizia, per quanto forse attaccata a dei riti un po’ infantili, fosse solida. Poi Elisa trascina una refrattaria Marta e la forza a compiere un furto in piena regola, con relativa fuga finale. Ci si sarebbe aspettato un finale molto più “rosa” in cui magari le amiche riuscivano a farsi vendere lo stesso la biancheria per mantenere la loro tradizione. Pietro: L’idea di partenza è buona ma ad ogni svolta della trama il racconto perde plausibilità e, credo, il suo fuoco tematico: in un attimo una storia di amicizia diventa un action movie. |
Iniziavano i primi freddi nel villaggio di Berg e l’umore dei paesani mutava di pari passo col tempo.
Stretto nella pelliccia di scoiattolo, poggiai la schiena al muro di pietra del mastio, lo sguardo fisso sul combattimento in atto dinanzi a me.
Sapevamo tutti cosa portava il freddo: le giornate si accorciavano e Dio ricopriva con un gelido manto bianco le mura del castello, mentre il digiuno settimanale in suo onore non serviva più solo a purificare l’anima, ma diventava anche l’unico modo per non esaurire troppo presto le scorte di grano.
Ma quest’inverno sarà diverso… Presto sarò finalmente libero.
Una mano pesante atterrò sulla mia spalla sinistra, facendomi trasalire.
“È il tuo amico Alder, quello là? Diavolo, ha un vero talento con la spada!”
Mi voltai verso il sorriso stupefatto sulla barba scura di mio padre, per poi riportare gli occhi sul ragazzo biondo che menava fendenti con una grazia tale da far sembrare l’arma un’estensione del suo braccio.
Mi schiarii la gola, pregando Dio che le mie guance non fossero infuocate come le sentivo. “Già… Bisognerebbe essere ciechi per non notarlo…”
“Suo padre dev’essere fiero di lui come io lo sono di te. Si è sempre fieri di un degno successore.”
Una nuova ondata di vergogna mi fece avvampare. “Magari non sono così degno come credete…”
“Non dire idiozie, Cedric. Ti ho insegnato così bene che quando prenderai il mio posto a capo del villaggio, la gente neanche si accorgerà della differenza.”
La sua risata roboante mi risuonò nelle orecchie, facendomi rabbrividire fino alla punta dei capelli.
Mentre guardavo i muscoli guizzanti di Alder sotto la tunica leggera che usava per allenarsi, pregai che mio padre non si accorgesse di quanto diverso fossi dal figlio che pensava di aver cresciuto. Almeno non prima che gli fossi sfuggito da sotto il naso.
Quando arrivò il giorno, nevicava ormai da settimane. Ed era perfetto: con quel tempo, nessuno ci avrebbe seguiti.
Attesi, all’ombra della torre di fianco all’entrata della fortezza, finché non vidi una chioma bionda avvicinarsi sotto la luce pallida della luna.
“Hai preso le provviste?” sussurrò Alder quando mi ebbe raggiunto.
Annuii, il peso della sacca legata sulle mie spalle sembrava volermi ricordare l’entità di quello che stavamo per fare. Ma se lasciare tutto ciò che conoscevo era il prezzo per essere finalmente me stesso, l’avrei pagato altre mille volte.
Gli posai un bacio leggero sulle labbra e gli presi la mano.
“Andiamocene.” Mi voltai verso l’uscita, ma un muro di pelliccia mi sbarrò la strada.
Riconobbi l’odore di cenere e cuoio all’istante. “Padre… Ma che—che ci fate qui fuori a quest’ora?”
Trattenni il respiro mentre mio padre osservava con sospetto il fagotto che portavo sulle spalle e poi la mia mano stretta in quella di Alder. La mollai un istante troppo tardi.
Una collera spaventosa gli infuocò lo guardo nel momento in cui capì chi era davvero suo figlio
Indietreggiai col gelo dell’inverno che mi penetrava sotto la pelle e, per la prima volta in vita mia, seppi cosa voleva dire sentirsi un verme.
“Non solo scappi da me, da tua madre, dal tuo popolo! Ma te ne vai mano nella mano con un… Con un… Maschio!”
Sguainò la spada, avventandosi contro Alder con un urlo carico d’odio. In un attimo, io ero in mezzo a loro, le mani alzate verso mio padre nell’ultima, estrema speranza che la mia vita, per lui, valesse ancora qualcosa. “Fermatevi, vi prego!”
Ma lui continuava ad avanzare e io ad arretrare, in una marcia spietata di cui non volevo conoscere la fine.
“Larkin, fermati!” Una voce femminile risuonò nell’aria e vidi due piccole mani afferrare il braccio che brandiva la spada sopra la mia testa.
Quando lo vidi fermarsi di colpo, mi chiesi chi fosse quella contadina che osava chiamare mio padre per nome.
Ma poi si voltò a guardarla, e io capii. Capii cosa ci faceva fuori a quell’ora della notte, capii che non aveva mai guardato mia madre in quel modo.
“Lascialo andare, Larkin. Lasciagli vivere la vita che noi non abbiamo avuto.”
Quella preghiera risuonò nell’aria gelida della notte anche dopo che il signore di Berg ebbe lanciato la sua spada nella neve.
E forse vidi davvero l’anima di mio padre solo nello sguardo annacquato che mi rivolse poco prima di voltarmi le spalle, forse lo conobbi davvero soltanto un attimo prima di perderlo.
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28 – Neve – Valutazione: 30 Gaia: Anche se in un contesto un po’ inconsueto e forse non del tutto congruente con i fatti narrati, la vicenda è coinvolgente e si dipana delicatamente, senza strappi. Il sentire dei personaggi risulta evidente con poche “pennellate” e semplici accenni. Nulla viene esplicitato, ma fatto intuire con discreta ed elegante delicatezza al lettore. Nessun passaggio appare scontato, fino al fInale, felicemente favrevole al protagonista. Un racconto che si legge molto volentieri e che dà ragione della complessità dell’umano sentire. Scritto molto bene, con un linguaggio vivido e mai banale. Matteo: Il racconto è ben scritto e ha un buon ritmo. Sebbene la vicenda sia appassionante e ben raccontata, mi sembra però anacronistica. Il tema dell’omosessualità era percepito molto diversamente rispetto a oggi e di conseguenza, il comportamento dei personaggi non è del tutto congruente. In sostanza si tratta di una storia moderna proiettata nel passato. Paola: La vicenda presenta qualche incongruenza sul piano storico: il padre del protagonista, per come viene descritto, sembra più un feudatario di medio-piccole dimensioni che un capo-villaggio. Tuttavia il racconto è davvero ben scritto sia sul piano stilistico sia per quanto concerne il ritmo narrativo. Il tema dell’omosessualità è toccato in maniera delicata e certo non sarebbe stato accettato nell’epoca storica in cui è ambientato il racconto. Pietro: Il racconto è scritto molto bene, con scene dal ritmo convincente. Si fatica solo a capire il contesto, in cui quello che sembrerebbe un signore feudale, perché ha una fortezza, viene chiamato solo «capo del villaggio» circostante. D’altra parte, anche la psicologia dei personaggi e il modo in cui si rapportano all’omosessualità non mi sembrano affatto medievali. Ma l’esperimento – la cui libertà mi è sembrata a tratti quella di un film d’animazione o di un fumetto – è riuscito, dunque non mi addentro in barbose discussioni sulla natura e i limiti del racconto storico. |
1 – Apocalisse silente
2 – WINDPROOF LIGHTER
3 – “RESPIRO”
4 – TRINCEA
5 – E NOI ABBIAMO FAME
6 – La lettera
7 – Spiccare il volo
8 – Gita sulla neve
9 – Patrizia
10 – BIVIO
11 – Ricordi lontani
12 – La finestra di Andrea
13 – Nella foresta
14 – L’ INVERNO
15 – Tre rose
16 – La giostra
17 – Una passeggiata
18 – Lascia che nevichi
19 – La dote di Lyosha
20 – L’abbandono
21 – Biografia in fieri
22 – I MacLeod
23 – Grappa di lichene
24 – Filastrocca del vuoto e del pieno
25 – Una nuova attesa
26 – Le ferie
27 – ROSSO SPERANZA
28 – Neve
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