Finì per addormentarsi…
Finì per addormentarsi, e iniziò un’avventura incredibile.
Era lì, con i propri occhi, in un mondo lontano. Sentiva odori sconosciuti, il clangore di utensili primitivi, voci che parlavano un idioma strano, … Spaventata? Non poteva ritenersi tale, perchè in qualche modo le pareva di essere nella propria famiglia. Nel suo Clan.
Ed era davvero così. Come riusciva altrimenti a riconoscere in coloro che la circondavano le stesse persone che rendevano speciale la sua vita, nel 2018? Non era il loro aspetto a farglieli sentire vicino, ma qualcosa di più nascosto e oltremodo caratterizzante.
Era disorientata e totalizzata in quella realtà. Abbassò lo sguardo e notò l’abito blu ornato di fitti ricami, non aveva mai visto quelle lavorazioni prima di allora… e allo stesso tempo le erano così famigliari.
Ricordava di essere quella ragazza che si torturava tra conservatorio e lavoro, spesso frustrata da ciò che sembrava un’inarrivabile ricerca della bellezza… Eppure in quel momento lei era anche una donna dall’abito blu, a cui molti portavano rispetto.
Come spesso faceva quando era confusa, lasciò perdere il genere umano e si lasciò catturare dalla natura. Era un tardo pomeriggio assolato, il clima era mite sebbene la stagione fosse estiva. Volse gli occhi intorno a sè: le spalle davano su un timido sentiero che risaliva morbide colline, alla sua destra le propaggini di un bosco rigoglioso che sembrava richiamarla, in fronte una radura dove tante persone erano indaffarate a piantare tende e orpelli sconosciuti, a sinistra … il nulla. Il mondo sembrava terminare alla sua sinistra. E oltre il vuoto si estendeva acqua cristallina.
«L’Abisso» pensò. Cos’era ‘l’abisso’ non lo aveva mai saputo.
La raggiunse una ragazza rubiconda e bellissima, che lei aveva subito identificato nella migliore amica, e la invitò a prendere parte alla festa, quasi delusa di non averla già vista al centro delle danze. Si accorse così di comprendere quel linguaggio lontano: qualche parte di lei era capace di rispondere, e in breve stavano correndo verso il gioioso banchetto.
Era tutto remoto, ma più il tempo passava più la ragazza si sentiva a casa. Quel Clan appariva molto più divertente e appassionato alla vita rispetto a tante delle persone con cui interagiva nel fumoso ventunesimo secolo.
Fu in quel momento che notò anche un uomo bellissimo, davvero affascinante a prescindere dai canoni estetici dell’epoca. Lui la guardava come se lei fosse il suo sole. Tutti li guardavano come se la loro gioia fosse la felicità del Clan.
Era terribilmente felice, tanto che dentro lei una piccola macchia nera risaltava. Era tutto troppo veloce. Si ritirò garbatamente e si stese in una tenda un po’ appartata. Chissà se si sarebbe risvegliata ai ‘giorni nostri’? Quali erano i ‘suoi giorni’ a quel punto? Se avesse potuto scegliere, vista l’enorme curiosità, sarebbe rimasta lì col Clan ancora. Chiuse gli occhi e lasciò che il suo destino facesse il proprio corso.
Era notte, sentiva l’infrangersi delle onde sulle rocce e un vento gelido sul viso sudato. La paura e la vergogna nel cuore, intimate da un uomo alto e minaccioso che riusciva a risvegliare anche una sorta di perverso anelito sensuale. Lui era malvagio e la disprezzava. I propri piedi a un passo dall’abisso, le profondità spaventose che la notte faceva solo intuire… poi il salto nel vuoto.
Si risvegliò di colpo terrorizzata. Davanti ai suoi occhi ancora la tenda e l’amica che l’aveva seguita. Lei sapeva. Vedeva quello sgomento e sembrava capire.
«C’è una profezia, questa è la volontà degli Dei.» Si limitò a dire in una trasparenza disarmante.
Sapeva che sarebbe dovuta partire ed incontrare quell’uomo, un druido. Ma più di lui, doveva incontrare il suo destino.
Un fato che, come la bacchetta del Dio Hermes, si sarebbe compiuto cingendo intorno a sè tanto la vita moderna quanto quella remota. Un caduceo che manifestava un equilibrio talvolta comprensibile solo agli Dei.
Quella donna sono io. Per tre mesi i miei sogni sono appartenuti al mondo celtico e ciò che ne ho dedotto, in forma romanzo onirico e di opera rock, è fruibile a chiunque tramite il nome: “Oltre l’Abisso”.
Valutazioni Giuria
1 – Visioni di Abisso – Valutazione: 20 Giud.1: Il testo è scritto in modo originale, chiaro e con un linguaggio ricco e rende bene l’idea del frammentario nella narrazione dove alterna il desiderio di vivere a pieno un sogno e la possibilità di doversi risvegliare e farsi delle domande. Giud.2: Testo originale, vocabolario molto ricco . La frammentazione del racconto mi ha reso difficile seguire il filo del discorso. Giud.3: Ho apprezzato l’idea del riconoscere le persone del clan a prescindere dall’aspetto fisico nella dimensione onirica, ma la trama mi appare inconcludente e gli aggettivi speso forzati. Giud.4: La sintassi discutibile, rende faticosa la lettura. Alcuni errori “Dio Herme”, gli “Dei”, “non era il loro aspetto a farglieli sentire vicino”, sono penalizzanti. Il finale dovrebbe essere la logica conclusione del racconto, invece non rivela, ma spiega. La ricercatezza dei termini, se non gestita, diventa azzardo, con risultati poco felici: “rubiconda e bellissima”, “disorientata e totalizzata”, “oltremodo caratterizzante”, “trasparenza disarmante”. Buona la fantasia ed apprezzato lo sforzo di originalità. |
Finì per addormentarsi proprio quando le fiamme del fuoco diventarono brace.
La mente, libera dalle pastoie della realtà, gli propose uno dei possibili finali di quella storia: nel sogno una pallottola della Colt di Frank gli trapassò il cuore, facendolo esplodere nel petto.
Si svegliò di soprassalto, sudato nonostante il freddo notturno del deserto, la pistola in pugno. Ci mise un secondo in più per realizzare dov’era, poi sgusciò da sotto la coperta navajo e riattizzò i carboni. La fiammella guizzò bassa, ma sarebbe bastata per scaldare il caffè.
A est cominciava a schiarire, non poteva permettersi di perdere tempo. Sentiva quel figlio di un cane di Frank sempre più vicino, il suo fiato gli faceva rizzare i peli sulla nuca. Mentre beveva il piscio di coyote che si ostinava a chiamare caffè riandò a due giorni prima, quando era cominciata la sua fuga.
A Wichita non era andata per niente bene. Il cassiere della banca aveva dimostrato di avere fegato, freddando Caleb mentre uscivano con i sacchi pieni di dollari. Il bastardo aveva un canne mozze sotto il banco e lo aveva usato. Non l’avrebbe fatto più di sicuro, non dopo che gli aveva piantato una pallottola in fronte, ma ormai era troppo tardi per Cal. Si era ritrovato in strada mentre lo sceriffo arrivava richiamato dagli spari, fucile in mano. L’aveva riconosciuto anche da lontano: Frank Duchamp, detto Dutch. Come diavolo era finito a fare lo sceriffo in quel buco di paese? Lo stupore lo aveva lasciato a bocca aperta, ma non gli aveva impedito di saltare in sella e fuggire ventre a terra, mentre un paio di pallottole gli fischiavano vicino alle orecchie, segno che anche Duchamp l’aveva riconosciuto. D’altronde avevano cavalcato insieme per un bel po’. Finché Josie, la donna di Frank, non si era infilata nel suo letto, rovinando tutto. Quando Dutch li aveva scoperti si erano affrontati e lui era stato magnanimo, un colpo di striscio, non voleva uccidere il suo amico. Di sicuro Duchamp, accecato dall’onta, non sarebbe stato altrettanto clemente. Per questo ora doveva scappare il più in fretta e lontano possibile, l’improbabile sceriffo non avrebbe allentato la presa, ora che aveva anche un motivo legale per volerlo morto.
Quando il sole fu a picco si concesse una sosta all’ombra di una formazione rocciosa. Diede fondo alle ultime scorte di carne secca, maledicendo l’idea che aveva avuto di scappare attraverso il deserto. Davanti a sé, all’orizzonte, non riusciva a scorgere nessun segno di vita mentre alle sue spalle uno sbuffo di polvere annunciava l’arrivo del suo inseguitore, non molto lontano.
Decise all’improvviso di averne abbastanza: l’avrebbe aspettato lì, appostato col Winchester in alto sulla roccia e l’avrebbe steso.
Stavolta niente sconti.
Non dovette pazientare molto, dopo meno di un’ora vide il cavallo al trotto con Frank accasciato sul collo che si reggeva a malapena. Doveva aver avuto un malore, forse un colpo di sole. Scese dal suo nascondiglio e fermò il cavallo. Duchamp cadde ai suoi piedi, inerme. Lo trascinò all’ombra tirandolo per gli stivali, lo disarmò e andò a ispezionare le bisacce. C’erano abbastanza viveri da permettergli di attraversare il deserto fino alla prossima città. L’indecisione durò un minuto, poi sellò il suo baio e portandosi dietro l’altro cavallo si allontanò con calma. La fretta poteva lasciarsela alle spalle, ormai.
Non fece molta strada, assalito dai ricordi di quando era culo e camicia con Frank, di tutte le scorrerie fatte insieme, le sbronze che si trasformavano sempre in risse colossali e notti passate in gattabuia. Gli tornarono in mente El Paso, quella volta a Nogales…
No, il suo vecchio amico non meritava di morire di fame e di sete, nonostante tutto.
Tornò sui suoi passi. Duchamp era riuscito a mettersi seduto appoggiato alla roccia, ma niente di più. Un paio di avvoltoi erano già nei paraggi, pregustando il ghiotto pasto. Arrivato a tiro prese bene la mira col fucile e sparò. Gli avvoltoi volarono lontano, mentre la testa di Dutch scoppiò come una mela marcia.
A posto con la coscienza riprese il suo cammino, ancora con più calma di prima.
FINE
Valutazioni Giuria
2 – L’AMICIZIA PAGA – Valutazione: 23 Giud.1: Il testo è scritto in modo originale, chiaro e con un linguaggio ricco e rende bene l’idea del frammentario nella narrazione dove alterna il desiderio di vivere a pieno un sogno e la possibilità di doversi risvegliare e farsi delle domande. Giud.2: testo interessante e godibile. Le descrizioni aiutano nella lettura. Mi sono molto piaciuti i protagonisti. Giud.3: “Per realizzare dov’era” nelle prime righe condiziona la lettura successiva. Storia banale e finale prevedibile. Giud.4: Rivedibile l’uso della punteggiatura, anche nella suddivisione delle subordinate. Alcuni errori risultano penalizzanti: “ci mise un secondo a realizzare dov’era”, la ripetizione “riandò… non era andata”. In un racconto di 4000 battute non è concesso. La storia comunque scorre. La logica del finale lascia perplessi e non dona quel “colpo di scena” che immagino nelle intenzioni. |
Finì per addormentarsi, Pora-Poralei.
O meglio: per cadere in quello stato, che gli umani definirebbero comatoso, tipico della sua specie in condizioni ambientali proibitive.
E se da una parte ciò fu un bene, perché glie(1) regalò almeno un paio di Knorr(2) di vita,
dall’altra non rendeva meno certa la sua morte, e con essa il cessare di quella peculiare vibrazione delle sue molecole che lo rendevano, al momento, invisibile.
Con l’inevitabile impatto che la scoperta di una creatura aliena avrebbe avuto sugli abitanti di quell’infernale, assurdo pianeta.
Subito dopo aver perso coscienza, il suo corpo semiliquido (che aveva avvinghiato, quasi per istinto, a una sporgenza metallica del soffitto…torrida sì, ma non ustionante come il resto del locale) si era contratto fino alle dimensioni di pall’d’calc(3), ricordo ancestrale di quando i tanzilli decapodi erano creature pelagiche che nuotavano nei laghi ammoniacali del loro pianeta di origine e dovevano resistere alle maree del terzo plenilunio.
Aveva guardato in basso, poco prima, attirato dall’aprirsi di una strana apertura rettangolare in una parete (una porta, glie sovvenne), da cui era entrato uno sparuto numero di uomini vestiti malamente e – per quanto poteva ricordare dai vecchi studi di exobiologia – spaventosamente emaciati.
Aveva guardato, si era sforzato di ricordare, ma niente. La banale sequenza di 11 simboli che l’avrebbe salvato era persa chissà dove, nei meandri della sua mente assetata di aria pura.
Non era passato molto tempo da quando tutto era iniziato: le vibrazioni d’allarme, il risveglio improvviso dalla stasi, la fugace visione di un pianeta azzurro d’acqua liquida (acqua! liquida!!) e della sua unica, grande luna…
Il soldato Pora-Poralei non poteva saperlo, ma un incrociatore nemico era appena sbucato dall’ombra del satellite e per quello erano suonati gli allarmi e i difensori della grande nave reggia, risvegliati senza troppi complimenti, automaticamente teletrasportati sulle navette da combattimento che le ronzavano attorno.
O almeno, così avvenne per quasi tutti…
Perché il nostro tanzillo non si era ritrovato all’interno della sua navetta, pronto a distendere i sei arti manipolatori sui sistemi di puntamento e sulle armi di cui era dotata, ma in quel luogo così assurdo, così alieno, così mortale. Con quell’aria infuocata e velenosa che si faceva strada a forza nelle fessure brachiali, invadeva le spugne respiratorie, bruciava il cervello formidabile ma così fragile.
E anche se la navetta lo avesse seguito e fluttuasse in quel momento in una bolla di nonspazio a poca distanza da egliei(4), per essere teletrasportato al suo interno Pora-Poralei doveva digitare la famosa sequenza.
Che non ricordava più, che mai più avrebbe ricordato
Avvenne…quando? Non poteva saperlo.
Proprio dalla sporgenza a cui si era abbarbicato, ecco un miracoloso fiotto d’aria pura (calda, sì, quasi ustionante, ma pura…aria da respirare, aria da far guizzare le appendici sensoriali, aria da vivere e godere e insieme a quel dono insperato – Da dove veniva? Chi o cosa? Perché?…) ecco il risveglio, la memoria che tornava.
Allungò l’appendice eptodattila verso la cintura, cominciò a digitare.
Uno degli uomini alzò lo sguardo, inorridì, si porto le mani alla gola e cadde a terra.
Dopo pochi batt’d’cigl(5), con i tre cuori che battevano all’impazzata e i quattro occhi ancora spalancati dalla paura (non sono così diversi, i tanzilli decapodi dagli umani…), Pora-Poralei si ritrovò all’interno della navetta da combattimento che fluttuava poco distante.
Pochi batt’d’cigl per calmarsi (era un soldato, e ben addestrato) e via.
Sfiorò il cancello con la scritta Arbeit Mach Frei e poi su, verso l’indifferenza delle stelle.
Note di testo:
(1): secondo il Galateo Galattico i pronomi personali nelle specie con fasi di ambigua differenziazione sessuale devono essere tradotti con una sintesi tra genere maschile e femminile. Nel caso specifico glie=gli+le
(2) Tempo necessario a un seme dadiforme di brood di 1cm3 per sciogliersi in 1litro di azoto liquido
(3) Uova (pall) di Calc. Leccornia prelibata della cucina Tanzilla
(4) Egli+lei – vedi nota (1)
(5) Durata dell’orgasmo nella specie pelagica da cui si sono evoluti i tanzilli. Vista l’estrema brevità dello stesso, i tanzilli si dicono ben felici di essersi lasciati alle spalle tale fase evolutiva.
Valutazioni Giuria
3 – IL DONO – Valutazione: 21 Giud.1: Racconto, con personaggi surreali che sembrano trasporsi alla realtà, risulta impegnativo nella lettura. Giud.2: testo molto difficile per la lettura. Apprezzata però la fantasia. Giud.3: Certe frasi risultano un po’ ostiche, ma di certo non pecca di originalità, ironia e trovate fantasiose. Giud.4: Perchè non rendere semplice la lettura fin dalle prime battute?: “Finì per addormentarsi, Pora-Poralei, o meglio per cadere…”, così la successiva: “al momento, invisibile, con l’inevitabile …”. La creatività non prevarichi la sintassi, pena una difficile comprensione del testo. La ripetizione “aprirsi di una apertura” e gli errori “nave reggia” e “l’avesse seguito e fluttuasse”, in 4000 battute non devono accadere. Fa personalmente arrabbiare vedere tanta fantasia e comunque una buona capacità narrativa, malgestite. Consiglio di usare un po’ di “altruismo” nella scrittura: pensi il narratore ad agevolare e condurre con più cautela il lettore tra le trame dei propri pensieri. |
Finì per addormentarsi ai piedi del suo drago.
Il quale si sdraiò accanto a lei, la coprì con una delle sue immense ali e restò a vegliarla: lì sarebbe rimasto tutto il tempo necessario.
Erano passati quattro giorni dall’inizio dei combattimenti e finalmente Amberle poteva godersi il meritato riposo.
Erano stati quattro giorni terribili e lunghissimi.
L’esercito invasore era arrivato alle porte della capitale e aveva dato inizio all’assedio.
Le Regine Nere si erano portate tutte le loro forze. Il loro mago supremo, il Necromante, che si presentò davanti alle mura della città con una schiera di terribili creature da lui invocate: coboldi, arpìe, basilischi, chimere e altre creature gigantesche ricomposte da ossa di altri esseri , come solo la mente malata del mago poteva concepire.
Dalla nostra avevamo il Mago Bianco e la sua paladina, la rossa Amberle, in sella al nero drago dalle ali rosse, Vesetnor.
L’unica tra tutti che era riuscita a superare le prove per diventare la custode dei maghi e ora sembrava spaventosamente sola davanti alle forze nemiche.
I combattimenti iniziarono subito.
Le Regine Nere scatenarono il loro esercito di Orchi, Troll e Drow contro le mura della città, difese dalla nostra alleanza di umani, nani ed elfi.
Il Necromante e il Mago Bianco si innalzarono al di sopra della città, si isolarono in una bolla di chissà quale magica materia e lì combatterono la loro battaglia a colpi di magia, anche se a guardarli erano completamente immobili, circondati da continui lampi di luce dai più incredibili colori.
Amberle combatteva contro le terribili creature necromantiche; solo lei poteva ucciderle, grazie alla sua spada magica ricevuta dal suo mago.
La spada di Amberle e il fuoco di Vesetnor erano l’unica difesa per il Mago Bianco.
Al sopraggiungere della sera l’esercito nemico si ritirò, per riposare, recuperare le forze e riorganizzarsi.
Sembrò che anche il Mago Bianco e il Necromante si prendessero un momento di pausa.
Le luci diminuirono di intensità e poi mancarono del tutto.
Ma Amberle combatteva contro un nemico che non necessitava di riposo.
Un esercito di mostri instancabili, che uno alla volta, si lanciavano all’attacco nel tentativo di colpire il Mago Bianco.
Un nemico che Amberle affrontava e sconfiggeva egualmente instancabile.
Andò avanti così per tre giorni.
Tre giorni di sangue e morte, di fuoco e magia.
Tre giorni in cui si alternavano momenti di disperazione quando sembrava che il nemico stesse per fare breccia nelle mura, a momenti di euforia, quando il nemico si ritirava, a quando una creatura demoniaca crollava a terra.
Tre giorni e tre notti infiniti per Amberle.
A metà del quarto giorno successe qualcosa di incomprensibile.
Amberle con un gesto improvviso ed assolutamente inaspettato scagliò la sua spada verso il Mago Bianco.
Si pensò al tradimento, si pensò che il Necromante fosse riuscito a penetrare in Amberle e a guidare la sua mano.
La spada si dissolse a pochi centimetri dalla testa del mago.
Improvvisamente una luce di un nero assoluto nascose ai nostri occhi il duello magico
Un lungo istante dopo il Mago Bianco si stagliava sulla torre più alta della città e stringeva nella sinistra la spada di Amberle e nella destra la testa del necromante!
A quella vista l’esercito nemico cadde nel panico e si ritirò definitivamente.
Vesetnor riportò una stremata Amberle a terra.
Tutti le andammo incontro per renderle onore, ma lei stremata finì per addormentarsi ai piedi del suo drago.
Valutazioni Giuria
4 – La paladina – Valutazione: 23 Giud.1: Racconto fantastico ben descritto con un linguaggio scorrevole e piacevole. Le frasi brevi sono esaustive. Giud.2: la fantasia degli eventi rende il racconto leggibile. Buon vocabolario e sintassi. Apprezzato l’uso di frasi brevi Giud.3: Caotico, confusionario, scrittura povera di spunti, periodi incompleti, intreccio inesistente. Giud.4: La storia fantasiosa merita una descrizione meno didascalica. Là dove ci si aspetterebbe di essere trasportati sensorialmente in una battaglia favolosa, il lettore rimane solo a snocciolare una cronaca di eventi, sottolineati oltretutto da un discutibile spezzamento dei periodi. Peccato. Ad esempio “Tre giorni di sangue e morte, di fuoco e magia.” non dovrebbe esser detto, ma fatto vivere. “Necromante” sarebbe “Negromante”, “ricomposte da” sarebbe “ricomposte con”. Apprezzabile che all’incipit sia stato dato un senso e non abbandonato, il primo periodo però non dovrebbe essere separato dal successivo. |
Finì per addormentarsi sul divano con il libro ancora aperto sulle ginocchia. Per Lucia era stata una settimana estenuante, quella che precedeva la discussione della tesi di laurea in Lettere. Per concentrarsi meglio aveva affittato un monolocale nei pressi dell’università. Il sonno ristoratore fu interrotto da un leggero tamburellare alla porta. Il sole invernale era calato da un pezzo dietro il palazzone di fronte. Aprì lentamente la porta, il tanto che consentiva la catenella. Alla debole luce del pianerottolo scorse una donna di età indefinita, vestita con abiti che sembravano rubati alla Croce rossa, tanto erano logori e sformati. Portava un marmocchio in braccio che dormiva beatamente. Sul momento, pensò che si trattasse di qualche mendicante che sfacciatamente si era avventurata fin lassù. Fece per richiudere, ma quella esordì: “Ciao Lucia, non mi riconosci?” La giovane universitaria rimase sbigottita e dubbiosa.
Quella continuò: “Sono io, Martina M., la tua compagna di classe. Ricordi? Ultimo anno del Liceo”.
Allora Lucia si fece più attenta e la fissò cercando un particolare che potesse confermare le sue parole. In mezzo a tanto sfacelo solo i suoi occhi erano rimasti gli stessi.
Sì, era proprio lei! Erano ormai trascorsi quattro anni da allora… Constatò che avevano la medesima età ma lei era invecchiata irrimediabilmente.
Fu presa dal panico. Che fare? Chiudere la porta, intrattenerla sul pianerottolo o farla entrare?
Nascose le sue paure dietro un sorriso e la invitò ad accomodarsi. Anche lei rispose con un sorriso che la raggelò. Mio Dio, le mancavano gli incisivi superiori!
Martina prese posto sull’unica poltrona, dopo aver adagiato il bambino su un angolo del divano, mentre Lucia si affannava ad offrirle aranciata e biscotti.
“Quanto tempo eh… sussurrò la padrona di casa per togliersi d’imbarazzo e ordinare i ricordi che affioravano alla sua mente.
Sì, ora rammentava… Martina era quella ragazza magra, con lunghi capelli castani al terzo banco, vicino alla finestra. Come aveva fatto a ridursi così? Avevano frequentato insieme il Liceo, ma proprio all’ultimo anno, poco prima degli esami di maturità era sparita, non era più tornata a scuola.
Dopo qualche settimana scoppiò lo scandalo. Era scappata di casa con un meccanico, per giunta sposato. La famiglia l’aveva cacciata di casa. Da allora non se ne seppe più nulla. Ora, inspiegabilmente, aveva bussato alla sua porta.
La visitatrice, cercò di colmare la sua curiosità repressa. “Sai, Lucia, ho lasciato la scuola per amore…la scuola che mi piaceva tanto”
L’altra commentò laconicamente: “Che peccato, abbandonare tutto proprio all’ultimo anno, dopo tante fatiche…”.
Martina, continuò dopo un profondo sospiro: “Si, lo so. Me lo ha imposto lui per lasciare sua moglie. Ora mi rendo conto di aver sacrificato tutto per il suo amore e ho perso la mia famiglia e il mio futuro. I primi mesi sono stati felici, lui così bello, più grande e io così innamorata”.
Lucia si limitava ad annuire borbottando ogni tanto un “Capisco…”.
“Dopo iniziarono i problemi: il mantenimento per la sua famiglia, nuove spese,…”. -riprese a raccontare- “Ben presto si trasformò in un uomo gretto e malato di gelosia. Ho patito privazioni di ogni genere con la rassegnazione di chi sa che non può più tornare indietro”.
Lucia provò tanta pena per lei.
La sua compagna poi cambiò discorso:” Spero, di non essere stata invadente. Ti ho incrociata tante volte mentre uscivi dall’Università al rientro dal mercatino rionale, ma tu non mi hai mai salutato, non mi hai mai degnato di uno sguardo. Rivederti ha riacceso la nostalgia per i bei tempi trascorsi tra i banchi. Ti devo confessare di aver provato un pizzico di invidia nel vederti così libera…” Si interruppe arrossendo.
Guardò l’orologio alla parete.
“È già tardi! Ora rientra il mio compagno.-esclamò- Posso avere un bicchiere d’acqua?”.
Il tempo di andare e tornare dalla cucina e Martina non c’era più.
Sul bracciolo della poltrona trovò una foto che le rappresentava entrambe davanti a una lavagna su cui c’era scritto “Amiche per sempre”. Sul retro della foto poche parole:” Ricordiamoci per sempre così!”.
Allora avevano creduto entrambe a quella promessa adolescenziale!
Corse sul pianerottolo, si sporse dalla ringhiera, la chiamò; era già andata via. “Com’è imprevedibile la vita!- pensò- Essa è un groviglio indistricabile di relazioni che si snodano in tempi e situazioni differenti e non sempre danno senso alle nostre scelte”.
Valutazioni Giuria
5 – Una visita inaspettata – Valutazione: 25 Giud.1: Racconto con espressione fluida e descrizione accurata. I sentimenti dei personaggi vengono fuori dall’esposizione dettagliata. Giud.2: racconto con un buon vocabolario e sintassi, di facile lettura. Storia un po difficle da comprendere. Giud.3: Il sentimento di amicizia, in una diciottenne alle porte della maturità, in genere è qualcosa di intenso, non così facile da scordare. Tempi verbali che cambiano nel corso della narrazione. Riflessioni finali condivisibili. Giud.4: Poco verosimile che si affitti un monolocale “per concentrarsi meglio”. “sfacciatamente si era avventurata”, come “sbigottita e dubbiosa”, “Fu presa dal panico”,”colmare la sua curiosità repressa”, “commentò laconicamente” sono immagini poco felici: non rendono l’idea che si intuisce vorrebbe esser data. Se “avevano frequentato insieme il lieceo”, perchè le dice “ultimo anno”?. Poco plausibile che le “migliori amiche” non si riconoscano dopo soli 4 anni, che l’amica decida di andare a trovarla e poi di scomparire. Si può creare ogni intreccio, ma deve essere sorretto da quegli espedienti che poi fanno la differenza. |
Finì per addormentarsi, sperando di cadere in un sonno profondo e senza incubi, ma non funzionò. Le urla perforavano il suo cervello. Si svegliò. Gli sembrò che il cuore stesse per uscirgli dal petto. Si mise seduto. Sul comodino c’erano ancora un paio di sonniferi. Li prese in mano e li osservò per alcuni secondi. Sospirò. Ne aveva inghiottite quasi tre scatole in una settimana. Prendeva il doppio della dose prescritta, ma non serviva a nulla. Le grida lo facevano impazzire. Doveva trovare un’altra soluzione. Soppesò le pillole che aveva in mano. Era troppo stanco per pensare. Le inghiottì e si addormentò di nuovo.
Si svegliò all’improvviso, era bagnato fradicio. Aprì gli occhi ansimando. Vide sua sorella in piedi accanto al letto, stringeva un bicchiere vuoto. Gli aveva buttato l’acqua in faccia.
“Sei impazzita?” gridò, alzandosi e levandosi la giacca del pigiama.
“Non ti svegliavi” piagnucolò lei. “Il blister dei sonniferi è vuoto. Li hai presi tutti? Ti dimenavi e parlavi e piangevi nel sonno. Chiedevi scusa a qualcuno. Dimmi la verità cosa volevi fare? Volevi ucciderti?”
Lui si sedette sul letto e si asciugò il viso con il lembo del lenzuolo. “Ma che dici? Volevo solo dormire.”
“Dormire? Ma se non fai altro da sei giorni, quanto vuoi dormire ancora? Siamo tutti preoccupati.”
“Davvero? Tutti chi?” chiese spostandosi in cucina. “Vuoi una tisana alla camomilla?”
“Tutti, io, mamma, papà.”
“Papà? Il generale, dici sul serio? O è solo seccato perché ho mollato l’esercito. Vuoi sta tisana o no?”
“Beh sarebbe meglio un caffè, ma se non hai altro vada per la tisana.”
Lei lo osservò in silenzio mentre lui tentava di prendere il barattolo dello zucchero. Gli tremavano le mani. Le spalle e la schiena rigide rivelavano il suo stato d’ansia.
“Senti, io capisco cosa hai passato” sussurrò.
“Capisci? Tu non capisci un cazzo” gridò lui sbattendo le tazze sul tavolo. “Nessuno di voi capisce. Avete visto un paio di film americani sulla guerra in Iraq e di colpo siete diventati tutti esperti.”
“Così mi offendi.”
“Hai deciso tu di venire qui. Io non ti ho chiesto niente.”
“Ok calmati però. Sono qui per aiutarti.”
“Non lo voglio il tuo aiuto” rispose, versando la tisana. “Voglio solo che mi lasciate dormire. Sono stanco.” Buttò giù la camomilla bollente tutta d’un fiato.
“Hai solo eseguito gli ordini.”
Lui annuì. Un sorriso teso gli tagliò il volto.
Lei tentò di prendergli la mano, ma lui la nascose sotto il tavolo. “Non è stata colpa tua.”
“Non fa differenza. Voglio solo dimenticare. Quando sono sveglio non riesco a pensare ad altro. Rivedo i loro volti spaventati e io che sparo. Sparo a tutti, uomini, donne, bambini. Il terrore nei loro occhi non mi abbandona mai. Mi sembra d’impazzire. Devo solo riuscire a dormire senza sogni, senza incubi e senza urla nella testa.”
“Voglio aiutarti. Dimmi cosa posso fare.”
“Vuoi aiutarmi? Vai a prendermi un paio di scatole di sonniferi e una bottiglia di rhum.”
“Devi parlare con un medico.”
“Con uno psichiatra intendi? Così Il generale potrà dire che suo figlio è pazzo. Per lui meglio pazzo che codardo.”
“Nessuno pensa che tu sia codardo.”
Lui sbadigliò. “Ora vattene, sono stanco di parlare con te. Voglio dormire.”
Lei sospirò. “Posso restare con te finché dormi?”
“Perché? Non voglio uccidermi se è quello che pensi.”
“Vorrei solo essere qui al tuo risveglio.”
Lui alzò le spalle. “Fai come credi.”
La prima cosa che vide appena chiuse gli occhi fu il volto insanguinato di un bambino. Lo conosceva bene. Lo vedeva più spesso degli altri, perfino ad occhi aperti. Lo aveva visto anche pochi minuti prima, mentre parlava con sua sorella. Tentò di toccarlo, ma il piccolo indietreggiò di un passo. Lui scoppiò a piangere. Nel sonno sentì una carezza che gli asciugava le lacrime. Cercò di svegliarsi, ma la mano del bambino prese la sua. Sentì le labbra di sua sorella appoggiarsi sulla sua fronte. Svegliati, svegliati, svegliati. Aprì gli occhi all’improvviso. Quanto tempo era passato? Fuori era già buio. Sua sorella era ancora lì, ai piedi del letto. Si mise seduto. Gli bruciavano gli occhi e gli sembrava che una lama gli stesse penetrando nella testa.
“Ok” sussurrò. “Forse ho bisogno di aiuto.”
Valutazioni Giuria
6 – INCUBI – Valutazione: 25 Giud.1: Narrazione nella quale prevalgono dialoghi brevi che caratterizzano tutto il racconto. La visione ossessiva del volto insanguinato di un bambino e l’incapacità di sottrarlo ad un destino avverso sono ben descritte e esprimono a pieno lo stato d’animo del protagonista. Giud.2: racconto scorrevole e lineare. Buon vocabolario e sintassi. Stati d’animo descritti in modo molto realistico. Giud.3: Tocca il tema tragico dello shock post traumatico e ne rende bene la drammaticità. Pur essendo la punteggiatura carente, i dialoghi suonano realistici e incisivi Giud.4: “funzionò, svegliò, sembrò, osservò, Sospirò” nelle prime 3 righe, è un po’ pesante. 3 scatole di sonniferi in una settimana… poco realistico. La narrazione è scorrevole e senza errori, ma allo stesso tempo il tema che si è deciso di affrontare, è trattato in modo sbrigativo e risulta banalizzato anche il passaggio dal rigido rifiuto, all’accettazione di aiuto. |
Finì per addormentarsi, il suo cuore, dopo l’ultimo dolore, e iniziò a sognare.
Lui non se ne accorse. Successe nella più completa calma, un giorno, mentre preparava il pranzo.
Sentì solo un piccolo formicolio nel petto, un pizzico, come per una spina, il rosso del sangue che scoloriva una rosa recisa.
L’evento scatenante il tutto, in realtà, era accaduto giorni prima: una grossa incomprensione, una violenta discussione e, infine, un’assenza non sua. Un lutto, l’ennesima perdita, un’ingiustizia, il suo non poter far nulla, il silenzio.
Lui ne era rimasto molto scosso, ma il suo corpo si svegliava comunque ogni mattina e provava stanchezza e si assopiva la sera, come se nulla fosse.
Tutti gli dicevano, giustamente, che sarebbe passata, che le uniche cose importanti erano lui e tutto ciò che doveva e poteva ancora fare; gli amici erano il fresco immergersi in mare dopo essere stati scottati dalla calura estiva, quello che gli aveva sempre dato gioia un dipinto annacquato e stinto.
Quando il suo cuore d’improvviso cominciò a sognare fu come se qualcuno avesse premuto il pulsante “Pausa” nel lettore della sua esistenza. Si fermarono i ricordi, i pensieri, le recriminazioni che rivolgeva anche verso di sé, il tornare con la mente a rivivere certi momenti, certe conversazioni, certe risate, certe lontananze, ma anche certe compenetrazioni, unioni, certe profonde e preziose empatie.
Fra un fornello e l’altro si sentì quasi fatto d’aria, senza radici, senza consistenza, mentre il cuore non richiedeva più nulla, non faceva più male, non lo richiamava a gran voce a ogni battito. Sognava, semplicemente, come mai aveva fatto fino ad allora, e nel suo sogno riposava e si appagava solo delle sue visioni, senza più cercare niente, neanche uno specchio tangibile che raccogliesse la sua immagine fuori di sé.
Anche tutti quelli che aveva attorno non si accorsero di nulla. Lo videro passare da diversi stati d’animo, spesso discordanti, e si dissero che era normale, che erano fasi del lutto, che non c’era troppo da preoccuparsi.
Così le giornate passavano, un po’ in sordina, quasi senza cambiare, saltando da un numero del calendario all’altro, mentre la vita si dipanava ancora e ancora, serenamente, come se tutto fosse indifferente a tutto. Una spirale senza inizio, un ciclone senza occhio, una farfalla in un bicchiere.
Era una sensazione che conosceva bene, ma aveva sempre trovato la possibilità di posarsi ogni tanto, pur sotto il bicchiere, di godere della luce anche in situazioni difficili e ostili. Il suo cuore pompava, insieme al sangue, anche la forza e la resistenza verso le fratture della vita, per riempirle, per avvicinare i lembi di tutte le ferite, per non arrendersi al semplice accadere delle cose ma stamparci sopra la propria, unica impronta: come per lasciare un segno del proprio passaggio, per poter dire di non aver vissuto invano, di aver avuto parte nel provare a cambiare ciò che era sbagliato – se era possibile far qualcosa per cambiarlo -, ciò che non aveva ragione di esistere e, così, far star bene, anzi, meglio se stesso e tutti coloro che aveva vicino.
Ora che il suo cuore si era addormentato, però, anche lui era estremamente calmo.
I sogni, in quel sonno, erano infiniti.
Dopo pranzo leggeva sulla sua poltrona preferita, guardava un film, faceva una telefonata a un amico. Poi veniva l’ora di cena, il cucinare senza appetito, il sorridere a salve in compagnia; sentiva parlare e non ascoltava, guardava e non vedeva: una custodia di se stesso, un violino privo di corde.
Forse tutto il silenzio che lo assordava era frutto delle sue percezioni scorticate ed esacerbate, forse quell’ultimo dolore non aveva proprio e solo la forma di una perdita irrimediabile, di un destino immutabile, forse qualche cosa si muoveva, forse era tutto un modo di perdere momentaneamente qualcosa per, poi, ritrovarla e ritrovarsi.
La speranza e la fiducia nel destino, ormai, si erano acquietate, erano parte dello stesso sonno del suo cuore.
Una sera finì per addormentarsi prima del solito.
Si sentiva bene, anche se riuscì a stento a posare il libro che aveva appena finito di leggere sul comodino, vicino a un flaconcino da poco svuotato.
Placidamente raggiunse il cuore e i suoi sogni.
La mattina dopo non si svegliò.
E continuò a sognare.
Valutazioni Giuria
7 – IL SONNO DELL’EMOZIONE – Valutazione: 21 Giud.1: E’ chiaro fin da subito come finirà la storia ma nell’evolversi della narrazione appare a tratti discontinuo. Giud.2: lettura complicata, la narrazione non è lineare e non aiuta il lettore. Buon uso del vocabolario e della sintassi. Giud.3: Fluido, scorrevole, coerente. Forse un po’ di ripetizioni, controbilanciate però da qualche immagine (sorridere a salve, custodia di se stesso) vivida e toccante. Naufragio dolce Giud.4: La punteggiatura spezzetta eccessivamente i periodi, a discapito della fluidità, fin dall’inizio (vedi da “Finì” a “Il silenzio”). “il rosso del sangue che scoloriva una rosa recisa”: cosa significa?. La sintassi continua zoppicante per tutto il racconto. Certi espedienti narrativi (certe, certe, certe…) ripetuti subito dopo (senza, senza, senza…) più che dare ritmo, lo rallentano, se eccessive. “specchio tangibile” è un’immagine mal riuscita. “lo videro passare da diversi stati d’animo”… o si conclude con l’oggetto a cui passa, oppure lo videro passare “attraverso” diversi stati d’animo. “serenamante”….”Una spirale senza inizio, un ciclone senza occhio, una farfalla in un bicchiere.”: gli esempi danno tutto puorchè l’idea di “sereno”. consiglio di innamorarsi meno delle parole e sforzarsi di più sul concetto da esprimere. Le metafore si susseguono, a volte anche azzeccate, ma eccessive. sarebbe preferibile ponderare sapientemente le figure retoriche, usandole solo per impreziosire. “la mattina dopo non si svegliò”: era scontato morisse, sarebbe stato più efficace lasciarlo implicito. |
Finì per addormentarsi, sfinito dal dolore. Ma fu un sonno frammentato e si risvegliò, madido di sudore, tra le lenzuola bagnate, in quel letto d’ospedale. La sua mente continuava a ritornare a quella mattina, a quando era arrivato davanti al teatro dove avrebbe lavorato per alcuni mesi. Si era guardato attorno ma non aveva visto nessuno. Allora era entrato nel piccolo foyer circolare, aveva acceso le luci ai vecchi lampadari e osservato quel luogo: la moquette rossa, lisa in ampie zone se non, addirittura, bucata, dimostrava tutti gli anni di utilizzo. Lo spazio al centro era occupato dal bancone della biglietteria, un cerchio di legno chiaro sbeccato in più punti e il cui ripiano, a forza di sfregamenti, aveva perso il suo originale colore per lasciar posto a grosse chiazze grigie. Sulla destra, accanto al malmesso guardaroba, si trovava l’unico elemento dignitoso di quel posto: la grande specchiera che ricopriva la parete della scala che portava ai palchi. Raggiunse in pochi passi quella superficie liscia per potersi rimirare, come faceva sempre: era alto, le spalle leggermente curve ma, nonostante avesse passato i 50 anni, il fisico reggeva ancora bene. I lunghi capelli erano ancora neri senza fili bianchi a cambiarne l’effetto corvino. Qualche ruga si era installata agli angoli di bocca e occhi ma il sorriso e lo sguardo ci avevano guadagnato in fascino. Si vestiva con eleganza, nonostante i bassi compensi. Il cigolio della porta d’ingresso lo ridestò dai suoi pensieri. La donna entrò silenziosa, non dava l’impressione di camminare, sembrava fluttuasse nell’aria. Le si fece incontro ma non riusciva a dire niente, il cervello girava a vuoto perso negli occhi bui e profondi della donna che, come un buco nero, sembravano attrarre tutto quello che si avvicinava loro. Per la prima volta nella sua vita Ivan non trovava le parole, lui il grande attore, il gran donnaiolo, lui il gran debitore che con le sue chiacchiere aveva sempre incantato e ingannato tutti, proprio lui, non riusciva a dire niente. Anche quando la porta si aprì violentemente non trovò le parole, la sorpresa gli dipinse il volto.
Entrarono una coppia di nerboruti giovanotti che non prometteva nulla di buono. Tutti e due erano sopra il metro e novanta con braccia e toraci muscolosi, l’unica differenza che si notava era il colore dei capelli: uno era biondo e l’altro rosso. La donna si spostò e nel silenzio più assoluto, e con una velocità che non credeva possibile vedendo la stazza dei due energumeni, si trovò bloccato tra di loro. Quello che aveva di fronte, il rosso, lo sbeffeggiò con un ghigno arrogante sulle labbra. Non vedeva quello alle spalle, il biondo, ma ne sentì il pesante pugno colpirlo al rene destro. Un dolore lancinante lo assalì, si piegò di lato proprio mentre il gaglioffo di fronte a lui sferrava un colpo micidiale al plesso solare. Espirò tutta l’aria dai polmoni e fu attanagliato da un conato di vomito. Cadde in ginocchio ma la mano d’acciaio del biondo lo afferrò per i capelli e, con uno strattone, gli tirò indietro la testa.
Vide arrivare il pugno ma non potè fare niente per evitarlo o per smorzarne la potenza: sentì rompersi il naso e un getto di sangue caldo gli invase bocca e gola. Iniziò a piangere per il dolore e l’umiliazione, accovacciato a terra, imbrattato dal liquido viscoso che non voleva fermare la sua caduta. Le risate sarcastiche, e maligne, dei due sgherri lo fecero trasalire ed ebbe paura che la sua sofferenza non fosse ancora finita. Il rosso avvicinò il viso al suo e, sputando saliva mentre biascicava le parole, gli disse con astio <<Ti saluta il Guercio. Questo è il primo avviso per il saldo del tuo debito.>>
Dopodiché, con un feroce calcio nei genitali per far comprendere meglio il messaggio, lui, il suo compare e la donna se ne andarono ridendo. Dopo aver vomitato per lo spasmo di dolore, e prima di svenire per lo strazio, Ivan ebbe solo il tempo di pensare a quando sarebbe potuto tornare sul palco. Poi tutto si spense.
Valutazioni Giuria
8 – Appuntamento a sorpresa – Valutazione: 20 Giud.1: Descrizione dettagliata e articolata. Il finale con il “ti saluta il Guercio. Questo è il primo avviso per il saldo del tuo debito” pone molte domande al lettore su chi era realmente il personaggio. Giud.2: descrizioni molto accurate e dettagliate. Buon uso del vocabolario e della sintassi. Finale che lascia molte domande al lettore, forse troppe. Giud.3: Luoghi comuni (sembrava fluttuasse, occhi come buchi neri) ed errori (entrarono una coppia) non vengono riscattati da una trama insulsa. Mi era piaciuta invece l’ambientazione nel vecchio teatro. Giud.4: Le avversative sono subordinate che pretendono una punteggiatura adeguata. “entrarono una coppia…”: non si possono compiere di questi errori in un breve testo. “Ridestare…Rimirare…Gaglioffo” sono termini che pretendono una giusta collocazione nel linguaggio narrativo, qui sono fuori contesto. Le rughe “installate”, non si può sentire… La lettura è scorrevole, ma se alcune immagini sono più evocative, come l’aggressione, (ma il sangue non “cade”), altre, come la descrizione del teatro, o dei personaggi lo sono meno. “tutto ciò che si avvicinava a loro” riferito agli occhi, non è un’immagine felice, dal momento che il concetto vuol essere “ciò che entra nel loro campo visivo”. |
Fini per addormentarsi, con la bottiglia di vodka stretta nella sua mano dondolante.
L’odore era nauseante, ma era ormai diventato il suo di odore, quello di mio padre.
Ho 11 anni e mi sono resa conto che ci fosse qualcosa di sbagliato quando la maestra ha chiesto a tutti i miei compagni che lavoro facessero i propri genitori, arrivata a me con molta naturalezza avevo detto “mio padre beve”, ricordo lo sguardo della mia insegnante a disagio e il silenzio.
Mia madre aveva deciso di andarsene, avevo otto anni quando una mattina mi sono svegliata e non c’era più, quando avevo chiesto a mio padre dove fosse la mamma, mi aveva dato una sberla tanto forte da lasciarmi un fischio nelle orecchie per due giorni: “in questa casa non si fanno domande” aveva urlato.
Spesso lo avevo trovavo nel suo vomito svenuto tanto aveva bevuto; Lo so cosa starete pensando: perché a 11 anni non hai detto niente?, perché non hai chiesto aiuto?;non ho detto niente perché lui era tutto ciò che mi rimaneva al mondo.
Non ho chiesto aiuto perché lui aveva bisogno più aiuto di quanto ne avessi io.
Dovevo mettere magliette a maniche lunghe per nascondere i lividi sulle braccia.
Lui mi stringeva così forte guardandomi sempre negli occhi, come per vedere fino a che punto ero disposta a sopportare, se resistevo nei suoi occhi si accendeva una luce, come se mi volesse più bene se stavo in silenzio; sostenevo il suo sguardo fino a che non mi lasciava andare.
Sentivo i pollici delle sue mani entrarmi dentro la carne, sentivo pulsare il mio sangue attraverso la sua stretta, sentivo le dita formicolarsi, stavo lì, come se non sentissi dolore e forse ad un certo punto avevo davvero smesso di sentirlo.
Non si può essere amati e basta?, mi chiedevo stesa sul letto della mia stanza; perché deve sempre esserci un prezzo?, per quanto tempo potevo davvero essere disposta a pagarlo?.
“GIULIA! MUOVITI SCENDI SUBITO, HO FAME!”, urla; sento una crepa in me che si crea ogni volta che lui mi parla in quel modo.
Mi precipito di sotto, senza guardarlo negli occhi sento l’odore di vodka e un conato di vomito mi fa piegare su me stessa.
“Ti faccio schifo per caso?!” Urla sbattendo la sedia, sento il cuore battere forte e chiudo forte gli occhi, metto le mani sulle orecchie, mi prende il viso: “GIULIA, TI FACCIO SCHIFO PER CASO?”, faccio no con la testa, cerco di ingoiare il vomito ma non riesco a tenerlo, lui, con la forza di una furia mi prende la gola, stringe forte, sento il cuore battermi nel petto velocemente, lo guardo seduto a cavalcioni sul mio corpo sdraiato a terra, mi ribello con
tutte le mie forze, scalcio, ma nei suoi occhi ce un fuoco acceso.
Sento le mani e i piedi congelarsi, sento la mia bocca che non è più in grado di muoversi, sento le mie gambe paralizzate, sento delle piccolissime scosse dentro la mia spina dorsale.
Avrei voluto urlare con tutto il fiato che avrei voluto avere, avrei voluto dirgli di fermarsi, di smetterla, di non amarmi in questo modo, ma lui non si era fermato e io ero caduta in un sonno profondo.
Davanti a me il viso di mia madre che mi sorrideva avvolta da una luce, l’avevo abbracciata forte, “mamma sei un sogno?” le chiedo, “sono qualsiasi cosa tu abbia voglia di vedere” mi aveva risposto facendomi una carezza, “mamma ma perché papà mi ama così?”, “perché non sa cosa sia l’amore Giulia, lui non ama neppure se stesso”, provavo dispiacere per lui, vivere immerso in questo odio per il mondo senza mai trovare un punto felice doveva essere un modo triste di vivere, neppure io ero riuscita a fargli provare amore, io che ero sangue del suo sangue, persino io ero stata guardata con odio da lui.
Mi aveva fatto vivere una vita senza amore, esattamente come l’aveva vissuta lui, e adesso che mi aveva uccisa lui era rimasto sulla terra con la sua bottiglia di vodka, aveva gettato il mio corpo in una buca in cortile come se fossi il nulla, con la stessa forza con cui aveva afferrato la mia gola.
Vicino a me, pochi metri più in là, c’era il corpo di mia madre, non mi aveva abbandonato.
Ma questo a volte è il prezzo che si paga per amare qualcuno, io l’ho pagato per aver amato mio padre, per non aver chiesto aiuto pensando di fargli del bene.
Tutti noi abbiamo pagato con la vita ciò che si dovrebbe avere senza sforzi. L’amore
Valutazioni Giuria
9 – Il prezzo dell’amore – Valutazione: 21 Giud.1: La narrazione è carica di emozioni descritte con un linguaggio semplice e chiaro ma forse raccontate troppo consapevolmente per una ragazzina di 11 anni, oppure no? Giud.2: Linguaggio semplice e diretto, di facile comprensione. Emozioni vivide e molto apprezzarte dal lettore. Rivedere l’età del persoanggio. Mi sembra una ragazza un po’ più grande. Giud.3: Troppi errori ortografici (ce al posto di c’è) e nell’uso della punteggiatura. Peccato perché avrebbe potuto essere una storia potente e incisiva. Giud.4: I gravi errori grammaticali, sintattici e di consecutio temporum obbligano ad una valutazione gravemente insufficiente. Quanto alla narrazione, non è verosimile il pensiero della bambina. Non trovo pertinente il momento in cui il narratore si rivolge al lettore ed il finale moraleggiante stona. |
e di come, per intercessione di fratello Bardo, Iddio lo redense.
Finì per addormentarsi
D’un sonno fondo e giusto,
Dopo ch’ebbe a prodigarsi
Con amor, pietà e con gusto
Negli affar di cappuccino.
Sognava d’un bel foco
Che ‘l tenesse un poco al caldo,
Più del lume mozzo e fioco
Scordato fùmido e ribaldo
Col breviario e l’acciarino.
Sorci sott’a un tappeto
Movea gli occhi serrati,
Nel sonno sembrava cheto
Ma quelli eran tribolati
Più che fosse in apparenza.
Ed ecco tra veglia e sogno
Si stupì del tosto albore,
Sicché sentì il bisogno
Di riparar da quel chiarore,
Quando in fin prese coscienza.
“Al foco, al foco, al foco!”
Brandendo la coperta straccia,
“Al foco”, urlava, “al foco!”
Battendo e quel gli si rinfaccia
Irrobustito ancorché domato.
Accorsero i fratelli tutti
E gettarono acqua a secchi,
Come il mare rigetta i flutti,
Sui legni asciutti e vecchi,
Ma il convento era appicciato.
E nulla v’era da salvare
Oltre la vita, umili cose
E il crocefisso in sull’altare,
Che le fiamme tormentose
Già rendevano cocenti braci.
L’incendio i muri serra,
Rossi nel buio i frati staglia
Nove in piedi ed uno a terra,
Il foco inerpica ed abbaglia
Con fiamme orribili e voraci.
Trascorse l’intera notte
Pria che il rogo si tacesse,
L’alba che il buio inghiotte
Trovò fiaccole sommesse
E aduste facce lacrimose.
Come pastori alla grotta
S’adunarono all’abbazia
Le genti, trovandola ridotta
Cumulo e al culto di latria
Volsero nenie lamentose.
Tra i frati alcuno spese
Preghiere, altri scostava
Macerie ancora accese,
Solo uno a terra stava
Romualdo d’Avellana.
Frate Elia lo avvicinò
Genuflettendosi al suolo
E con dolcezza ei sussurrò
“Confessiamoci figliuolo
Che l’angoscia è trista e vana”.
Frate Elia, buon pastore
Invocava a lui in soccorso
L’assoluzione del Signore,
Che fugasse il suo rimorso
Espiando penitenza.
Neppur colla pena, doma
Il fervente animo pio,
Ei come bestia da soma
Si sentiva innanzi a Dio
Ed indegno di clemenza.
Prodigarono nei dì seguenti
Ogni sforzo e affanno
Con la carità delle genti
Rizzarono un capanno
Ma nulla era bastevole.
Si decise allora a sorte
Chi la congrega lasciasse,
Partendo per altra corte
Ovunque iddio ordinasse
Al loro animo cedevole.
Ovidio andò a Montecchio,
Giulio e Basilio in Aggio,
Bardo fiacco e vecchio
Fece l’ultimo suo viaggio
Tra le braccia del Signore.
Dai ruderi riattati
E ridotti a mendicare
Rimasero in sei frati
Votati a predicare
Poveri, fuorché d’amore.
Romualdo, per parti sue,
Tanto ‘l si prodigava
Che uno sembravan due,
Se da ultimo si coricava
Con lodi destava il sole
Come il servo più solerte
Miete, semina e dissoda
Macerie, pietà e offerte
In luogo di terra soda,
Sulle labbra rade parole.
Solo a sera discorreva:
Con Elia per confessione
Sotto la croce, e piangeva
In penitenza e in contrizione
Spendendo lacrime ardenti.
“Come Dio avea rimesso”
– pregavan gli altri frati –
“Romualdo a sé stesso
Perdonasse i suoi peccati
Ed i pensier tristi e silenti”.
Ma il cuor non sente
Clemenza, né pena cessa,
Tal ch’ei giace dolente
In dolorosa e spessa
E dura penitenza.
Accadde poi secondo
Com’Egli vuol che accada:
L’altissimo e fecondo
Mutò lacrime in rugiada
Miracolosa nell’essenza.
Apparve infatti un noce
Tra le macerie inerti
Ai piedi della croce,
Tra gli spacchi aperti
Alle lacrime profonde.
Prodigiosa pianta, dacché
Sorse nottetempo schiva,
Eppur già folta, talché
La chioma stormiva
All’alba, tra le fronde.
Da ovunque accorsero
I fedeli che, sentito dire
Sul miracolo dell’albero,
Volevan farsi benedire
Dal frate retto e pio.
L’iniziale e biasimevole
Fanatismo mal celato
Affliggeva il nostro fievole,
Discreto ed umile curato
Che chiedeva gloria a Dio.
Ed avvenne nei fedeli
Ciò che il frate invocava:
Gloria e lode ai cieli,
Che null’omo meritava,
E misericordia in terra
Nei seguenti due trienni
Carità ed ardimento
Eressero le solenni
Nuove mura del convento
Che ‘l noce in mezzo serra.
Romualdo chiese per riguardo
Di esporre in adorazione
Le reliquie di frate Bardo,
Della cui intercessione
Intimamente egli era certo.
Infine avvertì perdonato
Quel ch’ei sentiva in fede
Come mortal peccato,
Da Colui che provvede
Ad ognun, se ha cuore aperto.
Son trascorsi dieci secoli
Dalle vicende narrate
In questi versi miserevoli
E nella memoria annebbiate,
Ma rimangano valevoli
I precetti di quel frate.
Qualsivoglia ne traiate.
Valutazioni Giuria
10 – LA LEGGENDA DI FRATE ROMUALDO – Valutazione: 29 Giud.1: Apprezzabile il genere scelto per narrare le vicissitudini del frate “retto e pio” e dei suoi confratelli. Giud.2: genere interessante, diverso dal solito. Buon vocabolario e sintassi. Belle le immagini che la lettura suscita. Giud.3: Ingegnoso, ben formulato, argomento particolare. Godibile. Giud.4: |
Finì per addormentarsi alle tre del mattino, dopo una lunga notte insonne. Si addormentò in un sonno senza sogni, perché ormai, prima di addormentarsi, il suo pensiero aveva fantasticato tanto sul suo futuro e si era girata e rigirata nel letto facendo e disfacendo progetti per l’avvenire, cercando a volte di sfuggire ad una sottile angoscia che la pervadeva difronte a possibili cambiamenti o fallimenti. Adesso dormiva tranquilla: il volto dalla pelle candida era disteso e le labbra carnose quasi atteggiate ad un sorriso. Almeno una certezza l’aveva: la sveglia avrebbe suonato alle 7,30 precise. Invece no: fu sua madre: ”Luciana, sveglia, sveglia! Mi è preso uno spavento: la sveglia ha suonato e non ti ho sentito alzare” “Ho dormito poco. Adesso mi preparo. Stamattina in Provveditorato espongono i risultati del concorso a cattedre. Devo fare presto”
Luciana si vestì alla svelta: jeans e maglietta e una lunga collana colorata tanto per dare un tocco di femminilità all’insieme. Quando arrivò nell’atrio del Provveditorato una folla bisbigliante, quasi tutte donne, copriva i cartelloni dei risultati. Susanna le corse incontro, sorridendo: “ Hai vinto, abbiamo vinto”. Si abbracciarono e Luciana disse:” Vado a dirlo al mio fidanzato Guido”. Lungo il tragitto si sentiva quasi mancare le forze per la mancanza di sonno e prese un caffè doppio in un bar .
Entrò nel negozio di cornici del suo fidanzato e gli gettò le braccia al collo:” Guido! Ho vinto il concorso. L’anno prossimo potrò insegnare su una cattedra tutta mia” ma Guido quasi la respinse con una mano e disse: “ Voi che avete fatto l’Università leggendo qualche libro avete adesso un futuro garantito e vi sentite superiori a chi non ha né Laurea né futuro assicurato.” Luciana, che si aspettava una condivisione della gioia per il grande successo conseguito, si mise a piangere. Si era sentita disprezzata da Guido, con cui aveva pensato di poter condividere la vita intera. Non salutò e asciugandosi gli occhi con le mani, aprì la porta del negozio ed uscì quasi di corsa.
Anche quella notte finì per addormentarsi alle tre del mattino. Aveva perso un concorso importante: il rapporto con l’uomo amato. Sempre rigirandosi nel letto aveva rivissuto momenti in cui la sua relazione con Guido aveva scricchiolato paurosamente, quasi sempre perché sottraeva tempo al loro rapporto dedicandosi agli studi. Non si era sentita una ragazza come tante, che studiavano con l’approvazione di tutti coloro che le circondavano. No, lei no. Lei aveva dovuto studiare e lavorare nello stesso tempo per mantenere lei e sua madre. Anche al lavoro vedevano male quei suoi permessi per andare all’Università. Guido, poi! Tutte le volte che lo incontrava dopo aver superato brillantemente un esame, mugugnava salutandola. Quanti sacrifici aveva fatto per arrivare al traguardo! Ricordava anche i momenti belli passati con Guido, che le apparivano ora sfocati e lontani: la condivisione delle idee sul mondo, l’organizzazione di spettacoli e incontri culturali di discreto successo, brevi vacanze in Italia ma anche lunghi soggiorni all’estero. Al suono della sveglia si vestì in fretta, fece colazione e si piazzò davanti al televisore. Non aveva voglia di far niente. Alle 10 in punto squillò il campanello: aprì la porta: le apparve la faccia sorridente di Guido. Il cuore cominciò a batterle forte. Con un gesto lo fece entrare e lacrime scesero dagli occhi di Guido: “Scusa per tutte le volte che non ho saputo apprezzare i tuoi successi negli studi. Vorrei che il nostro rapporto continuasse”, disse e la risposta di Luciana fu “Sì”.
Valutazioni Giuria
11 – Un concorso – Valutazione: 22 Giud.1: La narrazione è scorrevole, con periodi semplici e chiari. La storia di Luciana e Guido è descritta in maniera appropriata e in ogni aspetto. Giud.2: buon racconto. Belle le descrizioni dei protagonisti, del loro rapporto, bello il finale. Giud.3: Assurdo, incoerente, improbabile. Forse nella vita reale i rapporti interpersonali sono davvero così, ma il racconto non trova il modo di rendere questa complessità in modo credibile Giud.4: Il linguaggio incespica in una punteggiatura imprecisa, ma soprattutto nelle ripetizioni dovute all’uso di un vocabolario povero. Il contenuto non ha guizzi, se non nella descrizione degli eventi: l’utilizzo di figure retoriche aiuterebbe a dare spessore. “Lei aveva dovuto studiare e lavorare nello stesso tempo per mantenere lei e sua madre” un brutto errore. |
Finì per addormentarsi con la neve come cuscino. Intorno la bianca distesa silenziosa e immobile.
Era seduto sul bordo di una nuvola, ai margini di un lago. Cosa ci faceva lì? Si risvegliò con un sussulto e per un istante gli tornò alla mente l’immagine del mulo morto di stenti. Quando era stato, una settimana, un mese prima? Una mattina non si era più alzato e qualcuno per compassione aveva sprecato un proiettile per finirlo. Poi la sua carne congelata aveva sfamato per giorni quello che restava del quinto reggimento alpini. Forse era stato dopo. Sicuramente dopo Kantemirovka, dopo Kalmikov. Era lì che avevano perso gran parte dell’equipaggiamento e delle armi pesanti, e avevano cominciato a retrocedere. Era il 19 dicembre. Poi tutto era precipitato. Ricordava le liti fra ufficiali, il conteggio giornaliero dei morti e dei dispersi, le marce forzate, incalzati dai russi e dal gelo. Era in uno di quei giorni, in cui nebbia e neve rendevano quasi nulla la visibilità, che si era perso. Si era fermato per sistemarsi uno degli scarponi. Poi era tornato un attimo indietro, pensando di aver perso qualcosa. Si era fermato di nuovo e si era seduto sul relitto di un pezzo d’artiglieria. La colonna era scomparsa.
Per il resto del giorno aveva camminato nella direzione sbagliata, fino a raggiungere verso sera una isba isolata. L’aveva intravista da lontano, nel buio si vedevano le finestre illuminate da una luce rossastra e tremolante, le fiamme di un camino. Si era trascinato fino alla porta e aveva bussato. Quel che successe dopo fu l’ultimo ricordo piacevole della sua vita. Due donne, una giovane l’altra anziana, si erano affacciate alla porta e avevano cominciato a parlargli nella loro lingua incomprensibile. Non erano spaventate, piuttosto sembravano arrabbiate e intenerite nello stesso tempo. L’avevano fatto entrare e una delle due era corsa fuori, rientrando poco dopo con un secchiello pieno di latte. Poi, dopo che aveva mangiato, lo avevano condotto nella stalla e, sempre comunicando a gesti, gli avevano permesso di dormire lì per una notte, solo per una notte. Ricordava bene gli occhi chiari di quella giovane, che il mattino seguente lo aveva svegliato presto ed era stata a guardarlo mentre si allontanava. In quel momento avrebbe voluto che fosse lì e che gli tenesse la mano. Avrebbe voluto raccontarle del suo paese tra le montagne e dei suoi inverni, che non erano poi tanto diversi da quelli russi, solo che al paese aveva una casa e una stufa sempre accesa, la legna ben ordinata nel capanno. Sua madre aveva le mani rosse dal freddo e dal lavoro, e non stava mai ferma.
Avevano anche loro due mucche, e burro e formaggio non mancavano. Come anche farina, zucchero, caffè. No, quello un po’ meno, che non si trovava più e bisognava accontentarsi della cicoria. Magari l’avrebbe anche sposata e sarebbero tornati insieme. Lui avrebbe imparato la sua lingua e lei avrebbe cucinato le patate con lo stesso sapore di affumicato di quelle che gli avevano offerto nell’isba, al tepore del grande camino.
Cercò per un attimo di orientarsi nel tempo e nello spazio. Doveva ricordarsi perché era lì. Era partito che era luglio, con l’Ottava Armata, questo lo ricordava bene. Gli avevano detto di non scordarsi mai l’ordine. Dunque, Divisione Alpina Tridentina. Generale Reverberi. Brigata Alpina Julia, Generale Ricagno. Quinto Reggimento Alpini, 150 uomini, motto: nec videar dum sim, non per apparire ma per essere. Tutti insieme marciavano adesso, passando vicino a lui che non riusciva a svegliarsi, ma sentiva le voci e il frastuono dei blindati che gli passavano accanto. Aspettatemi. Solo un momento, il tempo di rimettere gli scarponi. Di allacciare la divisa. Lei viene con me, sarà mia moglie tra poco anche se ci conosciamo appena. E cominciò a volare sopra tutti, tenendo per mano la donna giovane sopra i tetti del villaggio. Lei vestita da sposa, con il velo e un gran mazzo di fiori bianchi. Fino a che giunsero sopra al tetto di una casa con un grande giardino e un bel noce, la palizzata in legno e la fonte d’acqua fresca. I prati intorno erano verdi e le montagne si stagliavano contro il blu del cielo. Si abbassò un poco verso il terreno per salutare sua madre che lo aspettava sorridente, con le mani rosse sul grembiule.
Valutazioni Giuria
12 – L’ultimo ricordo – Valutazione: 26 Giud.1: la storia è piacevole , ma la narrazione a tratti fa percepire il finale e si perde il piacere dell’attesa, sogno e realtà sembrano tutt’uno Giud.2: Il racconto è ben strutturato, leggibile, buon uso del vocabolario. Qualche ripetizione di troppo. Giud.3: Molto ben scritto, commovente nella sua semplicità. Capace di trasmettere emozione e di trasportare il lettore accanto al protagonista, nel freddo inverno di guerra. Giud.4: “Era in uno di quei giorni, in cui nebbia e neve rendevano quasi nulla la visibilità, che si era perso” una brutta costruzione. Non ci sono gravi errori, ma qualche ripetizione di troppo che si sarebbe potuta evitare con una attenta rilettura. Il racconto è di per sè dolce e ben strutturato, anche se con alcune importanti imprecisioni storico/culturali della vicenda. Consiglio la lettura di “100.000 gavette di ghiaccio”. |
Finì per addormentarsi, con quel suo modo di espirare intenso che aveva fin da piccola. Potevo smettere di accarezzarle la fronte, alzarmi dal letto, uscire dalla stanza, chiudere la porta, lasciarmi cadere in terra e scoppiare a piangere. Nella testa mi rimbombavano le frasi spezzettate del suo racconto. La sua vocina che vibrava, che raccontava e poi si fermava, che si vergognava. Avevo la bocca asciutta, impastata di incredulità e rabbia. Mi sembrava assurdo che solo due ore prima io fossi in cucina a pelare le carote per il minestrone. Mara era seduta al tavolo e stava disegnando. Voglio farti compagnia, mi aveva detto. Alla radio c’era ‘Bella’ di Jovanotti. Poi ha aggiunto, Papi? Un attimo amore, ho risposto. Ho versato le carote sminuzzate nella ciotola verde di plastica. “ … come una mattina, l’aria cristallina …” canticchiavo, ma lei ha ripetuto, Papi, oggi è successa una cosa. A scuola? Le ho chiesto. “… mentre t’allontani stai con me forever …”. No, dopo. Stavo tornando a casa dal catechismo da sola e un signore mi ha detto … Ho drizzato il collo. Un signore? Che signore? Ho chiesto mentre abbassavo la radio. Non lo so, non l’avevo mai visto. Mi ha detto che avevo dei bellissimi capelli. Mi sono girato verso di lei con gli occhi sbarrati e il coltello ancora in mano. Non se lo aspettava, si è spaventata e non voleva andare avanti. Che cosa ti ha detto, Mara? Le parole mi sono uscite dure, come proiettili. Mara si è messa una mano sul petto. Stai tranquillo papi, sto bene. Era assurdo che fosse la mia bambina a cercare di tranquillizzare me. Che cosa ti ha detto Mara? Le ho ripetuto. Lei ha preso in mano il pennarello rosso e ha iniziato a fare dei cerchi insistiti sul contorno del sole. Poi, a tono molto basso, ha detto, mi ha toccato i capelli e mi ha detto che lui se ne intende perché era un parrucchiere. E poi? Le ho chiesto con tono basso, per non spaventarla. Poi mi ha detto che mi ha visto tante volte passare e che una volta io l’ho guardato, ma non è vero papà, io non l’ho mai visto, te lo giuro! Ti credo amore, e poi? Le gambe mi stavano cedendo e mi sono seduto sulla sedia accanto a lei. Poi mi ha preso una mano, io mi sono staccata e ho ripreso a camminare veloce, ma lui mi seguiva e mi diceva che ero bella e che se volevo potevamo vederci qualche volta. Le ho afferrato una mano e l’ho stretta forte, come per strapparla a quell’uomo. Lei ha iniziato a tremare e io pure. E poi che cosa è successo? Non sapevo che altro dire, sentivo la mia voce che faceva sempre la stessa domanda. Sapevo che avrei dovuto stringerla a me e calmarla, ma avevo dentro una rabbia che montava, dovevo sapere. Mara si è bloccata, con una mano ha buttato tutti i pennarelli in terra e ha iniziato a urlare. Allora mi sono inginocchiato davanti a lei e l’ho stretta fortissimo. Scusa, papà, io non volevo! Ha detto scoppiando a piangere. Scusa? Ma di cosa amore mio? Tu non hai fatto proprio niente. Sì papà, lui mi ha raggiunta, mi ha preso ancora la mano e me l’ha appoggiata lì. Il soffitto della cucina mi è cascato sulla testa. Allora sono scappata di corsa e quando mi sono girata non c’era più. L’ho stretta a me ancora più forte, non avrei retto il suo sguardo. Mara non ha più parlato, ha pianto, ha pianto tanto. Il minestrone è bruciato, non abbiamo cenato. L’ho accompagnata in bagno e mentre lavava i denti le ho pettinato i capelli. Poi, ed era così tanto che non lo facevo, l’ho presa in braccio e l’ho portata a letto. Mi sono sdraiato accanto e lei si è accucciata. Le ho fatto tante carezze. Le ho ripetuto all’infinito, ora riposa, amore mio, chiudi gli occhi e riposa. Sentivo le vene bruciare, immagini di vendetta mi facevano strizzare le palpebre. Le ho tenuto la testa sulla spalla, e pian piano ho sentito che il suo corpo, tra tanti piccoli scatti, si rilassava. Ho pregato che quell’animale non tornasse nei suoi sogni di bambina. Che restasse in qualche meandro della memoria, ma sottochiave. Poi ho pianto quel giorno maledetto in cui Mara ha scoperto che il suo papi non può proteggerla da tutto. Ho pregato di recuperare la forza, di raccogliere le sue piume e, al suo risveglio, di farle trovare un paio di ali, forse non proprio nuove, ma forti abbastanza. “ … mentre ti allontani e stai con me forever …”
Valutazioni Giuria
13 – Bella – Valutazione: 24 Giud.1: la descrizione della storia e ben articolata e dettagliata, i dialoghi non ben evidenziati penalizzano la lettura. Giud.2: racconto molto godibile e facile da leggere. Sentimenti ben descritti, il lettore è coinvolto nel racconto. Usa le virgolette per i discorsi diretti, non il corsivo. Apprezzato il rimando a Jovanotti. Giud.3: Tenero, credibile, dolce senza stucchevolezza. Scrittura scorrevole, facile immedesimarsi nella rabbia confusa di un padre che per la prima volta intuisce quanto sia difficile lasciar andare i propri figli. Giud.4: Perchè il discorso diretto non è aperto e chiuso da segni di interpunzione? L’errore è grave, peccato. Sarebbe stato auspicabile inoltre e un più netto cambio di registro lessicale nel far parlare la bambina. Il racconto è di per sè ben strutturato ed apprezzabile l’idea, ma le imprecisioni narrative ne inficiano la valutazione. Un verso della canzone è riportato in maniera errata: le citazioni non possono non essere fedeli. |
Finì per addormentarsi sul divano, con il gesso appoggiato al bracciolo, a notte fonda. Forse grazie gli antidolorifici che finalmente facevano effetto, o forse per il fatto che aveva dormito un’ora in due giorni.
Quella giornata di agosto era iniziata con un temporale, che si era placato attorno alle nove. Salendo lentamente le scale col suo carico di birre da mettere in fresco per il suo fine settimana senza moglie e figli, il Ferretti si fermò davanti alla porta del Massari, da cui usciva quel frastuono, e scosse la testa… L’appartamento di fronte a quello del Massari era vuoto.
Poi salì al suo appartamento. Prima di entrare diede un’occhiata alla porta del Nanni. Sollevò le spalle ed entrò in casa.
In piedi, con le mani appoggiate alla credenza, il Nanni se ne stava con gli occhi chiusi, cercando di sbollire. Aveva lavorato tutta la notte in ospedale, aveva staccato alle sette. Tempo di tornare a casa e farsi una doccia, alle otto meno dieci si era infilato nel letto e alle nove e venti la musica del Massari lo aveva svegliato. Di colpo, alla prima nota. Alla quarta occhiata al proprio riflesso nella vetrina della credenza, decise che si era calmato a sufficienza. Scese al piano di sotto.
Suonò il campanello tre volte senza ottenere risposta, e quindi decise di battere forte contro la porta. Il Massari aprì di scatto, con un’aria tra il sorpreso e il risentito.
«Vanno a fuoco le cantine?», disse con un sorriso che riaccese la rabbia del Nanni.
«Massari, per piacere, ho fatto la notte…puoi abbassare?»
«Ah, scusa, non lo sapevo! Sai, alle nove di mattina uno non pensa di disturbare…e questa musica mica la posso ascoltare a un volume da ninnananna, no?»
«Senti, lo so che ho degli orari particolari e non posso pretendere che tutto il palazzo si adegui…»
«Infatti…» lo interruppe il Massari.
Il Nanni pensò che il training autogeno alla credenza sarebbe dovuto durare di più. Respirò a fondo, poi riprese.
«E infatti sono qui a chiedertelo semplicemente come favore. Non potresti usare le cuffie?»
«Sì, tranquillo. Stavo pulendo i pavimenti e quindi non le ho usate…ma adesso mi metto rilassato sul divano e mi godo la musica in cuffia. Buon riposo, Nanni!» e chiuse la porta.
Il Nanni tornò nel suo appartamento dove viveva da solo da quando la moglie lo aveva lasciato. Non reggeva i suoi ritmi, aveva detto.
Fece per tornare a letto, ma si rese conto di essere troppo nervoso, così decise di preparare l’impasto per la pizza, e di tornare a dormire quando si fosse sentito più tranquillo. Cucinare lo rilassava sempre. Aveva appena preso la farina, quando vide il lampadario muoversi. Avvertì un tremito e in breve si rese conto che si trattava di una scossa di terremoto. Dopo cinque secondi che gli erano parsi minuti si lanciò fuori dalla porta. Il Ferretti aveva già sceso tre gradini. Il tintinnare delle birre nel frigo lo aveva allarmato in fretta. Al piano di sotto, passando davanti alla porta del Massari, il Nanni lanciò un’occhiata fugace, ma in un amen si ritrovò fuori dal portone. Ebbe un ripensamento. Si attaccò al citofono. Niente. Rientrò di corsa.
«Nanni, dove cazz…?» tentò di urlargli il Ferretti, ma il Nanni era già rientrato nel palazzo.
Sarà stata la suola delle pantofole che si era bagnata sull’asfalto del marciapiede, sta di fatto che sul primo gradino scivolò, e il suo braccio destro sbatté forte tra il terzo e il quarto. Un solo urlo, e poi il dolore tanto acuto da non permettergli di muoversi di un centimetro, di emettere un gemito.
Rimasero in pronto soccorso quasi tutta la giornata. Anche il Ferretti.
«Ti faccio compagnia volentieri…non avevo programmi», mentì, pensando alle birre che ormai dovevano essere belle ghiacciate. Tornarono alle nove di sera, appena troppo tardi per incrociare il Massari.
Questi aveva passato la mattinata sul divano ad ascoltare musica, aveva pranzato con un hamburger, un pisolino, un po’ di TV. Dopo la doccia era uscito. Prima di accendere l’auto aveva dato un’occhiata alle notifiche delle notizie sul telefono.
“Scossa di terremoto percepita in tutta la provincia”
Aveva guardato la facciata della palazzina.
«Mah…qui nessuno si è accorto di niente…»
Valutazioni Giuria
14 – La scossa – Valutazione: 24 Giud.1: nella parte iniziale il racconto per l’alternarsi delle storie dei personaggi rende la trama frammentaria, la parte a seguire più lineare e ben descritta Giud.2: racconto del quotidiano, senza molta inventiva. Non molto scorrevole, belle le descrizioni. Giud.3: Ripetizioni frequenti, lessico scarso ma l’idea è divertente Giud.4: L’uso della punteggiatura a volte lascia perplessi: “buon riposo, Nanni!”, ma il testo non presenta gravi errori. Il racconto di uno spaccato quotidiano non ha particolari guizzi emozionali e risulta poco incisivo nella fantasia del lettore, come dire… un compitino senza infamia nè lode. |
Finì per addormentarsi e, attorniata dagli oggetti che il suo nuovo cliente, il signor Serri, le aveva lasciato, iniziò le indagini notturne.
Serri era disposto a pagarla bene e, essendo un periodo di magra, aveva deciso di soprassedere al sarcasmo con cui lui le aveva consegnato un primo assegno: “Signorina Laura, lo consideri un anticipo. Vista la semplicità della Sua casa, deduco ne abbia bisogno!”.
Appena rimasta sola, Laura si era messa subito ad analizzare ciò che Serri le aveva portato: una sciarpa dove si sentiva ancora il profumo di chi l’aveva indossata, un libro con in mezzo un fiore essiccato e la fotografia del matrimonio con la ex moglie.
“Esigo sapere dov’è e che cosa fa adesso Eva!”.
I ricchi non chiedevano, esigevano quindi era il caso di utilizzare anche l’assegno come pista da seguire.
Scrittura boriosa non mente, guarda con che arroganza ha firmato pensò tra sé prima di considerare gli altri oggetti. Ci credo che la signora Eva se ne sia andata; ha un cuore troppo generoso per stare con uno come lui, constatò Laura osservando il fiore conservato tra le pagine. Questa sciarpa deve averla usata per incontrare l’avvocato divorzista! Senza rendersene conto aveva sorriso nel pensare allo smacco del Signor Serri: la moglie, che sulle pagine della cronaca locale appariva come un agnellino sottomesso, lo avevo lasciato e ora lui era così disperato da chiedere aiuto a una detective dei sogni.
Grazie alla capacità di indagare durante il sonno, Laura nel corso degli anni aveva scoperto bugie, smascherato tradimenti e persino ritrovato gatti scomparsi. Amava il proprio lavoro, ma spesso i suoi clienti erano così disperati che lei non aveva il coraggio di farsi pagare. Con un uomo tanto spocchioso come il Signor Serri non si sarebbe posta alcun problema.
“Mi dica, ha sognato la mia Eva?” Chiese il signor Serri il giorno dopo.
“Sì.”
“E si può sapere che faceva, di grazia?”
Laura si schiarì la voce nel tentativo di prendere tempo ed evitare di mandarlo a quel paese: “Questa notte in sogno ho visto la signora Eva mentre preparava della pasta fresca.”
“Certo, e io sono l’imperatore.”
“Mi lasci finire signor Serri.”.
“Non si disturbi ad aggiungere altro, Signorina Laura. Quello che Lei dice è impossibile: Eva non sa cucinare. E comunque il suo aiuto non mi serve più. Il mio investigatore privato ha appena scoperto che Eva si trova a Firago e ora so dove andare a riprendermela!”.
“Può essere che oggi sia a Firago ma lei lavora in centro a Vanzanto, in un negozio di pasta fresca! E c’è anche la sorella con lei!”
“Ma che cosa si inventa? La mia Eva non parla da anni con quella fallita di sua sorella”.
Laura si permise di controbattere ma il Signor Serri non volle sentire ragioni: “Si tenga pure l’assegno d’anticipo. Potrebbe servirle per comprare un materasso che le faccia fare dei sogni più realistici! Lei con me ha chiuso”.
Nei giorni seguenti Laura si sentì combattuta: aveva bisogno di soldi, ma non si decideva a portare in banca l’assegno del signor Serri. Non le piaceva l’idea di aver guadagnato qualcosa senza aver portato a termine il proprio lavoro e, a malincuore, decise farne a meno. Come risarcimento per il disturbo si sarebbe accontentata del libro della signora Eva e, prima di andare a dormire, ne lesse qualche capitolo. Lo aveva fatto solo per il piacere della lettura eppure Eva le apparse in sogno. Era raggiante e, insieme alla sorella, alzava la saracinesca di un negozio di pasta fresca, il loro negozio. Si erano riappacificate dopo tanto tempo e, con i soldi ereditati dalla nonna, avevano realizzato un desiderio che avevano fin da bambine.
Il mattino seguente Laura ricevette una telefonata del signor Serri: “Signorina, non ci crederà mai. Ho visto mia moglie a Vanzanto, come Lei mi aveva detto.”
“E a cos’altro non dovrei credere? Che la signora Eva va d’accordo con sua sorella, che ha un negozio di pasta fresca oppure che da divorziata è più felice?”.
“Signorina Laura ho telefonato solo per dirle che domani il mio autista le porterà un secondo assegno per finire di pagare il Suo compenso”.
“Immaginavo. È stato l’ultimo sogno che ho fatto questa notte”.
“Perfetto. Sa già tutto”.
“So tutto, quindi non s’affanni a chiedere scusa. Ho sognato questa nostra telefonata e so che Lei non lo farà”.
Valutazioni Giuria
15 – LA DETECTIVE – Valutazione: 20 Giud.1: troppo ricorso alla necessita di spiegazione durante il testo appesantisce la lettura Giud.2: testo non di facile lettura. Alcune affermazioni del personaggio da rivedere. Giud.3: Frizzante, spiritoso, fila via liscio. Originale la trovata della detective dormiente. Giud.4: La punteggiatura non è sempre corretta. Che il sig. Serri si scandalizzi davanti all’improbabilità che la moglie cucini, è inverosimile, stante che decida di contemplare un’investigatrice dei sogni. Viene inoltre definito disperato, ma dai suoi dialoghi non traspare disperazione, piuttosto boria e distacco. Apprezzabile la fantasia e lo sviluppo dell’intreccio, grazioso il finale, ma manca un po’ di spessore e credibilità in tutta la narrazione. “apparse” un errore grammaticale grave in un concorso letterario. |
Finì per addormentarsi dopo una giornata inattesa, inaspettata e determinante.
Ludovica non avrebbe mai pensato, quella mattina dell’8 gennaio, che avrebbe potuto scegliere di stravolgere la sua vita.
Una mail. Una semplice mail, la fautrice della svolta, il possibile driver del cambiamento e dell’opportunità inattesa…
Nel mese di agosto la ragazza, un po’ per gioco, un po’ per curiosità aveva inoltrato la sua candidatura per un lavoro presso la sede cinese di una famosa azienda di moda internazionale.
Una decisione dettata sia dall’interesse concreto che dalla curiosità.
Amava il fashion system, lo conosceva, ma solo come teorica perché lavorava in questo campo come ricercatrice presso un’università milanese.
Aveva avuto numerosi e proficui confronti con realtà impegnate nel campo, ma il mondo puramente aziendale era a lei completamente ignoto. Le dinamiche aziendali interni ed operative erano per lei tanto sconosciute quanto affascinanti.
Nonostante il desiderio di approfondire, di affrontare e vedere il mondo moda dal suo centro, non aveva mai provato ad “entrarci”; il suo ruolo da ricercatrice, tutor universitaria le piaceva e le dava, comunque, la concreta possibilità di imparare e d’interloquire con esperti di settore.
Quel 26 agosto Ludovica aveva però inoltrato la sua application.
Un gesto facile e veloce, fatto quasi senza riflettere.
Una scelta istintiva, ma voluta sebbene non con completa consapevolezza.
Una decisione che aveva, almeno in parte, sottovalutato poiché, una volta compiuto se ne era “dimenticata”, accantonandola.
Un atto dettato dal semplice coinvolgimento nella routine quotidiana.
Quel giorno, con quella mail, Ludovica si trovò costretta, volente o nolente, a vivere un salto nel passato, a quel 26 agosto.
Probabilmente si era completamente dimenticata di aver inoltrato la domanda.
Non cercava lavoro.
Era felice. Non era priva di stimoli.
Aveva solo tante curiosità e aspirazioni, ma quelle erano – così come sempre – il vero e pieno motore della sua vita.
Così come tutte le mattine Ludovica aveva effettuato l’accesso alla mail.
Un indirizzo non noto, il cui nome le revocava qualcosa, in modo nebuloso e vago.
Non si pose troppi problemi, aprì la mail trattandola come una normale e tradizionale comunicazione.
Non sapeva cosa contenesse e nemmeno aveva l’aspirazione che questa avrebbe potuto celare un importante cambiamento della sua vita.
Aprì la mail, la lesse velocemente. Era in inglese. Nel corpo del documento veniva posto all’attenzione l’allegato.
Una lettera su carta intestata della società di moda con sede in Cina. Non era pubblicità, non era una comunicazione commerciale, non era nemmeno una proposta di colloquio.
Era un contratto.
Una possibilità di assunzione a tempo indeterminato.
Posizione dirigenziale per la divisione marketing e strategia.
Ludovica iniziò a collegare i pezzi e la sua mente tornò al 26 agosto e all’annuncio.
Il puzzle si stava completando.
Rileggeva il documento e un senso di felice soffocamento la invase. Non sapeva cosa fare. Scelse di provare ad ignorare il documento, così come se è non esistesse.
Impossibile.
La sua mente vagava nel futuro.
Cosa fare era il quesito che l’assillava.
Per tutta la giornata Ludovica provò ad accantonare il problema o, meglio, l’opportunità.
Finalmente riuscì a chiudere gli oneri lavorativi e le scadenze. Poteva concentrarsi sul resto.
Si preparò un caffè americano e cominciò a navigare online. Era affascinata, felice, ma la paura sovrastava la positiva emozione.
Non se lo aspettava.
Non era calcolato.
Come avrebbe potuto gestirlo?
Un senso d’ansia l’avvolse. Cosa poteva fare? Cosa doveva fare?
Non riusciva a darsi l’ambita risposta.
Aveva tempo, un mese per rispondere.
Aveva paura.
Aveva paura di desiderare di provare.
Pianse, un fiume di lacrime liberatorio. Il senso di terrore e la stretta al cuore le venivano meno, pian piano.
Accese la tv, si pose sulla poltrona vicino al caminetto che emanava un piacevole e caldo tepore.
Chiuse gli occhi e la sua mente la porto in volo, in viaggio, verso un sogno, verso un possibile domani e futuro, verso qualcosa di ancora inatteso e di forse possibile.
Iniziò a rilassarsi e finì per addormentarsi.
Valutazioni Giuria
16 – Provare a sognare – Valutazione: 24 Giud.1: linguaggio semplice con frasi brevi, ma ben articolato, la narrazione risulta piacevole Giud.2: semplice e lineare, di facile lettura. Molto apprezzato il vocabolario basico. Giud.3: Semplice, un po’ ripetitivo, senza sorprese. Giud.4: Lo spazio di 4173 battute è mal sfruttato: una lunga, troppo lunga premessa per poi… addormentarsi. Il racconto non presenta grossi errori, ma nemmeno scossoni emotivi che, parrebbero essere affidati più allo spezzettamento dei periodi, che alla proprietà narrativa. Dalla premessa mi sarei aspettato inoltre un evento esterno a sconvolgere la protagonista, non quello che in realtà era la risposta ad un proprio tentativo di cambiamento. Poco plausibile inoltre che tramite mail ottenga un posto da dirigente, in un’azienda multinazionale, per giunta con un cv non proprio da top manager. “così come se è non esistesse” un errore grave, vista la brevità del testo ed il contesto di un concorso letterario. |
Finì per addormentarsi, stremata, sul divano. Il viaggio era stato lungo, quella mattina, Matilde era partita dalla sua casa al mare per rientrare nella città dove lavorava e non ne aveva nessuna voglia. Le vacanze di Natale non le erano servite per riposarsi, né tanto meno l’avevano ricompensata di tutti quei mesi di freddo e solitudine, l’unica consolazione era stata poter passare un po’ di tempo con l’anziana madre, ma si sentiva ancora più stanca e sconfortata dalla consapevolezza che altrettanti lunghi mesi sarebbero passati prima del suo ritorno.
Era estenuante vivere in due case, in due città, avere due lavori e anche due amori, si sentiva, costantemente, divisa a metà, tra la sua vecchia vita, che non riusciva a lasciar andare e quella nuova, che le faceva sempre più paura.
Negli ultimi tre anni, aveva fatto avanti e indietro tra il posto dove era nata e il posto dove aveva scelto di vivere, dove era finita per poter fare l’unico lavoro adatto a lei.
Si era convinta che la vita che faceva le andasse bene, ma era solo un alibi per continuare a non scegliere.
Tornata a casa, aspettava di ricevere un segno, qualcosa che, finalmente, le avesse indicato la strada giusta, magari notare che una delle sue piantine non era riuscita a reggere al freddo glaciale di quei giorni e si fosse lasciata morire o accorgersi di aver dimenticato un pomodoro nel frigo, solo ad attendere, invano, qualcuno che, finalmente, l’avrebbe mangiato; ma niente di tutto questo, era tutto in ordine, era solo lei che si sentiva sempre più fuori posto, sempre meno parte di quella vita.
Lasciò cadere il cappotto sul divano, adagiò la valigia sul parquet e accese la radio, il silenzio era insopportabile.
Nonostante la stanchezza, provò a darsi da fare, svuotare la valigia, uscire a fare la spesa,tutte cose che sapeva di dover fare, ma quella sensazione di inquietudine non l’abbandonava, provò a non pensare, ma non ci riuscì, continuava a chiedersi perché mai fosse tornata e quale fosse il motivo per il quale non si era ancora decisa a mollare tutto e andarsene via.
Se non era capace di scegliere, se non sentiva quella spinta per ritornare all’ovile o per restare nella sua nuova casa, probabilmente, nessuna delle due possibilità era quella giusta.
Trovarne una terza, le sembrò l’unica cosa da fare e non avrebbe più aspettato.
Passò in rassegna la rubrica telefonica, doveva chiamare Marco per avvertirlo che era arrivata, sana e salva, ma l’idea non la sfiorò neanche, non aveva nessuna voglia di vederlo e poi, per dirgli cosa, non era quella la serata giusta per confessargli che la loro storia era finita, che non riusciva neanche ad immaginarsi un futuro e che, soprattutto, non era con lui che lo voleva, non lì e, forse, da nessun’altra parte.
Chiamare Laura e provare a sentirsi meno sola, poteva invitarla a cena, un bicchiere di vino e le cose, forse, le sarebbero sembrate meno brutte, ma era troppo stanca e non aveva neanche fatto la spesa.
Mentre scorreva i numeri sul cellulare, il dito le si fermò sul nome di Silvia,
Silvia era stata la sua migliore amica per anni, erano cresciute insieme, ma non la sentiva da un sacco di tempo, le loro strade si erano divise e a poco a poco si era abituata a quell’assenza, non ricordava neanche più il motivo di quell’allontanamento, la vita, gli impegni, città diverse e così, bah, perdi qualcuno che fino a poco tempo prima ti sembrava fondamentale e non fai nulla per recuperare.
Cercò carta e penna, non ci mise molto, e così di getto, iniziò a scrivere alla sua vecchia amica. Le raccontò degli ultimi anni, di quella sensazione di smarrimento e confusione che si portava addosso da troppo tempo, come un vestito che non scegli più, ma che ti cade addosso perfettamente, le parlò di Marco e dei tanti tentativi che aveva fatto per trasformare quel sentimento in amore, le confidò che la scintilla non l’aveva mai sentita e che, forse, non c’era più nulla da salvare; le disse del lavoro, quel lavoro che amava così tanto da averlo messo prima di tutto, prima dei suoi sogni e di ogni suo desiderio.
Le rivelò e, certamente, lo annunciò a se stessa, che aveva capito, c’era una terza strada e voleva ricominciare da lì. Piegò il foglio, lo infilò nella busta e prenotò il primo volo disponibile per Parigi. La lettera a Silvia l’avrebbe consegnata a mano, sarebbe arrivata lì e si sarebbero abbandonate a chiacchierare davanti ad un caffè, come avevano sempre fatto.
Valutazioni Giuria
17 – Divisa a metà – Valutazione: 24 Giud.1: la storia di Matilde che cerca una motivazione a non mollare tutto e trovare qualcosa di nuovo per ricominciare è ben raccontato e con linguaggio scorrevole Giud.2: bella la motivazione del racconto, ma manca qualcosa. Lascia troppe domande al lettore. Giud.3: Peccato per gli errori grammaticali, il dilemma della scelta tra due vite è ben formulato Giud.4: Un congiuntivo al posto di un condizionale ed un altro errore di consecutio, non sono accettabili in un concorso letterario. a parte questo, consiglio di avere come obiettivo, nello scrivere un racconto, quello di tenere il lettore col fiato sospeso, di coinvolgerlo ed appassionarlo, di fargli desiderare di leggere il periodo seguente e scoprire come si svilupperanno le vicende. Un aneddoto, un discorso diretto, una metafora… La lingua italiana è meravigliosa e potente! |
Finì per addormentarsi sulla poltrona davanti alla finestra. Il binocolo appoggiato sulle gambe scivolò a terra e fece rumore ma ciò non fu sufficiente a svegliarlo, ci riuscì solo il camion della nettezza urbana, poco dopo le sette del mattino seguente. Allungò un braccio e scostò le tende con l’atteggiamento di chi volesse sorprendere qualcuno.
Bardsey era ancora lì, misteriosa avvolta nella nebbia, non distante dalla costa nord del Galles.
L’isola nel Medioevo divenne un luogo sacro, tant’è che due pellegrinaggi all’abbazia garantivano l’indulgenza plenaria. Dalla stanza Sam poteva scorgere il vecchio monastero, il cui cimitero parrebbe essere luogo di sepoltura di numerosi santi e secondo alcuni, anche di Re Artù.
Da Dover si era spinto fin lì perché il suo datore di lavoro gli aveva assegnato un compito ben preciso, appurare la presenza della bara di cristallo nella quale è sepolto Mago Merlino. Del resto i lettori di Mystery Magazine a questi argomenti sono molto interessati e lui doveva accontentarli.
Trascorse la mattina a passeggiare per le vie del villaggio in cerca di informazioni inerenti l’isola. Ebbe modo di chiacchierare con il proprietario dello Skirrid Mountain Inn, per definizione il più antico pub del Galles, un luogo veramente suggestivo, tenuto in piedi da travi di quercia ricavate da velieri del 1300. Mr Kirk non fece altro che raccontare di quanto fosse infestato dai fantasmi il suo locale. Riferì di aver visto, una sera mentre lavava il pavimento, la Dama Grigia al bancone con una pinta di birra, ma anche delle numerose altre volta che la vide trapassare la porta d’ingresso. Sam non lo prese sul serio, come avrebbe potuto, sembrava una strategia per farsi pubblicità, in fondo era lì per ricercare fatti suggestivi ma con un fondamento storico e non per ascoltar leggende. Prima di salutarlo si informò su come noleggiare una barca per raggiungere l’isola. Non ricevette alcuna indicazione in merito ma venne indirizzato a contattare un vecchio marinaio che organizzava piccoli tour turistici. Trovò Phil esattamente dove gli era stato indicato, al porticciolo, intento a scolarsi una bottiglia di Macallan e non faticò a convincerlo a farsi dare un passaggio fino alla spiaggetta di Bardsey. Il tragitto durò non più di un quarto d’ora, Phil, avendo tempo si offrì di avventurarsi con lui. Si misero in marcia uno a fianco all’altro sull’unico sentiero che conduceva al monastero. Il paesaggio che si mostrava ai loro occhi aveva le caratteristiche delle Colline Rosse (Red Cuillin) il cui granito era stato modellato dal vento e dalla salsedine così da conferire allo skyline dell’isola una sagoma tondeggiante. Il marinaio non smise per un attimo di raccontare i suoi vissuti ed anche lui, come aveva fatto Mr. Kirk, non fu da meno nel narrare storie fantastiche di pirati, forzieri e tesori ben nascosti in fondo a grotte marine. Era tutto così affascinante agli occhi di Sam ed in quel contesto gli avvenimenti fantastici non risultavano per nulla stonati.
Finalmente arrivarono al vecchio cimitero. Un luogo magnetico avvolto dal mistero e da una bassa coltre di nebbia dalla quale spuntavano le sagome delle antiche tombe. Una figura eterea dalla lunga tunica bianca procedeva nella loro direzione. Raggiunti i due avventurieri si presentò come Ambrosio, il frate, nonché guardiano delle anime. Fece loro da oratore per tutto il tempo e si mostrò molto ospitale. Quando Sam chiese notizie di Merlino, Ambrosio rispose sbrigativo che era frutto di una diceria di paese. Ormai infreddoliti e rassegnati gli uomini rientrarono. Una tappa allo Skirrid Mountain era d’obbligo, se non altro per riscaldarsi con un buon whiskey.
Mr. Kirk stava conversando con un cliente, Sam, chiedendo il permesso, si intromise nella conversazione, raccontando di essere riuscito a procurarsi da Phil il passaggio sull’isola ma di aver appreso da Fra Ambrosio dell’inesistenza della tomba di Merlino. L’oste ebbe un attimo di esitazione ma poi dichiarò: ”Phil questo pomeriggio non si è mai mosso da questo sgabello”. Sam si voltò verso l’uomo col berretto da marinaio, il quale salutò con un cenno della mano. Kirk proseguì: “l’isola è disabitata, il monastero è abbandonato almeno da duecento anni”.
Valutazioni Giuria
18 – Sembrava tutto così vero – Valutazione: 30 Giud.1: racconto nel quale realtà dei luoghi e fantasia si fondono insieme , i personaggi sono ben descritti e la narrazione è coinvolgente Giud.2: bello l’incipit, ma poi le descrizioni non sono accurate. Interessante la scelta del Galles, di re Artù. Lascia troppo alla fantasia del lettore. Giud.3: Lineare, fluido, scritto bene, ambientazione suggestiva, sorpresa finale. Attenzione però all’uso di punti e di virgole. Giud.4: |
Finì per addormentarsi anche Helga, raggiungendo tra le braccia di morfeo le sorelle e il fratellino che già sorridevano sognanti. Sua moglie era lì accanto, con quell’espressione severa e sorridente che anni prima lo aveva incuriosito e poi fatto innamorare. Una famiglia numerosa, cinque figlie e un maschio, ma la piccola Helga Susanne, la primogenita, era rimasta la sua preferita, ma su quello, ovviamente, non aveva mai fatto propaganda. Sorrise anche lui, mentre le accarezzava i capelli biondissimi, ripensando a quanti momenti pieni di felicità e amore avevano vissuto nel mondo che aveva costruito per loro. Quanta gioia gli dava vedere le sue bambine sorridere ai passanti che si fermavano a salutarli, mentre tutti insieme in macchina salivano verso la loro casa in montagna! Gli alleggeriva il cuore vederla ora così serena.
Sua moglie rimboccava le lenzuola agli altri e accarezzava le loro bocche socchiuse. Quando arrivò vicino a loro la baciò sulle labbra prima di lasciare la stanza. Avevano fatto un bel lavoro, anche in quel momento. Non era il loro ampio appartamento nel centro della capitale, né la loro residenza sui monti. Erano in una stanza di cemento, con poche finestre e un arredamento che definire minimale sarebbe un complimento; eppure anche in quella situazione erano riusciti a creare per i loro figli una parvenza di tranquillità. Erano dei bravi bambini, non avevano fatto obiezioni quando la loro mamma aveva detto che era ora di andare a letto.
Pensare che avrebbero potuto essere a teatro insieme, al ristorante o meglio ancora a casa intorno al camino, sdraiati sul loro bel tappeto, e invece erano costretti in quel tugurio per colpa del nemico. Quello che per anni si era affacciato ai loro confini senza riuscire a valicarli, ma che ora con la complicità di un’alleanza di folli era arrivato fino a loro. Erano riusciti a rovinare i suoi sforzi e le sue speranze di un futuro finalmente luminoso e pacifico. La pace per cui avevano combattuto, tutti insieme, per portare finalmente un ordine definitivo e stabile per tutti. Di quel sogno ora non rimanevano che esplosioni e calcinacci a ricoprire le strade che avrebbero dovuto portare il mondo alla forma alla quale era destinato. Il rumore degli spari era cessato, i soldati erano scappati o erano morti nel tentativo di difendere la loro patria? Non c’era modo di saperlo. Si ritrovò nella stanza con sua moglie. Si abbracciarono e lei pianse. Dodici anni di matrimonio, sei figli, la guerra nella loro città da ormai un mese ed era la prima volta che la vedeva piangere. Sentiva il suo profumo mentre la stringeva a sé:
<<Perché ci fanno questo?>> chiese con gli occhi gonfi di lacrime. La voce faticava a uscire dal petto pesante di tristezza. Aveva creduto alle bugie che lui aveva messo in giro. Magda, sua moglie, non era riuscita a distinguere le notizie dalla realtà. Era stato bravo. Non poteva cambiare il mondo, ma era riuscito, manipolando la verità come solo lui sapeva fare, a dare alla sua famiglia qualche giorno di serenità in più.
Nella stanza accanto solo silenzio. I bambini erano nella stessa posizione in cui li avevano lasciati, ma non si sentiva più il suono del loro respiro. Questa volta non era colpa dei cingolati. Baciò la sua consorte e si avvicinò al misero comodino.
Sopra il mobile una scatola vuota da cui fuoriusciva ancora un forte odore di mandorla, dentro il cassetto una P38.
Controllò che la pistola fosse carica, si avvicinò alla moglie tenendo l’arma dietro la schiena. Le baciò la mano e la volse di spalle. Due colpi alla nuca prima di puntare l’arma su di sé. Buio.
Quando i russi arrivarono al bunker dove si nascondevano, quello che trovarono furono sei bambini morti e due corpi carbonizzati. Otto morti in più nel conto delle oltre sessantacinque milioni di vittime di un conflitto mondiale che la follia nazista aveva perpetrato, in gran parte a causa del ministro della propaganda e plenipotenziario della guerra totale Joseph Goebbels.
Valutazioni Giuria
19 – Una famiglia – Valutazione: 24 Giud.1: la trama del racconto è interessante, i sentimenti dei genitori emergono facilmente, mentre Helga, che apre il racconto, e i suoi fratellini risultani mancanti Giud.2: Giud.3: Trasmette i sentimenti di amarezza, rimpianto, quieta dignità, mancano la rabbia e la disperazione connaturate ad un gesto così estremo. Giud.4: Un conto è lasciare intuire e accompagnare il lettore tramite indizi, accenni, metafore, un conto è abbandonare chi legge a trarre le conclusioni che l’autore aveva in mente. L’intreccio è sproporzionato: una grande premessa ed un rapidissimo crollo sul finale. |
(ma poi si divertisse verament?)
Finì per addormentarsi al dodicesimo racconto. Poco meno della metà, accidenti! La settimana prima era riuscito a resistere almeno fino al ventesimo.
Il poveretto dormiva sonni beati e scevri dalla principale preoccupazione di quei giorni: finire di leggere tutti i racconti e valutarli, così come era richiesto dall’incarico che aveva accettato, quello di giudice in un concorso letterario.
Si svegliò nel cuore della notte e, ancora intontito, guardò lo schermo del pc e ricordò di aver lasciato in sospeso l’infausto compito.
“Ma chi me l’ha fatto fare?” si ripeteva da settimane. Del resto, le lettere erano il suo forte, i numeri meno, e quando aveva ricevuto la proposta, non aveva fatto il conto che, se una trentina di partecipanti avessero inviato il loro racconto ogni settimana per tutte e dieci le settimane di durata del concorso, avrebbe dovuto leggere un totale di trecento scritti.
Trecento. Bello eh, però poi c’era anche il resto della vita, che scorreva comunque, per i fatti suoi: lavoro, famiglia, il cane da portare a spasso, la spesa da fare, le uscite con gli amici…ah no, quelle no, ché fuori c’è il Covid e si sta tutti a casa.
Comunque il tempo ha una durata finita, 24h al giorno senza considerare che parte della giornata dovrebbe essere dedicata al sonno. Certo qualcuno avrebbe potuto obiettare che a livello generale il tempo non esiste, ma per lui, in quella circostanza il tempo esisteva, eccome se esisteva! E scarseggiava pure.
Si rese conto che perdendosi in quei pensieri non sarebbe andato da nessuna parte.
“Concentrati, sei quasi a metà”, si disse.
Ma il suo cervello e i suoi occhi si rifiutavano di collaborare. Non riusciva più a distinguere un punto da una virgola e le parole si mescolavano in un’unica striscia nera e sfocata. Che poi, finito il lavoro di valutazione, gli sarebbe pure toccato sorbirsi le proteste e la richiesta di spiegazioni da parte dei partecipanti, ognuno desideroso di fare giustizia al suo mondo interiore, al suo stile, alla sua creatività. Ah, le insicurezze, che brutti scherzi giocano! Lo sapeva bene, la scrittura era anche la sua passione e, a sua volta, era stato dall’altra parte della barricata.
Raccolse le forze, aprì la pagina con il tredicesimo racconto e iniziò a leggere: “Finì per addormentarsi al dodicesimo racconto. poco meno della metà, accidenti! La settimana prima era riuscito a resistere almeno fino al ventesimo…“. Era la storia di un giurato di un concorso letterario che non riusciva a stare sveglio abbastanza a lungo per leggere e valutare tutti i racconti in gara. E niente, finì per riaddormentarsi.
Proprio dall’altra parte della barricata, pochi giorni prima, il povero aspirante scrittore si era arrovellato sul nuovo racconto da presentare alla giuria e si era chiesto perché mai si fosse iscritto a un concorso letterario che prevedeva l’invio di dieci racconti, uno ogni settimana. Aveva esaurito le idee alla quinta. Ma ecco! L’illuminazione che aveva tanto cercato, quella notte arrivò. “Scriverò di un giudice che deve valutare i racconti di un concorso letterario ma si addormenta continuamente. Che idea brillante!”, pensò lui.
E solo lui.
Caro giudice, adesso che il racconto è finito puoi addormentarti anche tu. Se l’hai già fatto, sogni d’oro ugualmente! Sogna di draghi e principesse, di amori perduti e ritrovati, di misteri risolti o lasciati sospesi, di crisi esistenziali, di grandi saghe familiari, di gioventù e vecchiaia, di guerre e di paci, di fantasmi e cappotti, di diavoli e margherite, del bene e del male, di inizi e di fini.
…ma non scordarti la valutazione!
Valutazioni Giuria
20 – Divertissement notturno – Valutazione: 30 Giud.1: Ironico/realistico? sicuramente! Geniale la narrazione che di una realtà possibilmente autobiografica ne fa un racconto piacevole e contemporaneo. Il linguaggio è funzionale ed appropriato. Giud.2: Belli i rimandi autobiografici, il “mettersi dalla nostra parte”. Buono l’uso del vocabolario. Molto leggibile. Giud.3: Ironico, spiritoso, ammiccante, sdrammatizza il nostro ruolo e si legge da sé. Giud.4: L’idea è graziosa (anche se non geniale) il componimento scorre senza intoppi od errori (anche se non brillante). Insomma è abbastanza, se ci si accontenta e viste le capacità, tutto sommato non mi accontenterei…. Tra i migliori come capacità narrativa al servizio della creatività. |
Finì per addormentarsi, cullato dal rumore delle onde che si infrangevano pacificamente sulla battigia. Quel dolce suono gli ricordava la sua infanzia ad Okinawa, prima che la sua famiglia si trasferisse a Tokyo.
Era solo un bambino, abituato a vivere in mezzo alla natura, a trascorrere oziosi pomeriggi in spiaggia giocando con gli amici, a salutare i pescatori amici di suo padre che lo conoscevano da quando era nato mentre camminava in giro per il paesino, quando i genitori gli avevano annunciato che la famiglia si sarebbe trasferita nel giro di un mese.
Perchè?
E’ per il lavoro di tuo padre. Capirai quando saremo là.
Ma perchè? Non può lavorare qui?
Sei troppo piccolo per capire. Vedrai.
Eppure anche una volta cresciuto, al liceo, all’università, non aveva mai capito perchè suo padre avesse accettato un lavoro in quella caotica metropoli seppellita nel cemento che gli faceva venire il mal di testa.
E lui aveva giurato a se stesso che finiti gli studi sarebbe tornato a Okinawa, a Naha. Ma non era così semplice. A quanto pareva sempre più gente si trasferiva a Tokyo e sempre più gente abbandonava la sua isola a causa della scarsità di lavoro.
Così fece l’unica cosa che gli venne in mente. Si buttò a capofitto nel lavoro, risparmiando ogni centesimo, per cinque anni. Imparò il mestiere di barman, pensando che avrebbe potuto svolgere lo stesso impiego a Naha. Era difficile, gli orari erano lunghi ed estenuanti, ma la sua volontà era incrollabile. Viveva coi genitori e dava loro una parte del suo stipendio, ma anche così riuscì ad accumulare una bella somma di denaro.
Certo doveva ammettere che col tempo aveva imparato ad apprezzare un po’ di più Tokyo, ma sapeva che non si sarebbe mai ambientato veramente. Le vacanze trascorse ogni anno dai nonni gli ricordavano quanto gli mancasse il mare, l’atmosfera, il ritmo di vita completamente diverso da quello della capitale del Sol Levante.
E alla fine, poco prima del suo ventottesimo compleanno, tornò a Naha.
______________________________________________________________
Finì per addormentarsi, cullato dal rumore delle onde che si infrangevano pacificamente sulla battigia.
Era tutto come quando era piccolo.
Ma era solo.
_______________________________________________________________
Ci mise un po’ di tempo ad ambientarsi nuovamente. Pian piano ritrovò alcuni amici d’infanzia che iniziò a frequentare, tutti sorpresi dal suo ritorno, quasi tutti invidiosi che avesse vissuto a Tokyo.
Lui non capiva. Non avrebbe mai augurato a nessun abitante di Okinawa di doverla lasciare e di dover vivere in una città affollata, rumorosa, malinconica come Tokyo.
Conobbe una ragazza e nel giro di un anno la sposò. Furono benedetti con tre bambini, tutti in perfetta salute.
Parlava poco di Tokyo con loro e rimase deluso quando scoprì che i due maggiori, due gemelli, avevano intenzione di frequentare l’università laggiù.
Rimase ancora più deluso quando entrambi trovarono lavoro a Tokyo.
Col passare degli anni, però, si rendeva conto sempre più che non poteva interferire con le decisioni della sua prole ormai adulta e a malincuore accettò la loro lontananza.
_______________________________________________________________
Finì per addormentarsi l’ultima volta in una calda sera d’estate, dopo una cena leggera in cui quasi non toccò cibo tranne che per l’ottima zuppa di miso della moglie.
Si addormentò e sognò la sua amata isola, senza rendersi conto che era l’ultima volta che l’avrebbe vista.
Valutazioni Giuria
21 – Finì per addormentarsi – Valutazione: 21 Giud.1: lo stile del racconto è buono e scorrevole la lettura, trovato non molto avvincente Giud.2: lettura scorrevole, ma senza suscitare molto curiosità nel lettore. Giud.3: Senza infamia e senza lode, ma piatto al limite della noia. Giud.4: “non aveva mai capito perchè suo padre avesse accettato un lavoro in quella caotica metropoli seppellita nel cemento che gli faceva venire il mal di testa.” manca la divisione delle subordinate. Il discorso diretto manca di segni di interpunzione: errori troppo gravi per un giudizio positivo. Interessante l’idea di dividere la storia in momenti della vita (anche graficamente), ma la trattazione è un po’ superficiale. |
Finì per addormentarsi…
Ormai non gli importava più nulla.
Dopotutto, se ad uomo togli la famiglia, il suo mondo è distrutto.
A Tom era accaduto proprio questo, pertanto non aveva più interesse a vivere.
Quella fatidica giornata iniziò come molte altre, Tom salutò sua moglie Elena e la figlia Anna.
Trascorse tutto il giorno in ufficio e, una volta finito l’orario lavorativo, pensò a quale buona cena lo attendeva a casa.
Arrivò nel vialetto di casa, posteggiò la macchina e s’incamminò verso l’entrata secondaria dell’abitazione.
Entrato in casa, notò subito il buio e il silenzio che regnavano. Anna era sempre stata euforica nel ricevere il rientro di suo padre e Elena a quell’ ora non si perdeva mai il suo programma preferito alla televisione.
Tom iniziò a cercare in casa, chiamando la moglie e la figlia e accendendo le luci di ogni stanza che controllava, ma non trovò nessuno.
Infine si accorse che la porta principale della casa era aperta.
Il sangue gli si gelò nelle vene, iniziò a sudare freddo e la testa gli si svuotò di colpo. Il terrore era mostruoso, ma Tom riuscì a tornare in sé e, preso il telefono, chiamò la polizia.
La centralinista disse che entro pochi minuti sarebbero arrivate due volanti.
Quei minuti sembrarono un’ eternità.
Arrivata sul posto la polizia iniziò a fare domande , ad esaminare la casa e formulare ipotesi.
Tom non aveva nemici, era un semplice impiegato che non aveva mai pestato i piedi a nessuno e anche il suo passato era immacolato; il che rendeva ancora più difficile spiegare la scomparsa di Elena e Anna.
Inoltre non c’erano né segni di lotta, né di effrazione ed era tutto perfettamente in ordine; moglie e figlia sembravano scomparse nel nulla.
Tom e la polizia controllarono tutta la città per tutta la notte, ma senza ottenere risultati. Il giorno seguente furono interrogati i vicini, si cercarono testimoni, ma nulla.
Allora vennero controllate le telecamere nella zona, ma anche queste non furono in grado di svelare il mistero.
Furono fatti annunci sul web, sui social e in televisione, ed ogni parente, amico e concittadino della sventurata famiglia diede il suo aiuto, tuttavia, nessun risultato fu raggiunto.
I giorni diventarono settimane, le settimane mesi ed infine trascorsero anni senza che Tom riuscì a sapere che fine avesse fatto la sua famiglia.
Ormai la sua disperazione era tale, che era disposto anche ad accettare qualsiasi notizia.
Ma non la ebbe mai.
Dopo anni di ricerche senza risultati, Elena ed Anna rientrarono nella classificazione di “morte presunte”.
Tom era distrutto.
Per aveva una risposta, sacrificò tutto, gli era rimasta solo la macchina, che usava per cercare la moglie e la figlia.
Tuttavia, dopo la dichiarazione di morte presunta della sua famiglia, Tom perse ogni speranza.
Quella sera parcheggiò davanti a quella che era stata casa sua.
Dove la sua vita era finita.
Chiuse tutti i finestrini e iniziò a pensare a quella sera di tanti anni fa.
Infilò un tubo di gomma in quello di scappamento dell’auto e ripensò a quando era entrato in casa, trovandola buia e silenziosa.
Rientrò in macchina, incastrando l’estremità del tubo di gomma nella fessura del finestrino, sigillandone la fessura restante.
Pensò a quando cercò per casa l’amata moglie e l’innocente figlia.
Accese il motore dell’auto.
Si ricordò dell’angoscia provata nel non trovarle.
Il fumo iniziò a riempire l’abitacolo.
Si ricordò quando notò la porta aperta..e le vide. Elena e Anna.
Tom le abbracciò, scoppiando a piangere.
Il fumo si fece sempre più intenso.
Cenarono insieme e poi si sedettero tutti e tre sul divano, per vedere un bel film su Netflix.
Tom sorrise, forse era solo un sogno, o era accaduto davvero? Non gli importava.
Era finalmente con la sua famiglia, niente aveva più importanza.
Chiuse gli occhi, per non abbandonare quel sogno, finì per addormentarsi e non si svegliò mai più.
Valutazioni Giuria
22 – L’ULTIMO SOGNO – Valutazione: 18 Giud.1: il racconto chiaro e scorrevole, è riuscito a creare quello stato d’ansia che rende bene l’idea e che mette a disagio il lettore Giud.2: racconto che suscita molte reazioni nel lettore. Il salto cronologico nella narrazione non l’ho molto aprrezzato. Finale scontato. Giud.3: “trascorsero anni senza che Tom riuscì a sapere” . Storia del tutto priva di originalità, scrittura infantile e per niente empatica. Giud.4: Il linguaggio povero causa una serie di fastidiose ripetizioni. La scomparsa non ha inizialmente indizi a sostegno : escono due volanti perchè al rientro a casa non trova le donne ad aspettarlo? alcune espressioni sono infelici: “non la ebbe mai”. Angoscia, terrore, disperazione e tragico sollievo vengono raccontate e non fatte vivere. |
Finì per addormentarsi alla scrivania mentre era ancora a lavoro col pc e nel frattempo che spegnevo tutti i programmi ne notai uno che m’insospettì “Our meet” non mi sembrava un programma da lavoro e la curiosità mi fece ladro.
C’era una conversazione aperta con un certo Antonio, la lessi e pensai che mia moglie stava cercando di evadere dal nostro matrimonio.
Ciò che non si deduceva e se avesse avuto un contatto fisico o per il momento solo virtuale. Improvvisamente giunse un messaggio:” Ciao come stai?”
Non mi sembrava corretto rispondere per capirne di più ma neanche mia moglie sembrava aver avuto rispetto di me. Cazzo! Mia moglie si sente con un altro dopo appena tre anni di matrimonio.
Decido di intrattenere la conversazione e a lungo andare capisco che non c’era stato alcun incontro sino ad allora ma continuava a parlare del progetto futuro. Purtroppo non potevo saperne di più ma riuscii a strappare un appuntamento, cancellai tutta la chat ed andai a letto.
Non chiusi occhio, all’indomani mia moglie sembrava tranquilla, non accennava alcun timore circa il fatto che avessi potuto scoprire la chat anzi mi preparò anche una gustosa colazione.
Come da routine andai a lavoro ma fremevo perché all’uscita avrei dovuto incontrare questo Antonio. Non avevo una strategia precisa ne ero sicuro di essere in grado di riconoscerlo.
Terminato l’orario lavorativo mi diressi al Paradise Caffè c’era una coppia molto acerba e un gruppo di amici ad un altro tavolo, dopo qualche minuto arriva un uomo elegante e fascinoso.
Diedi uno sguardo alla foto, era lui!
Si sedette al tavolo, sembrava tranquillo, decisi di prendere in mano la situazione:
“Salve, sono il marito di Angela”
“Ah salve Angela non è potuta venire?”
“Fa lo spiritoso?”
“Perché dovrei? Avevamo un appuntamento”
“lo so testa di cazzo ero io in chat”
“Mi scusi, perché sarei una testa di cazzo?
“Che intenzioni hai con mia moglie?”
“Oh forse c’è stato un equivoco”
“A sì! E quale sarebbe?
“Io e sua moglie stiamo progettando di istituire un’associazione per i diritti dei gay”
“ah mi scusi, stavo temendo il peggio”
“non si preoccupi, capisco”
“quindi lei…”
“si sono gay”.
Mi spiegò tutta la vicenda ma decidemmo di mantenere celato il tutto ad Angela. Nei giorni seguenti mi capitava spesso di pensare a quell’uomo, non so perché ma gli proposi di prendere un caffè.
Ci rincontrammo più di una volta c’era del feeling, lo reputavo un buon amico.
Ero abbagliato dal suo modo di fare tuttavia quel pensiero iniziava a farsi sempre più insistente ormai ci sentivamo quotidianamente.
Quella volta mi propose lui di vederci, solito posto, solito caffè ma questa volta prima di andar via mi baciò.
Cazzo ho baciato un uomo e non mi era dispiaciuto!
Qualche anno dopo la nostra relazione segreta proseguiva con molta passione al che decisi di confessare tutto ad Angela pensando potesse comprendere.
Andò su tutte le furie, prese un posacenere e mi spacco il sopracciglio facendomi cadere a terra dolorante
“maledetto, maledetto” e scappò via.
Il giorno seguente Angela confessò spontaneamente alla polizia di aver ucciso Antonio con ben quarantasette coltellate al torace per il puro piacere di farlo.
Valutazioni Giuria
23 – Lui o lei – Valutazione: 14 Giud.1: Narrazione di una storia poco avvincente. Finale semplice e mancanza di descrizione degli stati d’animo di Angela. Giud.2: racconto non molto godibile, qualche problema di gramamitca rende difficile la lettura. Interessante il tema scelto. Giud.3: “e nel frattempo che spegnevo”, “pensai che mia moglie stava”, in ogni periodo un tempo diverso, puntuggiatura e ortografia tutte sbagliate. Tema dell’orientamento sessuale trattato in modo assoutamente improprio. Giud.4: Tempi verbali errati ed alcuni errori grammaticali ne inficiano gravemente la valutazione. La storia di per sè si dipana in maniera poco sostenibile e con un lessico un po’ povero. |
Finì per addormentarsi tanto era stata quella serata noiosa e inesauriente. Durante le serate “gialle” i ristoranti erano chiusi così come i locali per aperitivi e quanto altro così decisero di ritrovarsi nella casa di Luca, single di mezza età ma con addosso ancora i profumi e gli odori di un bambino. Ne aveva ancora l’aria e anche i discorsi di serate consumate a Riccione con ventenni strafatte aveva tutto il sapore di un uomo non ancora cresciuto, ancorato a ricordi e esperienze mancate vissute ormai a cinquant’anni in piena crisi, quando ancora non sembra essere tutto perduto.
Francesca era andata lì con Laura, per provare a cambiare serata, per assaporare ancora il ricordo delle cene con gli amici anche se amici non erano. Che significato aveva avuto quella serata noiosa e infantile dalla quale fuggire e dalla quale, prima delle dieci, allontanarsi per un coprifuoco ancora attivo nella zona gialla.
L’unico aspetto positivo era il Covid che lei, Luca, Laura e Tommaso avevano e quindi, almeno per il momento, potevano stare tranquilli e non temere di ammalarsi di nuovo. Francesca era stata male veramente, quasi rischiando l’ospedale mentre Luca e Tommaso si erano annoiati per venti giorni relegati in casa come assassini. Laura aveva avuto solo qualche mal di testa e linea di febbre. L’unica che non era riuscita a rimpossessarsi di sapori e odori era Francesca che in queste serate sembrava essere in bilico tra l’invidia e la compassione.
Una serata trascorsa pensando: “Ma cosa ci faccio qui io?”. Un uomo con una figlia di ventiquattro anni che prova ancora piacere a correre dietro le giovani sciroccate che fingono di essere perse, di farsi o di stare per impazzire. L’altro, invitato come riempitivo, richiamato da un’agenda forse all’ultimo posto, era stato anche lui trascinato suo malgrado allettato dalla presenza di due donne forse, ma solo forse, interessanti.
“E’ tardi, dobbiamo rientrare” disse Francesca quando finalmente riuscì a prendere in mano il suo cellulare deposto nella borsa , per buona creanza e educazione.
“Ma chi ti ferma? “ rispondeva Luca sempre più immerso in quel misero cocktail che avevano sorseggiato e che tanto andava di moda. Francesca era stata sempre fuori dal mondo, le piaceva il buon vino e dei cocktail non conosceva nemmeno la base. “Cibo pessimo con pessimo alcol” pensò pasteggiando le micro porzioni di sushi che niente avevano da invidiare a due salsicce secche con crostini cotti sul fuoco e patè di fegato. “Con uno champagne via via” pensò Francesca assaggiando le mini porzioni “Ma con questo cockail semidolce è davvero un pugno alla buona cucina e al buon gusto, molto meglio le serate pazze a casa di Marco, almeno un piatto di riso con il radiccio e taleggio e un buon bicchiere di Borgogna ci sono sempre”.
Il Covid aveva forse ucciso non solo i sapori e gli odori ma anche il gusto di trascorrere una serata tra amici, e il sapore di un buon cibo crudo da sposare non un calice di buon vino.
Tutto era ormai perduto. Il piacere dell’aperitivo anticipato alle diciassette, il gusto di un buon vino. Tutto era al servizio dello sballo e del divertimento o meglio del dimenticare nel nome del “Cerchiamo di divertirci”.
Ma sarà vero che un uomo di mezza età si diverte con una ragazza sballata e disinibita di vent’anni di meno? Effetto paparino? Effetto ti salvo io perché sono grande e maturo quando al posto di una ragazza avrei bisogno di una badante o di una mamma?
Effetto alcol o effetto “non ce la faccio più” si era ormai rassegnata a stare davanti al camino fingendo di essere interessata a far crescer la fiamma tanto quanto basta per poterla guardare.
Francesca non ci capiva più niente. Gli uomini sembravano essere retrocessi e il Covid certamente non li aveva aiutati. Si guardava intorno e in quel momento, nel divano del valore di ventotto mila euro finì per addormentarsi credendo che forse l’unica via d’uscita da quel mondo assurdo potesse essere solo il sonno.
Valutazioni Giuria
24 – Quattro amici – Valutazione: 15 Giud.1: Lo sviluppo della trama è piatto e poco appassionante. Giud.2: bella l’incipit, ma mi manca il resto. L’argomento scelto per il racconto è da rivedere. Giud.3: Frasi arzigogolate e un pò contorte, non prive di errori. Un cinquantenne bisognoso di badante pare esagerato. Si intuisce il messaggio ma i mezzi espressivi mi sembrano inadeguati. Giud.4: “forse” anzichè “fosse”, “avevano” anzichè “Avevano avuto”, “non” anzichè “buon”, “radiccio” anzichè “radicchio”, “via via” anzichè… non lo so ed un punto di domanda mancante: non è un po’ troppo in questo contesto? |
Finì per addormentarsi, stavolta per sempre.
Io e Melody siamo state una affianco all’altra per quasi 16 anni.
Mi era stata regalata dai miei genitori all’età di 6 anni perchè a tutti i costi io volevo un gattino.
Tutti i miei amichetti avevano un animale domestico, mentre a me non era concesso.
I miei genitori mi ripetevano in continuazione che averne uno non era come avere un pupazzo: me ne dovevo prendere cura.
Alla fine, dopo avergli spaccato i maroni, a Natale mi portarono al gattile per sceglierne uno.
Vidi tanti di quei bei musetti e avrei tanto voluto adottarli tutti.
Poi vidi lei, in un angolino, tutta accucciata in una copertina blu.
Mi avvicinai e lei alzò lo sguardo.
Ci fissammo per un istante.
Sembrava che al posto degli occhi avesse degli smeraldi incastonati; erano così verdi che mi ci persi.
Era così piccola con quel pelo arruffato, aveva un manto bellissimo: nero maculato grigio.
Non avevo mai visto un gatto così bello e per questo me ne innamorai subito.
Mi chinai per poterla prendere e lei con un balzo mi saltò in braccio.
C’eravamo scelte entrambe, fu per tutte e due amore a prima vista, nel vero senso della parola.
I miei genitori,vedendo la scena,sorrisero.
I volontari del gattile mi dissero che era una splendida femminuccia.
Finite le scartoffie da firmare per poterla adottare, finalmente, potevamo tornare a casa tutt’e quattro insieme.
Ammetto che il viaggio non fu per nulla semplice.
Avevo riposto la mia gattina nel nuovo trasportino e l’avevo posizionato nel sedile posteriore accanto a me.
Appena mio padre accese l’automobile lei cominciò a miagolare.
Da lì decisi di chiamarla Melody perchè i suoi versi se sembravano, più che miagolii, una dolce melodia.
Arrivata a casa,lei si ambientò subito.
Avevo già preparato tutto.
Ero andata a comprare la cuccietta, la lettiera, il tiragraffi e dei topolini di gomma per poter farla giocare.
La cuccietta non la utilizzò mai perché, sin dalla prima notte, si mise sotto le coperte con me oppure si accucciava al fondo del letto.
Non utilizzò nemmeno il tiragraffi, visto che il suo posto preferito per farsi le unghie era il divano, infatti tante volte mia mamma strillava per questo motivo ma a lei non importava.
Ma devo dire che, oltre a ciò, era molto ubbidiente. Un po’ stronzetta, la definirei, ma ubbidiente.
I miei genitori erano fieri di me per come ne ero responsabile.
Io e Melody eravamo sempre l’una affianco dell’altra. Non ci separavamo mai.
Con gli anni, crescendo, ovviamente non avevo più molto tempo libero ma ritagliavo sempre uno spazietto per stare in sua compagnia.
Non vedevo l’ora di uscire da scuola per poterla coccolare e accarezzare e lei era sempre con me.
Saliva sulla mia scrivania quando mi posizionavo lì per iniziare i compiti, balzava sul divano quando mi sedevo per guardare un film.
Sempre insieme fino a quel fatidico giorno.
Eravamo cresciute insieme io avevo ormai 22 anni.
Ero una giovane ragazza alle prime esperienze con il mondo del lavoro e per questo motivo da casa mancavo molte ore.
Lei, invece, era invecchiata. Persino il suo manto aveva assunto un colorito più pallido.
Era debole e stanca.
Fino a che un giorno, ritornando dal lavoro, trovai Melody accucciata sopra il mio letto.
Mi sembrò strano che non avesse udito il rumore della chiave che girava nella serratura della porta.
Mi sembrava strano non si fosse avvicinata piano piano al mio ritorno, come faceva sempre.
Fatto sta che la trovai lì addormentata.
Fecì per accarezzarla e lei non fece una piega.
Era fredda,gelata.
Cercai di muoverla e urlai il suo nome ma nulla, non si muoveva, non apriva quei suoi meravigliosi smeraldini.
Capii.
Mi accasciai per terra disperata.
Le lacrime mi rigarono il viso.
Melody finì per addormentarsi, sta volta per sempre.
Valutazioni Giuria
25 – La morte di Melody – Valutazione: 21 Giud.1: Racconto scorrevole, ma la narrazione finisce per essere un po’ scontata. Giud.2: bella la storia, le descrizioni dei vari momenti passati dalla ragazza e Melody, delle emozioni. Coinvolge molto il lettore (se possiede un animale). Giud.3: Clichè (occhi=smeraldi =mi ci persi). Cuccetta? Tutt’e quattro? Tempi verbali incoerenti. Racconto infantile Giud.4: “posizionato nel sedile”, “se sembravano”, “cuccetta”, “la cuccetta non la utilizzò”, “accucciava al fondo del letto”, “ma devo dire, oltre a ciò, era molto ubbidiente”. Errori troppo gravi per passare alla fase successiva di commento della narrazione. |
Finì per addormentarsi durante la cerimonia.
Proprio lei, Carmen Frati, una macchina da guerra con tanta energia da fare invidia a un fuoco d’artificio, poggiò la fronte sull’altare e chiuse gli occhi nel bel mezzo del suo stesso matrimonio.
Era una bella sensazione lasciarsi cuIlare dalla voce melodiosa di Don Egidio e abbandonarsi al sonno, assecondando la pressione quasi dolorosa che le stava spezzando la testa in due da diverse ore. Solo pochi secondi di riposo… Un attimo per ricaricare il cervello…
Una gomitata la fece saltare sullo sgabello di legno. “Amore, non volevo svegliarti, ma stavi sbavando sull’altare.”
Confusa e col volto in fiamme, Carmen lanciò uno sguardo verso il suo futuro marito, pronta a fare una cosa che faceva di rado: scusarsi con lui. Ma poi lo vide trattenere a stento le risate e si ricordò con chi aveva a che fare.
“Non ho chiuso occhio stanotte, potrei picchiarti…” lo minacciò in un sussurro.
“Già, tua sorella mi ha raccontato qualche aneddoto dell’addio al nubilato.”
Oh, Cristo… Carmen sperò non sapesse che quelle pazze l’avevano vestita da vagina e l’avevano costretta a ordinare Negroni per tutte in ogni bar in cui erano entrate. Le tornò la nausea al pensiero. “Non sai di che parli.”
“So un sacco di cose invece.” Questa volta gli sfuggì una risata vera e fu lei a piantargli un gomito nelle costole.
Don Egidio scagliò loro un’occhiataccia degna di un padre furioso. “È arrivato il momento dello scambio delle promesse.”
Si zittirono all’unisono e si presero le mani.
Quando Alberto pronunciò il suo ‘Sì, lo voglio’ guardandola negli occhi, Carmen pensò che, nonostante tutto, quella giornata sarebbe stata di certo la più bella della sua vita e sentì pizzicare in mezzo al petto quando vide una lacrima solitaria bagnargli le labbra.
Lo baciò prima che li proclamassero marito e moglie.
Quando gli ospiti si furono accomodati a tavola, Carmen intercettò sua sorella Daniela e la trascinò con sé in bagno.
Chiuse la porta a chiave e la prese per le spalle. “Dani, devi aiutarmi, sto uno schifo. Stamattina ho vomitato tre volte prima di arrivare in chiesa.” Persino l’odore del pot-pourri vicino al lavabo le dava la nausea.
“E io che c’entro?”
“È colpa tua e delle tue idee strane! Lo sapevo che non dovevamo fare l’addio al nubilato il giorno prima delle nozze.”
Daniela la guardò come una che la sapeva lunga. “Hai bevuto mezzo cocktail ieri sera e l’hai rigettato quasi subito, hai vomitato di nuovo stamattina e poi ti sei addormentata nel bel mezzo del tuo matrimonio…”
Carmen si sentì sbiancare. “Cristo, te ne sei accorta?”
“Tutti se ne sono accorti.” Sua sorella fece spallucce come se fosse poca cosa e le posò il palmo sulla fronte. “E non hai la febbre.”
Carmen si massaggiò le tempie dolenti con le dita, desiderando di poter tornare indietro nel tempo e riorganizzare tutto da capo in modo da non dover mai vestire i panni della sposa cadavere. “Ce l’hai un’aspirina?”
Daniela le lanciò un altro sguardo strano e prese a rovistare nella borsa. “Ho quello che ti serve di più in questo momento.”
Quando uscì da quel bagno, Carmen era più pallida di quando vi era entrata e suo marito la cercava da più di mezz’ora.
“Oh, eccoti!” La strinse a sé e l’abbracciò. “Meglio che ti tenga, in caso ti addormenti un’altra volta.”
Le rivolse il suo solito sorriso furbo, ma quando si accorse che sua moglie non lo stava picchiando, Alberto capì che qualcosa non andava. “Amore, stai bene?”
Passò quasi un minuto prima che Carmen si decidesse a parlare, lo sguardo perso nel vuoto. “Lo sapevi che Daniela e Luca stanno cercando di avere un bambino?”
Alberto aggrottò le sopracciglia. “Sono contento per loro, ma… Aspetta, è per questo che sei così sconvolta? Lo sai come la penso sui bambini: se vuoi farne uno, sono lieto di prestare il mio corpo allo scopo…”
Carmen gli posò le dita sulla bocca per fermarlo. “Amore…”
“Anzi, possiamo cominciare subito, mogliettina! Vieni con me.”
“AIberto, fermati!”
“Conosco un posticino che…”
“Sono incinta!”
Ecco, l’aveva detto, finalmente.
Alberto sorrise e Carmen tirò un sospiro di sollievo. Finalmente ne va una per il verso giusto, finalmente questa giornata avrà un lieto fine, finalmente—
“Dopo questa notizia, tesoro, potrei quasi perdonarti per esserti addormentata durante il nostro matrimonio.”
Valutazioni Giuria
26 – Una notte da Negroni – Valutazione: 24 Giud.1: Surreale che una sposa si addormenti sull’altare e la si lasci indisturbata per parte della cerimonia. La trama del racconto articolata per le vicissitudini è poco strutturata nel finale. Giud.2: scelta interessante, testo di facile lettura, coinvolgente per il lettore. Ben raccontato il rapporto tra Alberto e Carmen. Finale inaspettato. Giud.3: Simpatico, scritto correttamente. Ma inverosimile e il finale si intuisce fin dalla metà del racconto Giud.4: Lo stato della moglie per essere al secondo (?) mese di gravidanza, mi sembra esagerato e poco verosimile che se ne accorga (in questa maniera) proprio sull’altare. Anche il dialogo dei due davanti al prete è poco realistico. Insomma si fa fatica a collocare l’intera scena nell’immaginario del lettore. |
1 – Visioni di Abisso
2 – L’AMICIZIA PAGA
3 – IL DONO
4 – La paladina
5 – Una visita inaspettata
6 – INCUBI
7 – IL SONNO DELL’EMOZIONE
8 – Appuntamento a sorpresa
9 – Il prezzo dell’amore
10 – LA LEGGENDA DI FRATE ROMUALDO
11 – Un concorso
12 – L’ultimo ricordo
13 – Bella
14 – La scossa
15 – LA DETECTIVE
16 – Provare a sognare
17 – Divisa a metà
18 – Sembrava tutto così vero
19 – Una famiglia
20 – Divertissement notturno
21 – Finì per addormentarsi
22 – L’ULTIMO SOGNO
23 – Lui o lei
24 – Quattro amici
25 – La morte di Melody
26 – Una notte da Negroni
Accetta Informativa