32 – LA PASTIERA

3 Dic di editor

32 – LA PASTIERA

“E’ tutta colpa della pastiera!” scrissi su un cartone della pizza trovato rovistando nel cassonetto vicino alla mia casa fatta di coperte e vecchi legni.
Sì, se ve lo state chiedendo sono una clochard, mi chiamo Tino e vivo su una panchina di viale Trastevere da ormai una ventina d’anni, o meglio ci vivevo fino a questa mattina.
Era molto presto, non saprei dirvi l’ora, ma penso tra le 7 e le 7.30 perchè la signora Rossini che abita al 4° piano del palazzo rosa dall’altro lato della strada era da poco uscita per andare al lavoro, improvvisamente sono stato disturbato da una voce baritonale: “Lei se ne deve andare da qui”.
Quando ho aperto gli occhi, un uomo sulla trentina era in piedi davanti a me, indossava un elegante completo blu e delle scarpe appena lucidate, mi fissava, stava parlando veramente con me.
Io? Ma che disurbo può arrecare un vecchio senzatetto che passa le sue giornate a dipingere gli angoli più belli di Roma e a tenere in ordine la sua casetta?
Conosco tutti nel quartiere e tutti conoscono me, ho visto persone arrivare e poi trasferirsi, innamorarsi e poi piangere, bambini nascere e crescere, negozi aprire e poi chiudere, sono parte del quartiere.
Poi mi balenò un ricordo, da qualche giorno avevo notato un gran trambusto davanti alla vecchia Latteria, era di proprietà del Gigio, un uomo molto robusto e con uno humor nero che non tutti apprezzano. Era solito passare a trovarmi una volta che chiudeva il negozio, non voleva mai tornare a casa dalla moglie, ogni giorno mi ripeteva che sognava di lasciare tutto e scappare alle Canarie, forse ci è riuscito.
Così, improvvisamente, una saracinesca ruppe il silenzio e scoprii che la vecchia Latteria di Gigio aveva lasciato il posto ad uno sfavillante nuovo locale con le vetrine tirate a lucido, all’interno si intravedeva una cameriera di bella presenza in completo color panna e un intero bancone di sfiziosità: “La Pastiera”.
Che poi io, non so neanche che sapore abbia la pastiera, non l’ho mai provata e sicuramente ora saprebbe di rabbia e delusione.
Così decisi di prendere il cartone della pizza di cui vi parlavo prima e di scriverci sopra un chiaro messaggio di ribellione, la mia casa non la lascio, per nessun motivo al mondo.
Entrai in casa a cercare una corda piuttosto lunga e resistente, delle coperte e qualche provvista, attraversai la strada e mi incatenai al lampione antistante il locale, avevo sempre sognato di farlo, l’avevo visto in qualche tg che veniva trasmesso nelle vetrine dei centri commerciali.
Così ora sono qui, al freddo, incatenato a questo lampione e osservo la gente che passa sul marciapiede, alcuni mi salutano pure perchè mi conoscono bene, devo ammetterlo: mi sento un po’ un imbecille.
All’interno del locale vedo la commessa bionda che parla con l’uomo di blu vestito che questa mattina mi ha chiesto di sloggiare, punta il dito verso di me e ride, forse crede che resisterò poco.
Lui non sa che io sono abituato a lottare, non sono diventato sensatetto da un giorno all’altro, è stato un percorso lento, costante e deprimente che porta al fondo. Il sentirsi emarginati è tremendo, essere senzatetto significa essere trasparenti. Molte persone passandomi davanti mi calpestano, danno calci al bicchiere con i miei soldi, passano con i piedi sopra ai miei disegni distesi a terra, urtano i cartoni che compongono la mia casa facendola crollare, la maggior parte delle persone sembra non vedermi. Eppure io ci sono, sono qui, sono sempre stato qui, sorrido a tutti quelli che mi passano davanti, lascio dei disegni a tutti quelli che ricambiano il mio sguardo, non chiedo soldi, chiedo sempre “come stai?” e sono attento al cambio di look di tutte le donne del quartiere.
Cos’è questa sensazione? Sembra una mano calda che stringe la mia, apro gli occhi, devo essermi addormentato.
Attorno a me ci sono tutte le persone del quartiere, con i cartelli di protesta tra le mani, la signora Rossini ha preparato il caffè caldo e arriva un profumo inebriante di biscotti appena sfornati.
Ci sono tutti, non ne manca neanche uno, sono tutti seduti attorno a me e sorridono, sembra quasi che mi vedano come una persona, ora la pastiera non mi sembra più così amara.


3 Commenti

  1. Buona l’idea che la pastiera sia un locale…
    Gradevole il racconto del clochard “di quartiere” amico di tutti… Purtroppo la “predica” sull’indifferenza della gente verso i senzatetto cambia e appesantisce il tono generale. Carino il lieto fine, ma non è sufficiente a rialzare il tono del racconto.
    Slittamenti non sempre opportuni fra tempi verbali diversi.

  2. Interessante il taglio di protesta sociale scelto per il racconto. Ci sono alcune forzature: sia la cattiveria dell’uomo in blu, sia l’immediata risposta dei cittadini del quartiere (magari qualche giorno di protesta sarebbe stato utile per suscitare una risposta). Nel complesso, però, assapori con il vecchio senzatetto le diverse sfumature di sapore della pastiera.
    Alcune imprecisioni dal punto di vista sintattico e dell’uso della punteggiatura

  3. La lettura è piuttosto fluida e il racconto è interessante. Non sono però d’accordo con l’utilizzo del passato remoto per raccontare qualcosa avvenuto poche ore prima rispetto al presente. Userei piuttosto il passato prossimo, andando a modificare in modo efficace la consecutio temporum.

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