6 – La lettera
Iniziavano i primi freddi. I piedi mi facevano male dentro gli stivali consumati, doloranti e gonfi come il mio povero cuore provato da stenti e patimenti, malato di solitudine in una steppa sconosciuta e desolata.
Erano lontani i tempi della partenza festosa, quando agitando i berretti dai finestrini di un treno in partenza da Padova andavamo inconsapevoli incontro alla morte, convinti dalla propaganda del Regime di essere gli eroi di una nazione e pronti a sacrificare le nostre giovani vite sull’altare della Patria.
“Angelo, è arrivata la posta” sussurrava il furiere strisciando verso di me sulla prima neve spruzzata sui radi cespugli di erba secca. Erano trascorse settimane dall’ultima missiva e iniziavo a preoccuparmi. Erano le fisime di un novello sposo innamorato di una avvenente sedicenne dagli occhi verde foresta. Strinsi al petto la lettera della mia adorata Michela, l’unico filo che mi teneva ancora legato al ricordo dei giorni felici del nostro amore spensierato fatto di sguardi furtivi e passeggiate, prima che la guerra recidesse quel cordone ombelicale che fino ad allora ci aveva fatto vivere in simbiosi. La aprii delicatamente come una reliquia con le mani intirizzite.
La lessi avidamente e la rilessi ancora e ancora finché non si fece scuro. Poi la sfiorai con le labbra screpolate incorniciate da ciuffi ghiacciati di barba incolta, cercando di riprovare la medesima emozione del nostro ultimo e impacciato bacio d’addio che profumava di dolci promesse, davanti agli occhi curiosi di tuo fratello che ci aveva accompagnati alla stazione.
Il tuo amore era pudico e misurato perché non doveva scandalizzare lo scrivano pagato tre lire, né la censura militare. Respirai nelle tue parole che mi parlavano delle piccole noie domestiche quel desiderio di normalità e di quotidianità che mi mancava tanto.
“Angelo, attento a destra!”. Stropicciai la lettera nell’enorme sacca e aguzzai la vista in quella direzione. I cecchini erano ovunque, mimetizzati tra i cespugli del vicino bosco di argentee betulle e pronti a colpire. Ne percepivo la presenza come centinaia di occhi che ti scrutavano e attendevano il momento propizio per saltarci addosso come lupi famelici. Correva voce che si fossero infiltrati anche tra le nostre file. Dietro i ruderi di una vecchia isba si aggiravano ombre furtive, allungate e rese terribili dal sopraggiungere della sera. Imbracciai il moschetto e attesi nel silenzio, mentre il pulsare delle tempie mi stordiva. Mi addossai ancora di più alla mia macchina infernale, un autocannone chiamata Obice 100/17. Quel contatto metallico mi dava sicurezza e allo stesso tempo di terrorizzava perché mi rendeva un bersaglio ambito.
Per fortuna era solo qualche cane randagio affamato come noi. Mi sentii cullato dal sibilo freddo del vento dell’est che assopiva la paura come una nenia, che avresti cantato anche tu, Michela, alla nostra bambina che non avevo ancora stretto tra le mie rudi braccia. Guardai la sua foto, scivolata furtiva dalla busta in prossimità del mio ginocchio. Era bellissima, anche se una foto troppo piccola e scura non le rendeva giustizia. Avrà i miei occhi o quelli di sua madre?
Addentai un pezzo di pane duro. Mentre lo masticavo lentamente ripresi la lettera che mi infuse un po’ di calore, poi crollai sullo zaino che mi faceva da scomodo cuscino.
Il mio compagno d’armi mi scrollò vigorosamente:” Oh, oh Angelo, svegliati se non vuoi morire assiderato! “mi ripeté più volte con il suo marcato accento veneto. Qui era una babele, un pullulare di accenti diversi, accomunati da un’unica sorte.
Mi battei ripetutamente sulle spalle incrociando le braccia, agitai i piedi per riscaldarmi. Presi la mia scatola di legno di betulla acquistata nel villaggio di ***, e ci adagiai la lettera insieme alla foto della mia bambina, il mio angelo custode, per il quale risparmiavo fino all’ultimo centesimo della mia misera paga di soldato.
La lunga notte era del tutto trascorsa; vidi l’alba sorgere meravigliosa lontano, tra le sponde del Don. Avrei voluto approfittare di quei sereni momenti di sosta per risponderti, ma non feci in tempo a slacciare la cinghia del mio zaino che…
“Soldati in marcia!” tuonò imperiosa la voce del tenente colonnello. Di colpo tutti quei sacchi grigi sparsi sulla neve si animarono, scrollandosi di dosso le umide coperte. La lunga colonna si ricompose e cominciò ad avanzare come un lungo serpente d’anime al comando di “Avanti march!”.
Valutazioni Giuria
6 – La lettera – Valutazione: 22 Gaia: Buona l’idea della letterra, non originale, ma efficace. Peccato per il pasticcio narrativo: la prima persona lascia improvvisamente il posto a un “tu” (gli occhi di “tuo” fratelo) che non si riesce a comprendere…. I periodi sono troppo lunghi e conferiscono pesantezza alla narrazione. Alcune frasi non reggono “Respirai nelle tue parole che mi parlavano delle piccole noie domestiche quel desiderio di normalità e di quotidianità che mi mancava tanto”: manca la punteggiatura e c’è un errore nella concordanza: è il desiderrio che manca al soldato? o non è piuttosto la normalità?; “prima che la guerra recidesse quel cordone ombelicale che fino ad allora ci aveva fatto vivere in simbiosi”: il cordone ombelicale simboleggia il legame madre/figlio, non quello fra coniugi!). Nel complesso, tuttavia, la forma è corretta e alcune immagini risultano particolarmente riuscite. Matteo: Racconto nel complesso ben scritto e dalla lettura scorrevole. La costruzione della scena non è però impeccabile: non è del tutto chiaro, soprattutto nella prima parte, se il protagonista sia in azione (paura dei cecchini) o in fase di riposo. La narrazione non sembra andare oltre la semplice costruzione di una scena (un soldato che legge una lettera da casa). Perchè raccontare questa storia? Cosa la rende diversa da quella delle altre migliaia di soldati italiani in Russia? Non è chiaro poi il motivo per cui, parlando della moglie, il narratore passi all’improvviso dalla terza alla seconda persona. Paola: Efficace la contestualizzazione storica e bella l’idea di una lettera da casa che scalda il cuore al soldato sul fronte russo. Purtroppo c’è un uso inappropriato della voce narrante, sottolineato da imprecisioni nell’impiego dei pronomi. La narrazione procede in modo meno lineare e il lettore ne viene confuso. Pietro: Il racconto è ben scritto e ha cura del dettaglio storico. Purtroppo è compromesso a livello strutturale da scelte sbagliate circa la voce narrante. Non c’è motivo, a mio avviso, di rivolgersi a un «tu» che, oltre a non essere sempre rigoroso, non raccoglie la narrazione né di fatto (come rivela il racconto) né idealmente (un colloquio interiore di un soldato con la sua amata avrebbe una forma più dialogica, da «lettera dal fronte»). Anche la prima persona singolare mi sembra immotivata, tanto più che alcuni passaggi, pur essendo corretti di principio, la rivelano sostanziata di una visione tipica della terza (ad esempio «erano le fisime…» o anche, più microscopicamente, buona parte dell’aggettivazione). Perché, allora, non assecondare quest’ultima? |