19 – Sipario
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. La saggezza può smarrirsi, a volte, di fronte alla passione. O ad un sipario che si sta per chiudere.
L’impasse durava forse da tre minuti, ma a tutti sembrava di essere lì fermi da molto più tempo. Guardavamo Luca che, molto lentamente, toglieva la scarpa di Matteo, e questi che stringeva tra i denti un lamento. La caviglia si era gonfiata all’istante. C’erano pochi dubbi sul fatto che non fosse in grado di camminare.
«Ma chi ha portato fuori il comodino lasciandolo lì?». Alice non alzava lo sguardo. Nella sua testa il dolore di Matteo, e il dolore di una commedia sognata e costruita per mesi, che forse si spegneva per sempre. E magari, con lei, le luci di quel teatro. Nessuno, però, indagò oltre.
Dopo un istante di silenzio, Marta disse che bisognava chiudere il sipario: un semplice cambio di scena non poteva durare così a lungo, la gente cominciava a mormorare. Marco acconsentì e si diresse verso il comando per chiudere, ma Sergio lo interruppe con un gesto secco.
Sergio era il più anziano del gruppo, faceva parte della compagnia da quando era stata fondata, e negli ultimi trent’anni aveva passato più tempo in quel teatro che in casa sua. Per noi era un maestro. La sua voce non cadeva mai nel vuoto con noi, rispettavamo i suoi capelli bianchi di sipario e riflettori, le sue rughe disegnate dal trucco, il suo incedere lento che svegliava, una alla volta, con riguardo, tutte le assi del palco.
«Non è mai successo che uno spettacolo, qui dentro, non sia giunto alla fine», disse in un sussurro caldo.
«Sergio, ma Matteo non può continuare, e la commedia non sta in piedi senza il suo personaggio».
«Adesso facciamo vedere che siamo attori, ci inventiamo qualcosa. Improvvisiamo. Questo è fare teatro, ragazzi, è mettere in gioco tutto.» replicò Sergio, sicuro.
Marco soffriva nel contraddire l’anziano amico, ma quella di chiudere il sipario e presentarsi in proscenio per spiegare l’accaduto, gli sembrava l’unica soluzione. «Non siamo neanche a metà. Qui non si tratta di metterci un siparietto. Chiudere è una scelta necessaria, anche se dolorosa. La gente capirà.»
«Non è solo la gente, si tratta di non offendere il teatro! Non temete: fidatevi di questo vecchietto. Uscirò e mi inventerò un modo per fare andare avanti lo spettacolo».
Non lo potevamo fermare, ma ci era chiaro cosa gli stavamo consentendo di fare.
Entrò in scena e fu accolto da un applauso. Cominciò a fare ciò che sapeva fare meglio. Tirò fuori tutto, anche le viscere. Sembrava voler accarezzare il pubblico; cercava con gli occhi uno sguardo da arpionare, ma non stava facendo il gigione e non voleva elemosinare un consenso. Ci rapiva con la perfezione della sua tecnica, con l’armonia del suo stile. Solo che non era al suo posto. Era a suo agio e godeva nel fare il suo teatro, ma aveva scelto di buttarsi senza rete. Non poteva arrivare alla gente, che cercava di capire dove fosse il filo, e non poteva accogliere uno stravolgimento simile. La trama si stava disfacendo e lui cercava di rimontarla senza disporre dei pezzi necessari.
Guardammo il suo monologo esaurirsi, affievolirsi in modo annunciato, dirigersi verso un “poi” che noi non potevamo garantirgli, o verso un applauso che il pubblico, smarrito, non era pronto a concedere. Ci chiedevamo cosa avrebbe fatto.
Marco entrò in scena leggero, proprio sull’ultima parola di Sergio, sul suo mento che si abbassava verso il petto. Non sfuggì al tecnico delle luci e l’effetto fu immediato. Il pubblico colse la tensione e si lasciò prendere per mano.
«Signori, stasera non siamo stati in grado di portare a termine lo spettacolo a causa di un imprevisto. Avremmo voluto scusarci e chiudere, ma per un attore, chiudere a metà di una commedia è come pugnalare il teatro stesso. E l’uomo che vedete qui di fianco a me, è un grande attore. E la risposta, per lui, è sempre entrare in scena. Proprio oggi che non vi abbiamo potuto offrire ciò per cui avevate pagato il biglietto, grazie a questo attore, avete avuto la fortuna di vedere messo in scena l’amore per il teatro.»
Mentre l’applauso scrociava, nella barba bianca di Sergio affiorò un sorriso che diceva: «Ragazzo, mi hai salvato dalla mia incoscienza. E forse hai salvato anche il nostro teatro».
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