Non potevano essere più diversi di così…
Non potevano essere più diversi di così: maschio e femmina, moro e bionda, introverso e solare, conservatore e progressista, affettuoso e distaccata.
Io amo pensare che alle differenze come ricchezze: alternative alle quali possiamo attingere, scrigni contenenti proposte che, inaspettatamente, possiamo scoprire di apprezzare.
Quando mi guardo intorno però mi accorgo che le differenze fanno paura: mettono in dubbio le nostre ragioni, ciò che si è e ciò che si crede di essere. Taluni si sentono minacciati dalle differenze, le proiettano su di sè come una macchia… e preferiscono cancellarle coprendole con una spessa patina di fondotinta.
I due protagonisti di questa storia condividevano il mio pensiero e, coraggiosi, apprendevano (o almeno si impegnavano a valutare) ciò che non apparteneva al loro universo. Una canzone come una lettura, un pensiero come un hobby. E passo dopo passo crescevano.
Un giorno però venne un grande freddo, che faceva sbattere i denti e chiudere ognuno nel proprio giaccone più caldo. Il clima era così inspiegabilmente rigido, che alcuni avevano smesso di credere che sarebbe arrivata la primavera, e allora rinunciavano a combattere il gelo e lentamente diventavano essi stessi freddi.
Il moro e la bionda avevano molte frecce al loro arco chiamate passioni: attività che li facevano sentire vivi, che rendevano il loro successivo respiro necessario, come se avessero un importante compito da portare a termine. Forse era vero… ma non lo sapremo mai. D’altronde proprio le differenze di cui ragionavamo prima ci mostrano che la verità non è altro che un variopinto caleidoscopio.
Alcuni li guardavano con un filo di invidia, come se la loro fosse una fortuna: ma non era una fortuna, era una scelta. Una scelta basata su due larghi pilastri: l’autostima, che permetteva di non sentirsi schiacciato dal pensiero altrui, e la reciproca stima, che assicurava disponibilità verso un altrove sconosciuto.
Purtroppo il freddo continuava imperterrito. Alcuni loro amici spegnevano abbattuti la fiamma della propria passione: non avevano più fede nel futuro, e perciò neanche in se stessi.
Il conservatore, essendo anche protettivo, propose alla progressista di restare abbracciati per combattere insieme le intemperie e, nonostante il diniego di lei, la strinse premuroso col suo calore. Lui stesso fu pervaso dal vago tepore di lei, che tentava di divincolarsi.
Non si poteva dire che qualcuno sbagliasse, però agli occhi di lui lei iniziò a sembrare fredda e ingrata, mentre a quelli di lei lui era pressante e soprattutto non stava rispettando la sua volontà. La bionda sapeva bene che lui era affettuoso e capiva le sue azioni, d’altra parte lei era distaccata (oltre che progressista) e voleva combattere il vento gelido sulle proprie gambe, ai propri tempi, ascoltando il proprio istinto. In una parola: sentendosi libera.
Può sembrare esagerato, ma chi non ha sperimentato che le cose più piccole sono quelle che logorano di più nel loro costante ripetersi?
Mentre penso a questa favola guardo il cielo e scorgo un uccellino che sbatte faticosamente le ali per restare fermo sospeso in aria: non riesco a non pensare al nostro protagonista, che, forse preoccupato per il futuro, si affannava a proteggere la bionda, e così facendo la perdeva per sempre.
Perchè quell’uccellino dotato di meravigliose ali non può volare libero nella corrente? Perchè vuole restare fermo, quando il mondo non può che continuare a girare? Perchè non si accorge che è un’illusione, che nulla si può trattenere, se non finendo per strattonarlo goffamente, eventualmente squarciandolo? Vola, uccellino. Vola nella corrente affidandoti alle tue forti ali, e lì percorrerai lunghi tratti di cielo con preziosi amici, i quali un giorno voleranno via, lasciandoti l’orma della loro zampetta nel cuore. E quando guarderai a quell’orma sii felice, non malinconico, perchè quel passato vivrà per sempre in te, anche nel tuo presente.
Allo stesso modo si erano corrose le fondamenta di quello splendido edificio di diversità e la paura aveva scavato un varco, occupandolo con la propria ingombrante presenza e manifestando ai due protagonisti il traumatico epilogo che li attendeva.
Sembra così sciocco, eppure la paura di perdersi li aveva fatti perdere.
Valutazioni Giuria
1 – Dolente epilogo – Valutazione: 20 Commento: L’esordio, con i due protagonisti diversi al punti da sembrare complementari, ha in sè spunti interessanti, ma il proseguo della storia fa perdere la storia stessa nelle riflessioni del narratore. Il racconto si trasforma in una riflessione e diventa meno efficace. |
Non potevamo essere più diversi di così io e Bob.
Lui tutto fisico, poligono di tiro e potenza fisica.
Io regole, leggi e istituzioni. Odiavo chi si prendeva gioco delle istituzioni.
Ma per quella missione non c’era scelta, il comandante era stato chiaro:
“Il nostro infiltrato ci ha detto che domani sera quel maledetto boss del cartello sarà presente di persona a ritirare i soldi dall’intermediario. Non vuole correre rischi, deve essere una grossa somma. Sembra che ci saranno solo due uomini di scorta, dobbiamo agire. Dobbiamo riprenderlo!”
“Se ci riuscissimo sarebbe la terza volta che lo prendiamo, vediamo di non farlo più uscire di galera!” intervenne Bob.
“Bob, Ted. Per domani sera siete i due uomini più esperti che ho a disposizione. Organizzate voi”
“Nessun problema” dissi. Bob annuì.
Ci mettemmo subito al lavoro ed organizzammo la retata. Pochi e fidati agenti; se l’informazione era giusta non serviva un’organizzazione da film di spionaggio.
Quando fummo sicuri che tutto era stato organizzato al meglio ci preparammo per andare a casa.
“Ted, andiamo a bere qualcosa prima di rientrare?”
Era tardi; mia moglie e i tre figli mi aspettavano a casa, ma Bob non aveva di questi problemi, scapolo impenitente e felice. Comunque accettai.
Seduti al tavolino del bar Bob ordinò una birra, io un thè caldo.
“Domani sera sarà l’ultima volta che arrestiamo quel bastardo! A costo di lasciarlo secco sul terreno!”
“Calma Bob. Dobbiamo agire secondo la legge. Questa volta gli rifiliamo il carcere a vita”
“L’ha già scampata due volte grazie a quei suoi maledetti avvocati. Le tue leggi sono solo servite a farlo uscire di prigione!”
Guardai Bob con sguardo di fuoco.
“Sai che non sopporto chi non rispetta le regole!” Dissi quasi sussurrando.
“Scusa Ted. Ma sai benissimo quanti ragazzi sono morti per la schifezza che quel bastardo smercia!”
“Lo so benissimo. Per questo deve restare a marcire a vita in galera”
Ci salutammo e rientrammo a casa.
Lui con la sua auto sportiva rientrò nel suo bilocale in centro, io con la mia station wagon, nella mia villetta a schiera, in periferia.
La sera dopo, puntualmente, fummo sul luogo della retata.
Bob sembrava nervoso.
“Che hai? Qualcosa non va?”
“Sto solo sperando che mi dia l’occasione di stenderlo. Gli sparo un colpo per ogni ragazzo cha ha ucciso con quella merda che spaccia!”
“Stai calmo. Purtroppo non penso che tu abbia con te così tanti colpi”
“Non ci scommettere!”
Finalmente, dopo quasi un’ora di attesa arrivò il boss con la sua scorta.
“Eccolo il bastardo! Dai l’ordine che lo prendiamo!”
“Calma Bob. Aspettiamo che abbia in mano la valigetta con i soldi!”
Finalmente lo scambio avvenne.
Entrammo in azione e tutto filò liscio.
Il resto della squadra si occupò della scorta e dello spacciatore con i soldi.
Io e Bob ci occupammo del boss.
Ci avviammo verso di lui, era in ginocchio con le mani dietro la nuca, il bastardo conosceva già la procedura.
Bob gli puntò contro la pistola.
“E se ti sparassi adesso? Diciamo che hai opposto resistenza?”
Il boss non si mosse neppure.
“Calma Bob. Ci penseranno i giudici.”
Bob si portò alle sue spalle e lo ammanettò
“Agenti, è già la terza volta che mi catturate, pensate che questa volta sarà diverso? I miei avvocati faranno di me un uomo libero in un paio di settimane. Le vostre leggi, le vostre regole, sono state pensate per aiutare le persone che vogliono uscire di prigione, non per aiutare quelli come voi. I vostri distintivi non servono a niente!”
BANG!
Udii il colpo di pistola.
Vidi il boss ferito a terra.
Vidi il volto allucinato e sorpreso di Bob.
Vidi la pistola fumante tra le mie mani.
Udii la mia voce rabbiosa:
“Ripeti quello che hai detto?”
“Fermo Ted! Sei impazzito!” La voce di Bob mi ridiede lucidità.
“L’abbiamo preso. Ora seguiamo le tue regole”
Incredibile ma vero, Bob si rivelò la voce della ragione e mi evitò un mare di grane.
Due mesi dopo il processo terminò ed il boss fu condannato al carcere a vita.
Valutazioni Giuria
2 – La retata – Valutazione: 24 Commento: Il racconto presenta una narrazione lineare, accompagnata da uno stile paratattico che ne accentua i tratti. Il finale dovrebbe sorprendere ma in realtà non lo fa del tutto, quasi ce lo si aspetta |
Non potevano essere più diversi di così, per me, fatti e desideri.
Fu quello il primo pensiero mentre mi alzavo di scatto, stupendomi di sentirmi così fresca dopo tre giorni di febbre e deliri, fresca come il vento che aveva scostato le tende, lasciando che la luna illuminasse per qualche istante la parete bianca di calce alla destra del mio letto e la cassa dove “Ha” (°) teneva le stoffe.
“Ha” Yoel che in quel momento giaceva nell’oscurità della stanza, spargendo nell’aria delicati effluvi che sapevano di latte acido, aglio e cumino; mentre teneva sicuramente il braccio destro arcuato sopra la schiena di Ruth, mia madre.
Ma se i fatti erano stati la morte del fiore e del Rabbi, i sogni sono potenti, e io ero disposta a essere punita, per capire.
Vidi il Rabbi mentre salivamo a Gerusalemme per la Pesach(°°). Era ritto su una barca, vicino alla riva, e una folla di persone lo stava ascoltando. “Ha” aveva fermato il carro per mingere e io ne approfittai per scendere, intrufolarmi tra la gente e guardarlo parlare più da vicino. Stava raccontando la storia di un seme caduto sulla roccia che non avendo radici profonde dopo poco avvizzì al sole…non seppi mai come continuasse, perché “Ha” e mia madre mi raggiunsero, risalimmo sul carro e partimmo. Fui, da quel momento e per tutto il viaggio, più ombrosa del solito.
Mi sono alzata, mi sono vestita senza che nessuno se ne accorgesse e ora eccomi qui.
C’è una pozzanghera, enorme, dove il sentiero che porta alla collina scende un attimo in contropendenza.
Mi fermo, indecisa se attraversarla o costeggiarla sulla destra, poi mi guardo riflessa nell’acqua scura.
Shalom a te, Sarah, detta la solitaria!
O anche: tavola istoriata.
Guardo la luna danzare nell’acqua increspata dal vento e finalmente mi decido: tolgo i sandali ed entro nell’acqua gelida, frantumando il suo riflesso.
Ero salita in cima al colle per una via laterale, quella mattinata, con il cuore svuotato dall’
amarezza di quel frammento di racconto.
Che colpa ne ha, un seme, se cade su un terreno non adatto?
Se ciò che ne nasce è così forte da sgretolare la roccia ma tanto fragile da essere destinato a seccare in pochi giorni?
Ma soprattutto: deve, per forza, accadere ciò?
Lassù, piegato da un vento teso – come la mia schiena lo era dai colpi di chi mi aveva generato – si stagliava contro l’azzurro un fiore purpureo che mai avevo visto prima.
Mi avvicinai: sorgeva da una fessura nella roccia, a fianco di un foro regolare scavato nella stessa.
Seppi, all’improvviso, cosa fare.
Con delicatezza lo colsi, decisa a portarlo con me, a trapiantarlo nella buona terra…
Mi sentii sollevare, trascinare via. Alzai gli occhi, guardai.
Bocche urlanti. Ghigni. Il fiore che cadeva ondeggiando nel foro, strappato non so come dalla mia mano. Volti contratti dall’odio… Poi tre uomini sbucarono dall’ultima curva del sentiero; portavano sulle spalle dei legni ed erano sporchi di terra e sangue. Uno alzò gli occhi tumefatti, mi guardò.
Il Rabbi, quel Rabbi.
Cosa provai, non so, perché pochi istanti dopo tre uomini robusti lo inchiodarono al legno che fu, infine, rizzato verso il cielo e infilato nel buco dove…
Urlai noooo, nessuno ci fece caso
Sono solo una bambina di undici anni.
Arrivo al culmine della collina con il cuore che batte come il mazzuolo di un fabbro,
proprio quando l’alba comincia a illuminare i sepolcri dei condannati.
Come nel sogno, il fiore non è morto, anzi: ora è un arbusto spinoso, carico di bacche purpuree.
Sento un suono, ma non ci faccio caso: pare quello che mi invade la testa da quando chi mi aveva generato aveva randellato il mio capo, un attimo prima che D.O fermasse il suo cuore.
Poi mi accorgo che non è così: è il fruscio del vento tra i rami, che finalmente riodo.
Infine arriva il canto degli uccelli e allora piego le ginocchia e piango.
(°): abbreviazione di HaMegadel, padre adottivo.
(°°) Pasqua ebraica
FINE
Valutazioni Giuria
3 – IL FIORE DI PASQUA – Valutazione: 18 Commento: La costruzione del racconto, probabilmente anche a causa di un errato impiego dei tempi verbali, risulta poco lineare e chiara e ciò inficia anche gli elementi di valore inseriti. |
Non potevano essere più diversi di così, quei due fratelli. Carlo era più grande di Luca di cinque anni ed era psicologo, mentre Luca era pittore.
Il Preside della scuola “Montessori” aveva chiamato la Professoressa Battistini nel suo ufficio. Voleva sapere. ”Mi hanno detto che in casa sua c’è un quadro di un pittore famoso che vale tanti soldi. “ esordì il Preside. “Chi è l’autore?” . La Professoressa si sentì spiata nella sua intimità e quasi balbettando rispose: “ Devo ricordarmi il nome dello psicologo che tiene i corsi per la genitorialità…ecco…Rossi.” Il Preside annuì . La Professoressa si sentì incoraggiata e raccontò quello che sapeva del pittore: “Luca Rossi era emigrato in Germania, dove era diventato famoso come pittore e vendeva abbastanza per vivere. Ai vernissage delle sua mostre preparava personalmente i buffet ed anche il successo di critica era grande. Aveva una relazione amorosa con un attrice di teatro, Maria.
Il legame si spezzò e Luca cominciò a vivere tra una crisi nervosa e l’altra. Non riusciva più a dipingere”. Il Preside era interessato molto e chiese: “Come è arrivato a lei quel quadro? “. La Professoressa Battistini continuò “Un amico mio e di Sandro, mercante d’arte, aveva conosciuto Luca in Italia, prima della partenza per la Germania. Saputo cosa stava accadendo al pittore è andato a prenderlo in Germania e Sandro l’ha ospitato nella sua casa in collina. Il quadro in questione è stato dipinto in Italia, poco tempo fa. “ Il Preside insistette: “Ma lei, lei, come lo avuto?” “Un giorno sono andata con Sandro a trovare Luca e gli abbiamo portato qualcosa da mangiare. Il pittore ha voluto dipingere in nostra presenza e il risultato è quel quadro. Lo ha regalato a Sandro e a me ha donato un padella che aveva usato come tavolozza. Poi un giorno Sandro è venuto a casa mia col quadro e me lo ha lasciato dicendo che Luca mi aveva dato poco”.
Si sentì bussare alla porta e una voce di donna disse: “Laura”. Era una bidella. ”Avanti” ordinò il Preside. Laura entrò, con la sua divisa celeste. ”C’è il dott. Rossi che vuol parlare con lei” disse Laura e, vedendo la Professoressa, aggiunse: “Cosa gli dico? “ “Di attendere cortesemente” rispose il Preside. La bidella uscì e il Dirigente colse l’occasione per illustrare alla Professoressa la personalità dello psicologo. “Assumo sempre molte informazioni su tutti quelli che prestano la loro professionalità in questa scuola ed ho saputo che Carlo Rossi, da alunno, aveva un comportamento ineccepibile, alle elementari era bravo in tutto, proprio tranne che a disegno, e lo stesso alle medie. Poi è andato al Liceo Classico, forse perché non c’è disegno e ha conseguito ottimi risultati. Aiutava sempre i suoi amici nei compiti a casa e vestiva sempre in maniera ordinata e non sgargiante. Si è laureato a pieni voti, conducendo una vita regolata e serena, senza stravizi. Adesso è entrato in ottimi rapporti con i genitori dei nostri alunni e probabilmente riuscirà a far assumere loro un comportamento collaborativo.” Si salutarono e uscendo dalla Presidenza la Professoressa incrociò lo psicologo: di statura media, elegante, in giacca e cravatta.Il pensiero della Professoressa andò all’immagine del pittore, di quando l’aveva visto con Sandro nella casa in collina: un uomo alto, magro a tal punto che gli si vedevano tante ossa, una barba incolta e lunghi capelli castano scuro. Indossava un maglione blu a costine, costellato di buchi e dei pantaloni troppo larghi per lui, probabilmente legati in vita. La Professoressa pensò: non potevano essere più diversi di così, quei due fratelli.
Valutazioni Giuria
4 – Diversi – Valutazione: 20 Commento: Non si può parlare di una vera e propria struttura di racconto: non è presente una storia ma campeggiano due descrizioni, quelle dei due fratelli, ognuna della quali non è in realtà nè correlata nè funzionale all’altra. La scrittura è corretta e lineare |
Non potevano essere più diversi di così, ma era molto tempo che l’uomo e la donna erano uniti nella stessa ricerca.
Sguardo verso il basso, sfogliavano ogni più sottile pagina del mondo, in quel prato sterminato, camminando, inconsapevolmente, l’uno incontro all’altra.
In silenzio.
Lei lamentava di non riuscire a trovare fiori resistenti e forti, che stillassero il loro profumo anche se strappati dalle radici, fiori che l’avvolgessero e la proteggessero di bellezza e colore senza appassire, senza piegare il proprio stelo fra le sue dita, come abbandonati. Cercava fiori che decorassero la sua casa con il carattere deciso della loro natura, con la sicurezza di poter contare sempre su una vitale esplosione di vita e rigogliosità in cambio di un po’ di luce, un nido di terra, un po’ d’amore e dedizione.
Lui, invece, cercava fiori da custodire, per ingentilire un po’ la sua casa spesso vuota, scarna ed essenziale. Avrebbe voluto la consolazione di poter posare gli occhi su una piccola bellezza, sapere che l’avrebbe atteso dietro ogni porta che si apriva, dietro ogni tempo che macinava lentamente cose e persone, come un conforto condiviso, un miracolo in bottiglia. Anche lui avrebbe dato in cambio qualche enorme briciola d’amore, perché il fiore potesse vivere tutto il proprio splendore, con tenace dolcezza e tenera forza, con profonda riconoscenza per tutti i doni che portava nella vita di lui, senza fargli sentire nessun cambio di stagione.
Così, compressi ognuno nella propria ricerca, entrambi accorciavano la distanza fra loro.
D’un tratto, colpito dal profilarsi di una figura sfocata entrata in punta di piedi ai lati del suo sguardo, l’uomo alzò di scatto gli occhi verso la donna che, però, rimaneva intenta a osservare il suolo, senza accorgersi che lui la stava guardando. L’uomo la fissò per parecchi istanti, affascinato da un so che nelle sue movenze, nella sua essenza.
Una risposta inattaccabile a un’accecante domanda interiore.
Vedendo che lei non aveva minimamente cambiato il suo fare, che continuava a tenere la testa bassa e che non sembrava assolutamente colpita dalla sua imprevista attenzione, non sentì quel conforto, l’abbraccio di quell’acqua senza sponde che stava cercando, quindi si convinse di sbagliare, si disse che stava togliendo troppo tempo prezioso alla sua affannosa, perenne ricerca e riabbassò il volto, di nuovo a far scorrere erba e colore sulla tela del suo sguardo.
Proprio in quel momento lei notò con la coda dell’occhio il movimento della testa di lui e, curiosa, alzò il viso. Lo vide impegnato a non guardarla, perso nel cercare, come fosse la cosa più importante al mondo. Eppure, nel guardare quell’uomo, sentiva dentro di sé sciogliersi resistenze antiche, sentiva come il bisogno di abbandonarsi, di sentirsi fragile e indifesa fra le sue braccia, come fosse l’unico posto davvero giusto dove stare e stare bene, per sentirsi protetta, finalmente e immutabilmente al sicuro. Per questo motivo indugiò su di lui più del necessario… ma quando vide che l’uomo non distoglieva l’attenzione dalla sua ricerca, nonostante lei lo guardasse con tutta l’intensità di cui era capace, si disse che probabilmente gli doveva essere indifferente e che, se veramente era quello giusto, lui non poteva non accorgersene in quel modo. Anzi, probabilmente, avrebbe dovuto in qualche modo sentire qualcosa che gli facesse interrompere la sua ricerca e far di tutto per conquistare lo sguardo di lei: a quanto pareva, quindi, non era ciò che stava cercando e, perciò, tornò anche lei, dopo poco, a rivolgere il volto al suolo.
Fu così che entrambi coprirono i pochi passi che ancora li separavano, a occhi bassi.
Quando si sfiorarono passandosi di fianco per, poi, proseguire ognuno in direzione opposta all’altro, l’aria sembrò fermarsi di colpo, come in una fotografia; sul terreno, nel punto esatto del loro incontro, comparve il germoglio di un salice che crebbe e pianse eternamente i suoi rami pendenti, come un monumento a tutte le occasioni perdute, a tutte le estreme verità inutilmente taciute.
Le stelle li guardarono assurdamente allontanarsi, impotenti.
Poi, dopo un impercettibile attimo, con le lacrime versate per l’acuta cecità umana, provarono un’altra volta a disegnare il loro comune destino.
Valutazioni Giuria
5 – UGUALMENTE DIVERSI – Valutazione: 28 Commento: E’ un racconto malinconico e delicato, come la metafora che lo chiude. Lo stile narrativo, volutamente lento, contribuisce ad accompagnare l’immagine. |
Non potevano essere più diversi di così, ma qualcuno delle alte sfere aveva deciso che avrebbero potuto lavorare insieme senza problemi. Il primo a dissentire, non di certo a bassa voce, era stato HB, che ricevuta la notizia era corso dal responsabile di giornata a sbraitare contro quell’avvocatucolo di Murdock: «Che c’entro io con un tizio in costume, me lo dici? Uno che si veste da diavolo, che vorrebbe essere il diavolo.» Lui proprio quella mattina aveva dato una limata alle odiate corna che continuavano a crescere, mentre quel Daredevil ne ostentava un paio finte. Piccolissime, per giunta. Ridicole.
«Sono gli ordini, Red» gli aveva risposto Cruz. «Lo so che sei allergico a questa parola, ma tant’è.»
«Io non sono aller… Beh sì, forse un po’, lo ammetto, ma questo mi pare proprio…»
Un agente lo interruppe: «È arrivato.»
Matt Murdock, al contrario, non era restio a lavorare in tandem. Lo faceva nella vita normale, nel suo studio di avvocato e gli era capitato anche nella sua vita parallela, quando indossava il costume di Daredevil e se ne andava in giro a scazzottare i cattivi. Stavolta, poi, avrebbe fatto coppia nientedimeno che con il personaggio a cui si era ispirato quando aveva deciso di essere un supereroe: il Diavolo in persona. Per la verità Hellboy era un mezzo diavolo, ma è il concetto quello che conta.
Più che altro era sorpreso dalla richiesta che gli aveva fatto il B.P.R.D. di affiancare Red nella missione. O era troppo pericolosa o non si fidavano più del loro agente di punta. Sapeva, come tutti nell’ambiente, che Hellboy non era quello che si poteva definire un modello di disciplina e le ultime immagini rubate dalla CBS mentre era in azione avevano messo molto in imbarazzo il Bureau: in due minuti di video lo si vedeva in pratica distruggere una stazione della metro per salvare… un tenero e impaurito gattino.
Fu dunque pieno di curiosità che si presentò al Professore.
Il vecchio lo squadrò: era evidente che aveva lucidato il costume per l’occasione, il rosso brillante rifletteva la luce e gli feriva gli occhi. Scosse la testa. “I soliti problemi di comunicazione” pensò mentre stringeva la mano guantata.
«Professor Bruttenholm, non sa che piacere sia per me…»
«Lo è anche per me, lo creda. Ma temo che ci sia stato uno sgradevole malinteso. Il mio ufficiale di collegamento deve essersi espresso male, chiedo scusa per lui.»
«Un… malinteso?»
«Di sicuro. Vede, noi non abbiamo bisogno di lei nelle vesti di Daredevil, ma in quelle di Matt Murdock, l’avvocato.»
«Non capisco, avevo pensato che…»
«E per questo mi scuso di nuovo. Ma il nostro problema, in questo momento, è un altro. L’Azienda dei Trasporti e il Comune hanno citato Red per danni. Avrà visto anche lei il servizio in tv.»
«Più che altro l’ho sentito» rispose Murdock togliendosi il cappuccio con le corna e mostrando gli occhi spenti.
«Oh ma certo, sono desolato, oggi deve essere il giorno delle gaffe.»
«Non fa niente, continui.»
«In pratica ho finito: vogliamo assumerla come difensore. Che ne pensa?»
«Si arriverà in tribunale?»
«Stavolta sì, faremo tutto alla luce del sole. Pensiamo che sia giunto il momento. Ci sta?»
«E l’interessato che dice?»
«Ancora non lo sa. Vuole essere lei a metterlo al corrente?»
«Meglio che mi tolga il costume, allora. Torno più tardi.»
«Ma no, le presto io un vestito. Preferirei non perdere tempo.»
Quando Hellboy vide Murdock scoppiò in una risata: si aspettava il temibile supereroe ma quello che aveva davanti gli sembrava più Charlot. Gli mancava solo la bombetta. Il vestito del Professore era almeno di tre taglie più piccole e gli copriva sì e no i polpacci e i polsi. Qualcuno gli aveva anche dato dei ridicoli occhiali a goccia fumé che amplificavano l’effetto caricatura. Ma l’avvocato non si perse d’animo e si presentò: «Sono Matt Murdock e sarò il tuo legale.»
HB spense il sigaro e la risata: «Da quando mi serve un legale?»
«Da quando vai in giro a sfasciare tutto per salvare gattini.»
«Uhm… Ho capito. E io che speravo in una bella missione di quelle toste… Al fianco di Daredevil, nientemeno.»
«Penso che in tribunale sarà più pericoloso di qualsiasi altra missione.»
FINE
Valutazioni Giuria
6 – HB e DD – Valutazione: 20 Commento: L’idea, tutta giocata sul fraintendimento dei ruoli, è buona ma la resa non è del tutto efficace. Forse perché ci sono troppi piani sovrapposti (il malinteso, i ruoli reali e da supereroi dei personaggi…) o forse perché i protagonisti hanno tratti caricaturali. |
Non potevano essere più diversi di così. Lo sapevano entrambi. Ognuno dei loro amici non mancava di ricordarglielo, ovviamente quando erano da soli. Ma loro erano da tempo che andavano avanti senza ascoltare nient’altro che il loro cuore. Non riuscivano a stare senza l’altro, ma stare assieme era diventato sempre più difficile. Ormai si vedevano di rado, dopo giorni di messaggi su Whatsapp carichi di astio, risentimento, desideri e speranze. Tutte sensazioni che ritrovavano nei loro incontri, assieme alla gioia, alla paura e a così tante emozioni che non avrebbero potuto distinguere le une dalle altre.
Di solito si ritrovavano per cenare a casa di lui. Qualche chiacchiera formale all’inizio per rompere il ghiaccio e per cercare di riempire quel silenzio che prorompeva dalle loro anime. Poi il dialogo prendeva forma: nel rancore di lei per gli errori di lui e nel rimpianto di lui di non riuscire ad essere l’uomo che doveva essere: un uomo capace di vivere senza paura del giudizio, in questo caso del pregiudizio, della gente.
Erano incagliati in questa situazione ormai da tanti anni ma, a parte le rughe sul viso dell’uomo, non era cambiato niente tra di loro. Nonostante tutto, soprattutto, nonostante loro, si amavano ancora. Lo sapevano entrambi ma avevano paura di ricordarselo o di ammetterlo alla persona che avevano di fronte. Avevano sofferto troppo per quella relazione, chiunque li conoscesse pensava fosse assurda.
Assurda come l’ennesima serata passata assieme a rinfacciarsi gli errori del passato, finita, come sempre, a letto in una perfetta fusione di corpi e di anime che poche persone avrebbero potuto capire.
Loro due erano uno spirito solo. Questo pensava lui il mattino dopo con le prime luci dell’alba che illuminavano la stanza da letto. Si girò a guardare, ad ammirare, il corpo di lei che dormiva attaccato al suo. Lei si addormentava sempre con la testa sul suo petto, era un’abitudine che aveva dalla prima volta che avevano dormito assieme. Sentiva il suo respiro, un po’ pesante ma sereno, sorridendo alla vista del suo nasino lievemente a patata che tanto adorava.
Guardava i suoi lunghi capelli neri, sparpagliati sul cuscino.
Ricordava, sotto le palpebre chiuse, i suoi occhi verdi come la giada screziati da pagliuzze dorate che ne accentuavano la bellezza e la profondità dello sguardo.
Immaginava, nascosto dalle lenzuola, il suo corpo tonico e muscoloso (purtroppo il contrario del suo: era alto e snello ma non aveva nessuna passione per qualsivoglia tipo di attività sportiva). Gli addominali e le gambe di lei erano stati scolpiti da anni di allenamento di calcio. Era andata a vederla giocare svariate volte, rimanendo sempre colpito dal talento di quella ragazza. Ragazza, in quel termine stava la fonte di tutti i loro problemi. No, detto in questo modo è sbagliato. La fonte dei loro problemi era nella carta d’identità: lei non aveva neanche trent’anni, mentre lui viaggiava per i cinquanta. Tutto quello per cui litigavano, discutevano e soffrivano, partiva da quella differenza d’età. Rancori, rimpianti, ripicche, allontanamenti erano il risultato di un errore nel calcolo. Non avrebbero dovuto tener conto dell’età anagrafica ma considerare solo quella biologica, solo allora tutto avrebbe avuto un senso.
L’ importante è esser felici, l’amore non ha rughe. Ma molte volte lo si comprende troppo tardi. Chissà se loro saranno ancora in tempo per capirlo…
Valutazioni Giuria
7 – Amori diversi – Valutazione: 20 Commento: Lo stile lineare e scorrevole è l’aspetto migliore di questo testo. Manca invece il racconto. Il tema della differenza d’età in realtà non può essere la sola ragione di tanta sofferenza e di tanti rancori. Ci sono coppie che funzionano benissimo. Mancano delle vere ragioni o comunque andavano esplicitate meglio per sostanziare la situazione. |
Non potevano essere più diversi di così. Ma per uno strano caso del destino, erano perfettamente identici. Nati a pochi minuti uno dall’altro, la levatrice dimenticò quale dei due fosse uscito per primo dal ventre della madre e già mentre li lavava notò subito quanto i due gemelli si somigliassero, non solo nell’aspetto, ma perfino nei loro primi vagiti che sembravano ricalcati sullo stesso ritmo ternario. Si decise quindi che, non potendo attribuire ad uno il primato sull’altro, fossero chiamati entrambi come il padre: Jevgeni e fossero tutti e due allevati come spettava ai principi ereditari. Il fatto poi che non si potesse sapere quale dei due fosse da considerare primogenito creò poi un caso al momento della successione, quando, cambiando in extremis le antiche leggi del regno, Jevgeni II, decise di lasciare a entrambi il compito di governare, ed entrambi regnarono poi come Jevgeni III e Jevgeni III. Ma negli scritti dei cronisti che seguirono l’educazione di Jevgeni e Jevgeni, si parla fin dalle prime pagine di questo paradosso: i due Jevgeni, uguali in tutto, gli stessi capelli biondi e setosi che crescevano sulle spalle con identiche ondulazioni, lo stesso volto dal naso piccolo e dalle labbra delicate, le stesse proporzioni delle membra, in realtà erano profondamente diversi. Da bambini se uno preferiva i giochi rudi, come la lotta, le corse, le sfide competitive che spesso venivano proposte dai maestri per temprare i caratteri, l’altro si perdeva nelle lettura degli antichi poemi, prediligendo non quelli di stirpe, con le gesta degli eroi, ma i racconti fantastici dove si parla di Waino, il vecchio cantore la cui cetra sprigionava note dolcissime e piene di armonia, e della madre di Ahti che lo salvò dai gorghi del fiume in cui era caduto restituendogli la vita e riconducendolo a casa. Crescendo Jevgeni, quello mite e pensieroso, approfondì poi la geografia del mondo conosciuto, la poesia destinata alle donne e le proprietà dei fiori, studiando molte ore al giorno seduto sotto i portici del palazzo, mentre Jevgeni, l’altro, imparava a domare i cavalli selvaggi e a maneggiare le armi. In quanto alle prime esperienze amorose, uno fu presto nel dimostrare la sua passionalità travolgente seducendo un gran numero di serve, cuoche e governanti che circolavano nel palazzo, mentre l’altro si interessava ai riti dell’unica religione e amava meditare in silenzio nel tempio, fino ad ora tarda, nei giorni stabiliti. Qualche volta, prima della successione, costretti entrambi a stare seduti per ore durante il cerimoniale di qualche ricorrenza, Jevgeni sbottava in imprecazioni, suscitando il riso dei cortigiani che leggevano nel viso del re la condiscendenza paterna, mentre l’altro, con le labbra serrate e gli occhi socchiusi sembrava, nella sua immobilità, una delle statue sacre ostentate nel rito. E fu così che una volta passati al governo del regno, i due Jevgeni si divisero i compiti: uno si occupò di organizzare la difesa, visitare le fortificazioni, giustiziare i traditori, creare le coorti per arginare la pressione dei nemici ai confini, mentre l’altro di riscuotere i tributi, tenere aperti i templi, accogliere gli ambasciatori e favorire la musica e le arti. Il regno, così condotto, giorno dopo giorno, allargava i suoi confini attraverso le nuove conquiste e prosperava.
Ma fu l’invidia a spingere i generali, che mal sopportavano la crudele disciplina instaurata nell’esercito e il dispotismo di Jevgeni, e che tacciavano di mollezza effeminata l’altro Jevgeni, a ordire la congiura.
Dopo cinque giorni di sanguinosi combattimenti e di atroci vendette, i cospiratori entrarono nel palazzo e rovesciarono i troni. Lo stesso giorno Jevgeni e Jevgeni furono trascinati sul patibolo, nella piazza d’armi, per essere giustiziati. Uno, a cui fu permesso di tenere una corona di pietre per le preghiere, affrontò il boia con volto sereno e perfino, quando la spada calava sul suo collo, guardava impassibile davanti a sé, senza un tremito. Per l’altro ci vollero cinque uomini per trattenerlo, mentre urlava e piangeva insieme, al pari di un ossesso. Come poi scrissero gli storici che furono costretti ad assistere all’esecuzione, non erano mai apparsi così diversi come quel giorno.
Valutazioni Giuria
8 – I figli del re – Valutazione: 20 Commento: Le controversie fra fratelli per la successione al trono sono un argomento che ricorre spesso nella narrativa. Può quindi risultare un po’ scontato. Sarebbe stato interessante invece farne un caso virtuoso di governo saggio ed equilibrato. I nomi uguali sono davvero eccessivi! Lo stile è lineare e scorrevole. |
Non potevano essere più diversi di così i nostri caratteri.
-«Rosalba, mi serve la pratica <<Giacobelli>>, grazie» esordì con tono acido la mia vice Luciana, battendo nervosamente un tacco sul pavimento e aggiustandosi la gonna striminzita che metteva in bella mostra la sua mercanzia.
La tirai fuori dal cassetto con aria trionfante e gliela porsi come su un piatto d’argento, esibendo un sorrisino tra l’ironico e il malizioso. Eh, non mi sarei fatta infinocchiare come quella volta quando mi ridicolizzò davanti a tutto l’ufficio, sbeffeggiandomi per la mia bistrattata ambizione!
Ebbene sì, la fantozziana larva umana aveva delle ambizioni! Che male c’era a scrollarsi di dosso il grigiore di tutta una vita, sentire il bisogno di fuggire da quell’ambiente in cui ero etichettata «la sfigata», dove non era più possibile affrancarsi da quel clichè a cui io stessa mi ero inchiodata forse per carattere o per quieto vivere?
Luciana mi strappò il fascicolo, lo buttò sulla sua scrivania e corse a confabulare con la sua allegra congrega di pettegole, mi pareva di sentirle mentre sparlavano di me:-« Ma non si guarda allo specchio, com’è goffa in quegli abiti sempre troppo larghi, stracci su spalle troppo curve a reggere il peso delle sue frustrazioni!».
Io e lei eravamo agli antipodi: io irrigidita nelle mie convinzioni di essere culturalmente e professionalmente superiore, con anni di dura gavetta alle spalle; lei con i suoi capelli sempre freschi di parrucchiere, accattivante, con la battuta sempre pronta e quella simpatia magnetica.
Mentre soffrivo nel cercare di decifrare l’origine del mio malessere, lei non si curava minimamente delle conseguenze del suo agire, sempre sicura di sè, non sprecava mai nessuna occasione per imporre in modo più o meno palese il suo punto di vista e per soggiogare il prossimo in virtù della sua considerazione ai piani alti.
La mia precedente vice era andata in pensione. A lei avevo sacrificato stomaco e vista, passando notti insonni per essere sempre in regola con tutte le pratiche: mai una distrazione, una parola fuori luogo, mai un lamento. Ero convinta di doverle giustamente subentrare come logica conseguenza della mia indefessa abnegazione.
Ecco, però, l’amara sorpresa! Promossero Luciana senza titoli, senza esperienza, solo perchè aveva « doti relazionali». Macchè, aveva costruito la sua rete di opportunisti e basato la sua leadership sulla delazione, impicciandosi della vita altrui e teneva tutti legati a sè con la sua falsa gentilezza, i suoi piccoli favori, per i quali avrebbe chiesto, prima o poi, un tornaconto.
La sua studiata indifferenza diventò malcelata avversione, da quando io, cercando un «varco nella rete»1, partecipai ad un concorso pubblico e ottenni un posto di capoufficio in un’altra sede in modo legittimo ed onesto.
La notizia rimbombò per tutto il caseggiato e tenne banco per qualche settimana.
Già sognavo la mia uscita trionfale tra due ali di folla di sguardi stupiti ma, il diavolo ci mise la coda, in quanto le assunzioni furono bloccate a causa dei ricorsi di alcuni esclusi.
Fu una terribile mazzata. Riccaddi a terra, costretta a inghiottire fiele e lacrime per un tempo indefinito, a subire le umiliazioni di Luciana che marcò ancor più saldamente il territorio come una lupa alfa dominante, in quanto considerava quell’unico mio successo un attentato alla sua dignità professionale.
Paradossalmente la mia situazione peggiorò.
Che stretta al cuore nel constatare di essere già stata cancellata con la scusa che tanto dovevo andar via! Venni esclusa da ogni corso di formazione, tanto erano finanziamenti sprecati. Mi ritrovai nella terra di nessuno, con le valigie già alla porta e un luogo immaginario in cui, forse, avrei ottenuto il mio riscatto.
Per quanto tempo ancora sarei dovuta rimanere in quel limbo? Per quanto ancora avrei potuto resistere?
Il mio primo entusiasmo, ahimè, si raffreddò progressivamente e non fui più così sicura di voler fare un salto nel buio. Mi ero affezionata alla mia catena? Lo spazio aperto, la libertà e la responsabilità mi spaventavano.
Da «sfigata» divenni «superba» agli occhi dei colleghi ed evitata peggio di prima. Luciana fingendo di prendermi in considerazione mi chiedeva consiglio davanti a tutti su questa o tal altra legge, per poi sogghignare ad ogni mia incertezza, alzando gli occhi al cielo, cercando la prova che ero sempre la stessa e che non si era sbagliata, che, in fondo in fondo, la mia conquista era dovuta soltanto al «fattore C».
1 Citazione di E. Montale.
Valutazioni Giuria
9 – Il varco nella rete. – Valutazione: 16 Commento: Il racconto fatica a decollare sia perché non si capisce come mai la vice si comporti da capo (forse c’è un frainteso) sia perché il contesto descritto è fin troppo stereotipato. Se la protagonista fosse riuscita ad andarsene sarebbe stata una bella vittoria per la categoria dei “comuni mortali” che fanno della professionalità una chiave del successo. Una bella novità! |
[…] “Non potevano essere più diversi di così i finalisti di questa edizione e ne sono davvero contento – pensate alla creatività di questi ragazzi eh – a come sono riusciti ad interpretare il tema e in appena mille battute!
Partiamo col terzo classificato: Marcello Bergamin che ci propone il tema dell’albero in un delicatissimo dialogo – ascoltiamolo – vieni Marcello – un applauso.”
- Cos’è papà?
- Un disegno
- Voglio vederlo!
- Vieni su. Oplà. Vedi? Qui c’è tutta la nostra famiglia
- Dove?
- Guarda qui, questo è il tuo nome e più su, questo sono io e questa la mamma
- Questa?
- Si,
- E questi?
- I miei fratelli, chi sono i fratelli del papà?
- Perché la mamma ride?
- Perché è sciocchina. Gli zii sono i fratelli del papà
- E questo?
- Questo è Dino, il fratellino di mamma. Era un bimbo quando è volato in cielo
- Perché?
- …Gesù aveva bisogno di un angioletto
- Un angioletto!
- Si,
- E questi chi sono?
- Questa è nonna, il nonno e questi sono i suoi fratelli. L’hanno costruita loro la casa in campagna sai?
- Perché?
- Per abitarci, come noi abitiamo in questa
- L’hai costruita tu questa casa?
- Io l’ho comperata, e tu un giorno quando sarai grande, comprerai la tua
- Papà
- Si?
- Io voglio costruirla. Io sono bravo a fere le case
- Lo so
- Tu mi aiuti?
- Certo
- Anche il nonno?
- …anche lui
- Perché mamma ride?
- Perché ti vuole bene
- Papà
- Si?
- E se Gesù vuole farmi angioletto?
- …ma tu lo sei già
“Complimenti Marcello – un’idea originale, bravo – ancora un bell’applauso.
Ed ora passiamo al secondo classificato: Michele Ceriotti – Michele ci porta in un terribile scenario – vero? – dove l’albero (o gli alberi) sono quelli di un veliero.
Facciamo un applauso eh: Michele – Ceriotti.”
Sotto gli alberi di trinchetto, mezzano e maestro piovono gocce di sangue: siano da monito ai nemici i nemici sgozzati e non solo! Che tanti se ne contano in alto impiccati, tra coloro i quali si ammutinarono e là ora penzolano putrefatti. Appesi per il cappio, marciti e mangiati dai covi e dai vermi, finché il canapo non recide membra e legamenti esausti, così ch’essi precipitano scheletri, sul ponte, con gran fragore d’ossa.
Soffia il vento tra le vele quadrate di tiglio, spira tra quelle di taglio, fischia tra i fiocchi, ma non stormiscono verdi fronde, poi che a ciondolare sono le spoglie dei trapassati. Guardo la polena rivolta ai flutti: sia essa inorridita, piuttosto che minacciosa?
Salendo a vedetta per le sartie, incrocio nelle orbite cave i verminosi sguardi di antichi compagni e penso che nessuno prima, abbia dovuto compiere per gli inferi una tale ascensione. Sulla coffa l’aria salmastra mi pulisce le nari dal tanfo sepolcrale, ma all’orizzonte appare un nuovo albero maestro.
“Grazie Michele – ancora un applauso – mi raccomando eh, continua a scrivere!”
Siamo arrivati al vincitore, anzi alla vincitrice: Maria Zotti
Vi avevo detto che più diversi di così non potevano essere tra loro – Maria ci propone una ballata, o addirittura una “cantica” medievale sull’albero della vita – devo confessarvi la mia curiosità, quando Maria mi ha detto di volerla cantare – pensate – anche al coraggio eh – le ho chiesto di accennarmene una strofa in anteprima e devo dirvi che mi ha commosso – davvero. Ora facciamo silenzio – Maria sarà anche emozionata eh – e seguiamo con attenzione le parole sul libretto – un applauso.”
La giostra ha iniziato a girare,
L’albero ha frutti del bene e del male
Le api ne suggono il fiore,
Trasformano il polline in miele.
Onora il padre e la madre,
Santifica il nome di Chi ti ha creato,
Poi ama con tutto il tuo amore,
Non cogliere il frutto proibito.
E passano giorni e stagioni,
La giostra continua a girare,
Il cuore conosce l’amore,
Incontra passioni e paure.
La giostra non è infinita
L’albero ha frutti del bene e del male,
Le api ne suggono il fiore,
Ama con tutto il tuo amore.
La giostra pian piano si ferma
Fa’ in modo sia stato un bel carosello,
Percorri in pace il ritorno
All’albero di vita eterna.
E passano giorni e stagioni,
La giostra continua a girare,
Il cuore conosce l’amore,
Incontra passioni e paure.
E passano giorni e stagioni,
La giostra continua a girare,
Il cuore conosce l’amore,
Incontra passioni e paure.
“Complimenti Maria – anche per la voce! – grazie anche a Michele, Marcello e tutti i partecipanti, la giuria e gli organizzatori eh – al prossimo anno!” […]
Valutazioni Giuria
10 – La premiazione – Valutazione: 30 Commento: Davvero apprezzabile lo sforzo di racchiudere in un testo tre componimenti, diversi per contenuto e stile narrativo. Scelta apprezzabile. |
Non potevano essere più diversi di cosi, eppure sembravano così uguali; perché il mio babbo mi dice che i bambini marroni sono diversi da noi bambini bianchi allora?.
Con le mani strette sotto il mento stavo a guardare dalla finestra quei bambini giocare all’estremità del mio cortile, uno marrone e uno bianco e a me sembravano tanto uguali! Il babbo mi ha dato il divieto di uscire da quando questa famiglia di marocchini si era trasferita nel nostro cortile, ma perché?
“Ciao” sento squillare dietro la mia schiena, era il bambino marrone! Lo fisso un attimo e Scappo in casa sbattendomi la porta alle spalle! “Babbo, il bambino marrone mi ha salutato!” Urlo con tutte le mie forze “e tu cos’hai fatto?” Mi chiede, “sono scappato”, sbattendo le mani sul tavolo urla “idiota! non devi scappare lo devi picchiare!” Dice, io rimango stupito, ma se lo dice sarà vero mi dico tra me e me.
Il giorno dopo tornando da scuola avevo visto il bambino marrone in cortile, il mio babbo guardava dalla finestra, quindi come mi aveva consigliato avevo iniziato a prenderlo a calci, lui si copriva le mani sulla testa, piangeva e mi urlava di smetterla, “ma perché mi stai picchiando?” Mi grida in faccia rialzandosi da terra, effettivamente non lo so perché lo stavo picchiando, “il mio babbo mi ha detto che è giusto così” ribatto convinto di avere ragione, perché il babbo aveva sempre ragione. Abbassando lo sguardo dalla sua gamba usciva del sangue ed era rosso, rimango stupito che anche loro avessero il sangue rosso, il babbo dice sempre che loro non hanno sentimenti e neanche il nostro sangue.
“Babbo!” Urlo, “guarda ha il sangue rosso!” Saltello contento, come se stessi portando una notizia che avrebbe potuto dare via ad un’amicizia tra me e il bambino marrone ma il mio babbo non ne voleva sapere, mi raccomanda ancora di non avere niente a che fare con lui quindi mi limito ad osservarlo dalla finestra, ogni tanto mi guarda e mi sorride e io mi nascondo e quasi mi vergogno di non capire il motivo di questa scelta del babbo, eppure sembra tanto convinto quando mi parla.
Vedo il bambino marrone avvicinarsi alla finestra della mia camera, mi lascia un bigliettino senza dire niente, lo apro “se vuoi essere mio amico ci vediamo stasera alle sette in punto alla vecchia quercia”, ero quasi tentato ma non volevo disubbidire al babbo, non me lo avrebbe mai perdonato ma io sono solo un bambino e voglio giocare e soprattutto voglio capire cosa non va nel bambino marrone.
Guardavo l’orologio insistentemente e indeciso come pochi decido comunque di andare.
Alla vecchia quercia il bambino marrone mi aspettava con un grande sorriso, rimango un po’ distante da lui e lo saluto con la mano.
“Mi chiamo Ahmed” mi dice “ma quindi non ti chiami bambino marrone?” Chiedo con innocenza, “certo che no, che nome è?”; aveva ragione, quale madre chiamerebbe suo figlio bambino marrone?
Dopo un po’ che giocavamo il suo colore era svanito dentro ai miei occhi, eravamo solo due bambini che giocavano lontano dall’odio dei grandi.
Con il passare del tempo l’amicizia con Ahmed è diventata straordinaria, lui era un bambino intelligente e buono.
Decido di parlare con il mio babbo perché non ce la facevo più a tenere il segreto.
“Babbo”, dico con voce bassa, “ti devo dire una cosa, mi fa cenno con la mano di parlare: “sono diventato amico di Ahmed, giochiamo insieme da un po’ ma avevo paura che ti arrabbiassi con me”, non avevo neanche finito di parlare che la forza di uno sberlone mi aveva scaraventato a terra, non aggiunse niente ma quello fu sufficiente.
Avrei deciso di chiudere con Ahmed.
Mi guardava dal punto più vicino del cortile in attesa che io uscissi, mi lasciava bigliettini che io non riuscivo neanche ad aprire, ma come potevo spiegargli il perché del mio allontanamento? Non c’era niente di logico in questo.
Solo da grande avrei capito di aver fatto una scelta di cui mi sarei pentito per il resto della vita, l’odio e il razzismo radicato in mio padre mi avevano condizionato e non potevo fare niente di più sbagliato di quello che ho fatto. Un po’ di coraggio e presa di posizione avrebbe permesso, forse, il continuo di un rapporto ingenuo e trasparente.
Me ne pento, me ne pento ogni giorno. Scusa Ahmed
Valutazioni Giuria
11 – DIVERSI? – Valutazione: 16 Commento: Sicuramente un bambino fatica a capire un tema tanto difficile come quello razziale, soprattutto quando viene educato da un padre razzista ma il racconto non gli rende giustizia. Neppure la conclusione aiuta in realtà il protagonista a fare davvero pace con Ahmed. Lo stile non è sempre lineare. |
Non potevano essere più diversi di così.
Ivano ne era convinto, e non era il solo.
Laura e Davide, la coppia più improbabile del mondo, nonché la più discussa. Laura era una ragazza entusiasta, sorridente e piena di energia, mentre Davide era un tipo cupo, chiuso in se stesso e dai modi molto bruschi.
Eppure dopo appena un mese dal loro primo incontro, i due stavano già insieme, ma Ivano era totalmente contrario.
In realtà, molti erano scettici o contrari alla nuova coppia, proprio per l’incredibile diversità di carattere e di atteggiamento. Spesso i modi scontrosi di Davide stroncavano l’entusiasmo di Laura e lei ci restava male, ma, andando contro il parere di amici e familiari, non intendeva lasciare Davide, anzi lo scusava e lo perdonava sempre.
Questo faceva ribollire il sangue ad Ivano, che trovava profondamente ingiusto che Laura rinunciasse alla sua gioia di vivere, solo per compiacere un ragazzo.
In più occasioni aveva tentato di mettere in guardia Laura, di cui era innamorato in segreto da anni. Proprio questi sentimenti erano la ragione per cui non aveva mai insistito più di tanto nel separare Davide e Laura, pensando, infatti, che sarebbe stata una decisione presa per interesse personale, più che per il bene della ragazza amata.
Col passare del tempo la situazione non era migliorata affatto.
Laura era sempre più triste e spesso con le amiche scoppiava a piangere nel parlare del ragazzo.
Ivano era furioso, soprattutto perché Davide, da canto suo, era totalmente indifferente al dolore della sua compagna.
Nonostante ciò, Laura restava della sua idea e continuava ad affermare che il fidanzato fosse totalmente diverso in privato, ma non dava alcuna spiegazione sul motivo di tanta tristezza.
Non potendo sopportare oltre, Ivano si era deciso a prendere il toro per le corna.
Voleva chiarire la situazione ad ogni costo per far tornare il sorriso a Laura, così aveva preso appuntamento con Davide per costringerlo a lasciarla.
Ora lo aveva finalmente davanti. Ma malgrado Ivano gli riversasse ogni insulto ed ogni critica possibile, Davide non batteva ciglio, restando come apatico, quasi estraneo, a quell’attacco verbale.
Alla fine del suo discorso, Ivano non capiva come il suo interlocutore potesse restare tanto calmo.
Da parte sua, Davide sembrava una statua e solo mentre si stava alzando per andarsene, disse: “Ho il cancro”
Ivano non si era mai vergognato, disprezzato e odiato come in quel momento.
Tutto ora tornava, per quanto fossero diversi Laura e Davide erano davvero una coppia felice, ma, ovviamente, la notizia del cancro aveva portato una tristezza immensa, spezzato l’allegria di lei e reso ancora più cupo lui, che ciononostante in privato la rincuorava ed era affettuoso e premuroso, conscio del dolore che avrebbe provato lei, una volta scaduto il suo tempo.
Ivano non riusciva a perdonarsi. Desiderava solo morire, scomparire.
Ma sapeva che avrebbe dovuto convivere con quella vergogna per il resto della sua vita.
Valutazioni Giuria
12 – LA COPPIA “IN”FELICE – Valutazione: 20 Commento: Il titolo del racconto si capisce solo alla fine ma è calzante. Tuttavia forse il fatto che sia tutto raccontato dalla voce narrante di Ivano (amico di Laura e di lei segretamente innamorato) forza troppo il punto di vista del lettore che fatica poi a riconciliarsi con la coppia. |
“Non potevano essere più diversi di così…
Eppure la vita li aveva spinti fino qui!”
Cancellò di nuovo i primi due versi, scuotendo la testa.
Il campanello suonò. Guardò dallo spioncino e vide gli occhi scuri di Martina, quegli occhi così diversi dai suoi. Aprì e la fece entrare.
«Ehi, che piacere, non vieni mai a trovarmi il sabato mattina…» disse Michele.
«Dopo la chiacchierata di ieri sera mi sentivo un po’ in colpa e sono venuta a vedere come stai…» rispose Martina.
Michele non era certo di buon umore. Anche se forse la cosa che più lo abbatteva era quanto gli suonassero banali i versi che aveva scritto…e il giro di accordi del ritornello non lo convinceva. Ci lavorava dalla mattina presto e non funzionava. Come non funzionava da troppo tempo.
«In colpa? Solo perché per l’ennesima volta hai sparato a zero su una mia relazione? Solo perché col tuo atteggiamento fai sentire a disagio chiunque esca con me?» proseguì Michele.
«Dai, papà, non fare così! Era finita, no? E poi sei d’accordo anche tu che eravate diversi… ».
«Stavolta ti sei fissata sul fatto che avevamo quindici anni di differenza…»
«Diciassette. Ma non è della differenza di età che parlo. Non avevate proprio niente da condividere: gusti, abitudini, passioni… niente».
«La verità è che tu speri ancora che io ricucia il rapporto con tua madre! Anche a lei rendi impossibile stare con qualcuno?»
«Papà, non sono più una bambina! È evidente che due persone tanto cocciute da non parlarsi neanche per gli auguri di Natale non possono ricucire niente. Ma se vuoi saperlo, credo sia stato stupido da parte vostra non concedervi una seconda possibilità! E comunque riguardo Renzo, sì, anche a mamma ho detto che non mi piace!»
«Ah, quindi avevo ragione! E secondo te io e tua madre, invece, non eravamo diversi?»
« Molto, ed era la vostra forza. Vi piaceva completarvi. Lei ti ha insegnato a viaggiare , tu le hai insegnato ad ascoltare la musica…e poi scrivevi. Quant’è che non scrivi più una canzone? Il tuo ultimo album l’hai finito quattro anni fa, prima che cominciasse la crisi con mamma. Da allora non ti ho più visto mettere te stesso con passione nel tuo lavoro, nella tua musica. È come se non ci avessi neanche provato!»
«Non ci riesco. Oggi stavo persino provando a scrivere un pezzo ispirandomi al tuo discorso di ieri, ma non funziona».
«Forse non è quello che devi scrivere…forse non devi partire dal mio pensiero, ma dal tuo…»
«Forse non sono così diversi» rispose Michele rilassandosi in viso.
«Continua a provarci, fallo per me. Voglio vederti credere di nuovo nel tuo lavoro!»
Si abbracciarono e si salutarono.
Forse per la prima volta gli era chiaro quanto a Martina mancasse quel padre vivo ed entusiasta che era stato. Pensò che le doveva qualcosa in più.
Guardò di nuovo il foglio e ripensò agli occhi di sua figlia. Gli stessi di Lara. Lo stracciò e riprese in mano la chitarra: ripartì da capo, stavolta dal testo, lo scrisse senza pensare ad una metrica. Poi rigirò gli accordi della strofa, rifece il ritornello in maggiore, lo suonò con un’altra ritmica, gli diede un profumo più fresco, più spontaneo. Sembrava funzionare. Anzi, gli piaceva.
Lavorando con penna e chitarra era passata l’ora del pranzo, e aveva continuato senza staccare per tutto il pomeriggio. Da molto tempo non si immergeva così nel lavoro. Ormai era l’ora di cena e aveva davvero fame. Fece per dirigersi in cucina, ma si fermò, prese il telefono e chiamò.
«Ciao, come stai?» salutò, cercando di sembrare naturale.
Dopo un breve silenzio arrivò la risposta.
«Non c’è male, e tu?»
«Bene…senti, vorrei farti sentire una cosa che ho scritto»
«È stata Martina a dirti di chiamarmi?»
«No, ormai ci conosce troppo bene…sa che se me lo avesse chiesto non l’avrei fatto. Avevano ragione quelli che dicevano che ha i tuoi occhi, sai?»
Ci fu un altro breve silenzio.
«L’ultima volta che mi hai cantato una canzone al telefono eravamo fidanzati…» riprese Lara.
«Sì, è passato molto tempo…»
«E non ti sembra un po’ tardi adesso?»
«Sono solo le otto e venti…»
Stavolta il silenzio disegnò nella mente di Michele l’immagine di Lara che sorrideva.
«Io non lo avrei mai fatto, sai?» disse Lara, quasi sussurrando.
«Che cosa?» chiese Michele.
«Chiamarti»
«Lo so bene, siamo diversi io e te»
Ci fu un altro breve, piacevole silenzio.
«Cantala»
Valutazioni Giuria
13 – Gli occhi di Martina – Valutazione: 28 Commento: Una bella storia di famiglia in cui nessuno appare forzato. La figura della figlia è interessante: non è rancorosa ma riesce a vedere i suoi genitori con occhi più sinceri di quanto sappiano fare loro stessi. Lineare e ben scritto |
Non potevano essere più diversi di cosi… Diversi, unici, simili. Forse, semplicemente umani.
L’essere umano tende a credere di essere unicamente diverso, inconfondibile. O forse questo è ciò che ci piace credere, ciò che ci rassicura.
Cresciamo spronati ad avere il nostro colore preferito, il nostro gioco preferito, il nostro nome in primo luogo ci identifica univocamente. Abbiamo l’attenzione dei nostri genitori, della nostra maestra di asilo e pochi altri che puntualmente sembrano avere interesse nel conoscerci, nell’ascoltarci, nel giocare con noi. Poco dura questa dolce illusione.
Il sentirsi unici grazie al semplice fatto che esistiamo svanisce nel momento in cui ci rendiamo conto di come il mondo che ci circonda sia millesimale rispetto a ciò che effettivamente costituisce la realtà umana. Il non conoscere la grandezza di ciò che ci circonda per molti può essere fonte di ispirazione, ma per altri, fonte di conforto, di sicurezza.
Il processo di presa di consapevolezza del mondo che ci circonda non è scontato, non è semplice, non dona sollievo. Può invece creare insicurezze, dubbi e domande a cui l’uomo, sentendosi unico e diverso dai suoi pari, preferisce non dare risposta. Si tratta di un processo che può essere inizializzato da forti emozioni o da periodi di stallo, di pausa in cui ci si ritrova ad avere più tempo per pensare, per riflettere. Rendersi conto che ciò che ci rende unici, felici, soddisfatti in realtà è una somma di scelte casuali, accessibili a chiunque, crea quel senso di sconforto in cui non ci si riconosce più unici, diversi, speciali come agli occhi dei nostri genitori, come agli della nostra maestra di asilo, come ai nostri stessi occhi da esseri umani adulti e consapevoli.
Questo sconforto profondo, questa perdita di identità è la chiave delle strategie di marketing di più successo, dei prodotti e servizi che siamo disposti a pagare il prezzo più alto. Perché portano in noi quella soddisfazione del nostro bisogno primario di sentirci diversi, unici. La nostra unicità è una somma di distrazioni che abbiamo scelto consciamente o che ci siamo ritrovati a scegliere. Nel momento in cui scegliamo come distrarci, come renderci unici siamo consapevoli di non esserlo.
Questo è perciò un invito ad osservarsi in quei momenti in cui facciamo una decisione, scegliamo un colore rispetto ad un altro, compriamo un determinato profumo, leggiamo un determinato libro. Il quesito più interessante si trova nell’identificare la nostra motivazione più nascosta in quella scelta apparentemente banale, ordinaria. Quando non sapremo fornire una risposta logica che giustifichi le nostre scelte, facciamo riferimento al nostro istinto che per definizione è irrazionale, ma di cui dimentichiamo la peculiarità forse più importante: l’influenzabilità dell’istinto che ci appartiene.
Seguendo questa logica, gli investimenti in analisi di mercato ed analisi comportamentali sono giustificati. La ricerca del messaggio più efficace, più rilevante per il consumatore finale affinché si senta padrone del proprio denaro, del proprio tempo e delle proprie scelte. Se fossimo veramente unici e diversi come crediamo di esserlo, saremmo immuni alle campagne di marketing di massa.
La percezione dell’essere unici conferisce autostima, identità. Ciò nonostante, incontreremo persone simili a noi, risconteremo tratti similari in amici e parenti. Potremmo non accorgercene mai perché fermamente convinti dell’idea che ognuno di noi è unico nel suo genere, inconfondibilmente diverso. Di tanto in tanto, potremmo diventare consapevoli dei nostri limiti e della matrice emotiva che ci accomuna come genere umano, ci renderemo conto di non essere poi così individualmente preziosi. In quel frangente di consapevolezza, sarà l’essere umano adulto a decidere su quale distrazione far leva, quale maschera indossare di fronte al mondo, di fronte a sé stesso, facendo credere al fanciullo dentro di sé di essere unicamente diverso, ancora una volta.
Valutazioni Giuria
14 – Diversi unici simili. Forse semplicemente umani. – Valutazione: 12 Commento: Non convince. La riflessione è piuttosto farragginosa e poco fluida e la storia assente. Anche lo stile non è lineare. |
Non potevano essere più diversi di così, i fratelli Fitzgerald.
L’unica cosa in comune che avevano era l’altezza: entrambi superavano di poco il metro e ottanta ma per il resto, sia fisicamente sia caratterialmente, non c’era proprio paragone.
Sam era sempre stato un bambino vivace, chiacchierone ed estroverso. Aveva grandi occhi scuri, capelli dello stesso colore e carnagione chiara. Crescendo, iniziò a frequentare la palestra sempre più spesso e grazie anche alla combinazione del football che si giocava a scuola (lui era uno dei quarterback) mise su un bel po’ di muscoli.
Jamie aveva una natura tranquilla, riflessiva, ed era sempre stato un gran lettore, forse spinto dalla curiosità che lo contraddistingueva. I capelli biondi e gli occhi verdi gli conferivano un’aria quasi angelica, e una volta giunto alle scuole superiori si ritrovò inondato di richieste di appuntamenti da parte di ragazze che apprezzavano sia il suo aspetto sia il suo carattere. A quanto pareva non era vero che bisognava essere arroganti o ribelli per ottenere attenzioni.
Al momento di scegliere a quale facoltà iscriversi, i fratelli presero direzioni opposte ancora una volta: Sam andò alla Brown, in Rhode Island, e Jamie optò per Stanford, in California. Entrambe erano ottime università e alcune persone malignarono che Sam non sarebbe mai stato ammesso non fosse stato per la borsa di studio ottenuta grazie al football.
Jamie sapeva che non era così. Suo fratello era intelligente, seppure preferisse lo sport ai libri. Ma lui era stufo di vivere nella sua ombra e, per quanto lo riguardava, più lontano si fossero trovati a vivere l’uno dall’altro tanto meglio.
Sam divenne allenatore di football. Jamie divenne insegnante di storia.
E alla fine, quando sembrava che la vita andasse alla grande per entrambi, ciascuno ai lati opposti degli Stati Uniti, vennero a sapere la verità.
—
Non potevano essere più diversi di così, i fratelli Fitzgerald.
Tom era una persona pratica e inquadrata. Carl sognava ad occhi aperti. Non erano mai andati molto d’accordo, nonostante avessero solo un anno di differenza, e avevano intrapreso strade diverse ben presto.
Finchè i loro destini non si incrociarono nuovamente quando Carl e la moglie morirono in un incidente stradale. Il figlio di pochi mesi, Jamie, venne quindi adottato da Tom, che non ci pensò due volte. Però, mentre Jamie cresceva, iniziò a considerarlo come fosse veramente suo figlio biologico e non gli rivelò mai la verità. Qualcosa lo frenava, non sapeva esattamente cosa. E poi avrebbe dovuto spiegare tutto anche a Sam, che adorava il fratellino. Era meglio tacere e non dare un dispiacere a nessuno.
—
Quando Tom si ammalò, iniziò a provare un sacco di rimorsi. Telefonò ad entrambi i figli, ormai più che trentenni, e quando entrambi si presentarono al suo capezzale raccontò loro la verità.
Jamie non rimase molto stupito. Sembrava quasi aspettarsi una cosa del genere, come se avesse subodorato molto tempo prima che c’era qualcosa di diverso in lui dal resto della famiglia.
Ma Sam la prese malissimo, non riusciva a credere che suo padre gli avesse mentito, avesse mentito a tutti e due, per tutta la loro vita.
—
“E’ incredibile. E’ assurdo. E mamma gli ha pure dato corda!”
Jamie ascoltava lo sfogo di Sam in silenzio, seduto sul divano in salotto, braccia incrociate al petto. Aveva un’aria malinconica, quasi immusonita. Più che della rivelazione in sè, era preoccupato per la salute del padre.
“E a te sta bene che ti abbia mentito fino ad oggi?” sbottò Sam, cercando di sollecitare una qualche reazione.
“Sam.” La voce di Jamie era praticamente un sussurro. “Adesso mi spiego tante cose. Ma non è questo l’importante. Papà ha bisogno di noi, dobbiamo mettere temporaneamente da parte questo discorso. Quando sarà guarito ne riparleremo.”
Non fu facile convincere Sam, ma alla fine, nel corso delle settimane seguenti, Jamie riuscì nel suo intento.
Quelle differenze così marcate finalmente li unirono.
Valutazioni Giuria
15 – I Fitzgerald – Valutazione: 24 Commento: La storia è piuttosto semplice. I due personaggi principali sono descritti bene e anche il legame tra loro, che si coglie da alcuni passaggi: “alcune persone malignarono che Sam non sarebbe mai stato ammesso non fosse stato per la borsa di studio ottenuta grazie al football. Jamie sapeva che non era così. Suo fratello era intelligente, seppure preferisse lo sport ai libri.” La rivelazione del padre (non è però chiaro perché, essendo lo zio, non l’abbia detto subito) non incrina il rapporto, anzi lo consolida. |
Non potevano essere più diversi di così, Marco e Viola. Lui, taciturno, timido ed introverso. Lei logorroica, intraprendente ed espansiva.
Frequentavano la terza media di una scuola di un piccolo paese e la loro amicizia era nata sulla spiaggia, vicino al mare.
Viola, sempre circondata da tantissimi amici, giocava a pallavolo e non riusciva a stare ferma neanche un attimo; Marco se ne stava sdraiato a leggere libri sotto l’ombrellone, non faceva mai il bagno; Viola era abbronzatissima, Marco più pallido di quanto non lo fosse in inverno.
Lei amava il mare, il sole, le serate in spiaggia; lui, il mare lo preferiva d’inverno, il sole lo accecava e gli dava quasi fastidio, le serate preferiva passarle da solo, a suonare la sua chitarra.
Eppure, Viola aveva notato lo sguardo di lui che, tra una pagina e l’altra, la seguiva ovunque, in acqua, come al bar, mentre dispensava sorrisi e abbracci a chiunque.
Era vero, Marco la osservava e chissà quante volte aveva ripetuto nella sua testa le frasi per riuscire a parlarle, almeno a salutarla, in fondo, si conoscevano, anche se la scuola era ormai finita e , in quei tre lunghi anni, non aveva mai avuto il coraggio di avvicinarla.
Marco pensava di non poterle piacere, che avessero poche cose in comune e che, una così, aveva già file di corteggiatori pronti ad esaudire ogni suo desiderio, se non un fidanzato vero e proprio.
Viola il fidanzato non l’aveva ed in realtà, neanche ci pensava, ma Marco le piaceva; le piaceva quel suo modo di essere così diverso dal suo, le piaceva quella timidezza, quel suo rimanere a leggere, fermo, tranquillo, come se niente potesse scuoterlo.
Adorava il suo pallore, quei suoi occhi grandi neri che si riflettevano nel mare, quel suo essere così diverso da tutti quelli che le facevano il filo.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per barattare le attenzioni di tutti gli altri, con un piccolo gesto di Marco.
Sperava ed aspettava, ma i giorni passavano e l’estate era quasi finita, avrebbero scelto scuole diverse, lontane dal paesino e chissà se ci sarebbe stato mai il tempo di quel: “Ciao, sono Viola, vorrei che diventassimo amici”.
Marco leggeva e sembrava che il tempo, per lui, non fosse un problema.
Era il 17 agosto quando Viola decise che non era più il caso di aspettare e che avrebbe fatto lei qualcosa per avvicinarsi a Marco.
Mentre giocava a pallavolo con le amiche ed era pronta per la battuta, pensò che era giunto il momento di dare una mano al destino.
Alzò in aria la palla, fece una rincorsa e schiacciò con tutta la forza che aveva il pallone in direzione di Marco.
La sfera colpì in pieno la faccia di lui che, neanche ebbe il tempo di capire da dove fosse mai giunto quel proiettile che gli colpì il viso.
Preoccupata di averlo steso completamente e di avergli fatto male, Viola corse verso di lui e provò a scusarsi in ogni modo, ma Marco non faceva altro che ridere, continuava a ridere e non parlava.
Viola farfugliava frasi senza senso, le amiche la guardavano come se fosse impazzita e Marco non riusciva a trattenere le lacrime che si confondevano con le sue risate.
Aveva una risata contagiosa, Marco; di lì a poco, anche Viola iniziò a ridere e continuarono a farlo per un po’, ogni tanto si fermavano, ma solo per guardarsi e sorridersi.
Fu così che diventarono amici, Marco cominciò a giocare a pallavolo, Viola, ogni tanto si sdraiava sotto il suo ombrellone e lo ascoltava leggere, lei cominciava a perdere la sua abbronzatura e il pallore di Marco svanì per fare posto ad un colorito più roseo.
Al bar ci andavano insieme, facevano il bagno prendendosi per mano e facevano lunghe passeggiate; la sera, Marco portava la sua chitarra e suonava per tutti, lei lo guardava e aspettava che gli altri se ne andassero per ascoltare la sua voce e la sua musica suonare soltanto per lei.
Fu solo la prima di tante estati passate così, a scambiarsi sorrisi, canzoni, sogni e progetti.
Erano molto diversi, si, differenti, ma proprio per questo, complementari, due perfette metà, due anime gemelle.
Valutazioni Giuria
16 – Marco e Viola – Valutazione: 20 Commento: Lo stile, pulito e lineare, è il punto di forza di questo racconto. Il racconto invece non è particolarmente articolato e la trama non incuriosisce particolarmente. |
“Non potevano essere più diversi di così…” afferma Michela mentre guarda con attenzione Sole e Matteo che danzano.
“Non solo, non avrebbero mai potuto essere più perfetti di così, l’uno per l’altra.” risponde Guido alla moglie, sorridendole amorevolmente, mentre osserva il figlio che, con occhi languidi, guida con determinazione la neo – moglie nei primi passi del ballo della loro vita.
Probabilmente non avrebbe mai pensato, o forse, non avrebbe mai sperato di assistere a questa scena.
Matteo, un ragazzo difficile con alle spalle una giovinezza fatta di sregolatezza e di desiderio di oltrepassare i limiti per sfidare sé stesso.
Un uomo che aveva dovuto, nei suoi primi trentacinque anni di vita, affrontare solitudini e irrequietezze conseguenti agli errori, o più semplicemente alle scelte superficiali fatte in gioventù, quando si è ritrovato immerso in una compagnia sbagliata, che l’aveva guidato nel mondo della droga.
Fatti, eventi, esperienze che lo avevo portato a chiudersi verso il mondo, a scegliere la solitudine, l’ombra.
La famiglia, i suoi genitori, la casa in cui era cresciuto erano diventati la sua “sfera di protezione” in cui conduceva vita personale e professionale e da cui si allontanava solo per necessità o per impegni non delegabili.
Il mondo gli faceva paura. Lo aveva ferito. Voleva proteggersi.
Una vita – non vita era quella che Matteo aveva condotto negli ultimi dieci anni, una volta terminato il percorso di disintossicazione dalla droga.
Un’esistenza sostanzialmente priva di emozioni forti finché non arrivò quel giorno in cui, Sole, portò di nuovo calore ed energia.
Avvenne per caso, o forse, per sbaglio.
Matteo quel 16 giugno si trovò obbligato a prendere il treno per lavoro. destinazione Roma.
Aveva provato ad evitare l’evento, a raggirarlo. A delegarlo.
Non era riuscito.
I numerosi tentativi erano stati vani.
Doveva affrontare quel viaggio, che gli sembrava un incubo.
Un incubo da cui, però, è inaspettatamente sbocciata una favola.
Rinascita.
Ecco quello che accade quel giorno.
Una lite, un’ira da cui è sorto un grande amore, il suo amore per Sole.
Biglietteria della stazione di Firenze, Santa Maria Novella.
Una donna di carnagione mulatta, vestita con un abito floreale e colorato, rideva rumorosamente con l’addetto alla biglietteria, davanti a Matteo che aspettava con tensione il suo turno.
Matteo era stufo di aspettare e di sopportare le chiacchiere dei due tanto che prese coraggio e decise di intervenire.
Iracondo, quasi paonazzo, toccò la spalla della donna che girandosi con un sorriso naturale e ammaliante, lo fuminò col suo sorriso, lasciandolo impietrito.
Una scossa di energia, di adrenalina empatica pura si era spostata dall’uno all’altro, dettando un filo di connessione naturale puro.
Un colpo di fulmine.
Il colpo di fulmine.
Anche lei rimase bloccata.
Trenta secondi di silenzio. Il mondo si era fermato per entrambi.
Un blackout per unire le loro due parti.
Uno “stop” per fondere quelle due vite che il destino aveva scelto di far incontrare.
…
Sole e Matteo oggi sono questi.
Lo sono stati dal primo momento in cui si sono incontrati, da quell’istante in cui i loro mondi opposti si sono scontrati per fondersi e non lasciarsi.
Loro sono questi.
Due parti complementari, un Tao.
Sono l’uno lo yin e lo yang dell’altro, parti speculari e opposte le cui forze spingono in direzione contraria, ma che se unite si completano vicendevolmente in modo naturale ed armonioso.
Valutazioni Giuria
17 – Yin e yang – Valutazione: 20 Commento: La storia è interessante: bello lo sguardo tenero dei gentori in apertura, ben inserito il racconto del passato di Matteo e coinvolgente l’incontro con Sole. Peccato per la forma che non rende giustizia al testo. |
Non potevano essere più diversi di così!
Era una giornata infernale, cadevano gocce di fuoco dal cielo ma armato di ombrello decisi di affrontare l’asfalto rovente per dirigermi verso la collina.
Dopo mille passi sentivo i piedi bruciare era una piacevole sensazione ma avevo il bisogno di fermarmi, quel sempreverde offriva una ricca ombra e sembrava il luogo più adatto dove sostare.
Non ero solo, c’erano due tizi che discutevano animatamente:
“David lascia perdere, Candy mia!”
“Non farmi ridere Nikolas ma se non ti fila proprio!”
Bastarono poche parole per farmi capire che non potevano essere più diversi di così, due pseudo amici arroganti e narcisisti che non facevano altro che spruzzare egoismo da tutti i pori.
Mi infastidivano!
Per distrarmi cercavo la vista quiete del panorama sottostante, paesaggio desertico ma quei due continuavano a strillare come due puttanelle in calore.
Le loro urla irritanti vennero stoppate solo dall’arrivo di un’auto, vi scese una ragazza davvero attraente, era Candy!
“Ragazzi mi avete stancato non so più come dirvelo” esordì “ma cosa diavolo volete da me?”
I due chiedevano che venisse fatta una scelte ma la piccola Candy, in modo molto chiaro, gli fece capire che non c’era proprio nulla da scegliere.
I due continuarono ad infastidire quella ragazza e francamente anche me quindi mi feci avanti:
“Ragazzi c’è qualche problema?”
“E tu chi cazzo sei? Fatti gli affari tuoi.”
Non era stata una risposta gentile volevo solo aiutarli a risolvere il problema, al che presi l’ombrello e spaccai la faccia a colui che era stato così scortese.
“Ben ti sta!” esclamò l’altro
“Ma non ho mica finito” feci lo stesso con l’altro ragazzotto e i due erano ormai al tappeto, l’asfalto cocente emanava vapore sanguineo, che bel vedere!
Candy era stupefatta ma mi ringraziò e mi chiese di completare l’opera.
Voleva che li scaraventassi giù dalla collina, mi sembrava una soluzione un po’ eccessiva ma come facevo a non accontentare quel dolce confettino?
Candy per sdebitarsi si denudò e facemmo l’amore per due volte, nonostante tutto pensai che anche lei era stata poco cortese.
Così dopo essermi rivestito scaraventai anche lei dalla collina, in fondo non era tanto diversa da loro.
Valutazioni Giuria
18 – La collina – Valutazione: 8 Commento: Mi dispiace ma non ho trovato un solo aspetto che valga la pena commentare |
“Non potevano essere più diversi di così i due risultati”. Disse il capitano Gentile.
Proseguì Staiti: “Il dna è l’elemento portante dell’accusa…possibile che abbiamo sbagliato? Capra ha tra le mani un risultato diametralmente opposto al nostro”.
I consulenti genetisti coinvolti, provenivano tutti da Parma, colleghi quindi. Professionisti del settore, con tanti anni di esperienza e tanti casi al loro attivo.
Quando la Cattaneo mi raccontò cosa stava succedendo negli uffici della procura di Bergamo, mi sentii come se stessero sgretolarsi i pilastri che hanno costituito il fondamento della mia vita lavorativa. Così il giorno seguente durante il seminario di medicina legale, ripassai con i miei studenti la questione.
“Immaginiamo il Dna come il nostro romanzo. Il componimento che ci contraddistingue, quello che ci rende unici. In questo caso specifico il romanzo dell’assassino, è stato sezionato come un codice penale, suddiviso in libri, titoli, articoli e commi. I nucleotidi sono al loro posto, così da formare le due catene e la rispettiva elica. Basi, fosfati, cromosomi, tutti presenti, come dire le pagine ci sono. Titolo (movente) ed autore, però, i grandi assenti. O meglio, per qualcuno l’artefice poteva essere proprio quel muratore, quello che soffriva di epistassi e per cui l’accusa stava facendo carte false pur di vederlo dietro alle sbarre e non quel Fikri ingiustamente accusato e recluso.
E’ pur vero che nei polmoni della ragazza fu trovata della calce e sui suoi leggins rinvenuto del sangue dal quale è stato possibile estrarre il dna, appartenente ad un soggetto con caratteristiche ben definite: occhi azzurri/verdi e capelli biondi”.
“Professor Gentilomo, sembra proprio il profilo del sospettato. I genetisti come sono giunti a Massimo Giuseppe?
“All’epoca dei fatti furono sottoposti al test tutti coloro che erano legati da rapporti di parentele ed amicizia con la vittima, tutti coloro che bazzicavano nei luoghi dalla stessa frequentati e per finire i clienti della discoteca di Chignolo, sita nell’area adiacente al campo nel quale è stato rinvenuto il cadavere. Fu così che il dna repertato e quello di un habitué della discoteca risultassero in parte coincidenti”.
In questo modo risalirono ad un suo parente, il Guerinoni Giuseppe. Un autista morto nel 1999 il cui dna fu estrapolato dal bollo della patente che aveva egli stesso appiccicato con la colla in uso per quelle evenienze: la saliva. Qualcuno già parlava di “match perfetto”, uno dei figli di quest’uomo doveva per forza essere l’assassino. Furono sottoposti allo stesso accertamento e..colpo di scena: nessuno era il possessore del dna repertato”.
Gentilomo, si estraniò guardando fuori dalla finestra.
“Professore, poi che è successo?”
“Ah si, scusate…un abitante di Gorno, amico del Guerinoni, rilasciò dichiarazioni spontanee. Raccontò che il Giuseppe da giovane aveva avuto una relazione con una donna già sposata, Ester Arzuffi. L’ipotesi dell’esistenza di un presunto figlio illegittimo avanzò. Gli inquirenti sono riusciti a raccogliere, tramite un falso test dell’etilometro, il Dna di Massimo, che risulta avere elevata compatibilità con quello dell’ignoto1. Il muratore di Mapello ora è detenuto nel carcere di Bollate. Si professa innocente e forse non ha tutti i torti”.
”Com’è possibile? Lei mi insegna che la prova del Dna è infallibile!”
“Il Dna è affidabile quando viene analizzato correttamente e quando il campione è abbastanza ampio. La correttezza delle analisi è messa in discussione. Nel caso di specie i campioni raccolti sono 54. Testati solo due. I rimanenti si sarebbero dovuti conservati nel congelatore. Purtroppo al San Raffaele, per mancanza di spazio gli hanno deposti in frigorifero, pertanto nessuna ulteriore indagine potrà essere eseguita, così abbiamo due esiti che più diversi di così non potrebbero essere ed uno di essi inchioda il Bossetti, l’altro lascia la possibilità che l’autore sia qualcun altro.
Si inserì nel dibattito una ragazza che fino ad ora era stata in silenzio.
“Professor Gentilomo, ho sentito parlare dell’esistenza di un fratello del Bossetti”
“E’ una donna. Questo esclude il suo coinvolgimento”.
“Non mi riferisco a Laura ma a Fabio.”
Fatti e tutti personaggi del racconto corrispondono a realtà. Gentilomo il mio prof di medicina legale.
Valutazioni Giuria
19 – Era una farfalla – Valutazione: 14 Commento: E’ evidente che si parli della vicenda di Yara Gambirasio ma non mi è chiaro perché riraccontarla in questa sede. Si erano già spese tante pagine… |
Non potevano essere più diversi di così lo dicevano tutti. Roman era un uomo minuto, sempre sorridente e cordiale. L’asma, che lo perseguitava fin da bambino, lo costringeva a movimenti brevi e lenti. Gestiva un piccolo negozio di frutta e verdura ereditato da suo padre nel quinto arrondissement di Parigi. Le clienti adoravano quel piccolo uomo dai grandi occhi azzurri e la sua contagiosa allegria. Aveva sempre ricette da condividere e dal cassetto dietro il bancone spuntavano caramelle e cioccolata per tutti i bambini.
Sua moglie Gertrude invece era tutto l’opposto. Alta almeno dieci centimetri più di lui, pesava quasi il doppio. Con i suoi capelli rossi e ispidi e i suoi modi burberi spaventava i bambini del quartiere. Non parlava mai con nessuno e quando incontrava i vicini il suo saluto si limitava ad un grugnito. Nessuno ricordava di averla mai vista sorridere.
Molti si chiedevano cosa quell’omino gracile e mite avesse in comune con quella donna enorme e scontrosa. Tutti però dovevano ammettere che, quando la domenica mattina passeggiavano assieme mano nella mano, quella strana coppia brillava di luce propria.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale il nome di Roman comparve negli elenchi di coloro che potevano essere chiamati al fronte. Lui, che per ovvie ragioni di salute, non aveva nemmeno fatto il servizio militare. Così si recò fiducioso al comando con il certificato medico che lo esentava da tutte le guerre presenti e future. Purtroppo però il conflitto si era rivelato fin dall’inizio molto sanguinoso e tutti erano stati chiamati a dare il proprio contributo.
Gertrude iniziò a non dormire la notte. Era certa che suo marito sarebbe morto prima di arrivare al fronte. Lui tentava di rassicurarla, dicendo che di certo l’avrebbero lasciato nelle retrovie a cucinare per la truppa.
La mitezza di suo marito, quella dolcezza infinita che la inteneriva da sempre, questa volta la irritava profondamente.
“Devi tornare a parlare con i militari” ripeteva ogni giorno. “Devi sbattere i pugni sul tavolo e far valere le tue ragioni.”
Roman sorrideva triste. Non aveva mai sbattuto i pugni in vita sua. Non aveva mai nemmeno alzato la voce.
Gertrude invece era fatta di un’altra pasta. Alzare la voce e menare le mani era sempre stato il suo sogno. Per questo decise di andare lei al comando.
Dopo un’ora, passata a sbraitare con il soldato di guardia, riuscì a farsi ricevere dal capitano che coordinava le operazioni.
“Sono troppo giovane per restare vedova e troppo vecchia per risposarmi” gridò.
“Mio marito è affetto da asma non sopravvivrebbe nemmeno al viaggio. Non è nemmeno in grado di mettersi il fucile in spalla. Avete già perso la guerra se pensate di affidarla a uomini come lui.”
Il capitano la osservava in silenzio temendo che lei saltasse all’improvviso sulla scrivania e lo prendesse per il collo.
Alla fine Gertrude si accasciò sulla sedia. Gli occhi gonfi di lacrime. “Lo so cosa sta pensando” sussurrò. “Non dovrei essere qui a difendere un marito incapace di difendere la patria, ma il mio Roman è l’uomo più gentile e dolce che ci sia al mondo. Non potrei vivere senza di lui.”
Il corpo enorme di Gertrude sudava e ansimava riverso sulla sedia.
Il capitano si sporse in avanti.
“La patria esige il sacrificio di tutti” sentenziò. “Se non può farlo suo marito dovrà farlo lei.”
Gertrude rabbrividì. “In guerra io?”
Il capitano non riuscì a trattenere una risata. Certo, quella donna avrebbe messo in fuga qualsiasi nemico, ma lui aveva un’altra idea.
“I nostri soldati al fronte hanno bisogno di munizioni. Molte fabbriche sono state convertite alla produzione di proiettili e cannoni e lì lavorano prevalentemente donne, visto che gli uomini sono quasi tutti in guerra. Questo dovrà fare, se vuole aiutare suo marito. Dovrà diventare una munitionette.”
Gertrude si pizzicò i fianchi valutando il suo evidente sovrappeso. In fabbrica, a costruire cannoni, sarebbe stato un inferno, ma se così voleva la patria così sarebbe stato.
Roman ascoltò la storia con un velo di tristezza che gli oscurava gli occhi. “L’hai fatto per me, per proteggere il tuo debole ed inutile marito.”
Gertrude scoppiò in una grassa risata. “Non montarti la testa amore mio. L’ho fatto solo per non privare il quinto arrondissement del suo fruttivendolo migliore.”
Valutazioni Giuria
20 – La munitionette – Valutazione: 28 Commento: Una storia d’amore delicata e ironica. Davvero questa coppia brila di luce propria, sullo sfondo della guerra. Lo stile è lineare e scorrevole |
“Non potevano essere più diversi di così”, gli amici dei miei lo ripetevano di continuo quando ero bambino. E la parte sottintesa mi era già chiarissima. Marco, mio fratello, ha cinque anni più di me e ha quel modo di fare che conquista tutti. Adora disegnare, ha sempre con sé un taccuino e una matita. Tutti gli riconoscono un animo d’artista e gli perdonano tante cose. Quest’estate ha girato mezza Europa con lo zaino in spalla mentre io, come sempre, sto trascorrendo le vacanze al lago, con i nostri genitori. La maggior parte del tempo la passo con Luca, Ester, Marta e Sandrone: ci conosciamo fin da bambini anche se ci incontriamo solo in agosto, quando i nostri genitori ci portano qui a Limone del Garda in villeggiatura. Quest’anno l’estate è molto fresca e c’è spesso vento. Non vedevo l’ora di rivedere Marta. Quando mi è venuta incontro, con la pelle abbronzata da un Luglio al mare, i riccioli neri e gli occhi verdi ho capito che mi sentivo pronto per darle quello che ho scritto per lei quest’inverno. Luca pensa che non sia una buona idea. La cosa complicata è trovare un momento solo per noi due. Passiamo tutti e cinque un sacco di tempo sotto i portici, vicino al porticciolo, e perfino lì, a volte, dobbiamo infilare il mento nei nostri kway per proteggerci dagli spruzzi che provengono dal lago. Oggi a sorpresa è arrivato anche Marco. Ci ha raggiunto per un saluto, ma si fermerà solo per stanotte, poi ripartirà per Vienna. Anche oggi fa freddo e pioviggina. Dopocena siamo usciti insieme e abbiamo raggiunto i miei amici. Lui propone di infilarci in un bar a bere una birra ma quando scopre che nessuno di noi ha un euro, non insiste. Così si siede con noi sotto i portici, non c’è un solo turista in giro e i negozietti di souvenir hanno chiuso prima del tempo. Sembra a suo agio, pare che conosca i miei amici da sempre. Parla, racconta, ride e fa ridere tutti. “Forte tuo fratello!”, mi dice Sandrone. A un tratto Marco prende la mano di Marta e finge di saperla leggere. Lei lo lascia fare. Fa un accenno alle sue mani fredde, si toglie la felpa bianca e gliela poggia sulle spalle. Io fingo di non guardare, ma la curiosità mi corrode. Ester sembra infastidita dai suoi modi e chiede a Marta se può riaccompagnarla a casa perché ha freddo. Sandrone coglie la palla al balzo, si leva la felpa e gliela poggia sulle spalle offrendosi di accompagnarla. Ester non sembra convinta, poi accetta e si allontanano. “Posso farti un ritratto un giorno?”, chiede Marco. Marta sorride. Lui le infila la mano nel cappuccio del kway viola, le aggiusta i ricci “Così il tuo viso è ancora più intenso”. Mi sembra che Marta appoggi la testa al suo palmo.
Luca mi dà una gomitata e dice sottovoce, “Andiamo?”. Mi accorgo che li sto fissando a bocca aperta, quindi mi giro verso Luca e rispondo, “Va bene!” che è proprio il contrario di quello che vorrei dire. Ci allontaniamo senza salutarli ma, fingendo di dovermi allacciare le stringhe mi chino a terra e giro la testa verso di loro. C’è buio e sono lontano. Non posso esserne sicuro ma mi sembra di vedere la mano di Marco sotto la maglietta di Marta. Sento il battito che accelera e una dolorosa erezione contro i jeans. Luca mi dice qualcosa che non sento e appena arrivato al portone, mi infilo in casa in fretta. Poi penso che no, è impossibile, Marta non glielo avrebbe mai permesso. È notte fonda quando Marco torna a casa e si infila nel letto vicino al mio. Si accorge che sono sveglio e mi dice qualcosa che mi fa male: “Se non dovessi partire Viola me la farei volentieri!”. Io ho la gola asciutta, vorrei chiedergli cosa era successo tra loro e se davvero aveva infilato la mano sotto la sua maglietta. E invece gli chiedo soltanto, “Perché la chiami Viola?”. Lui scoppia a ridere e mi dice: “Fratellino, lo sai che io non ricordo mai i nomi, è per il Kway”. Stamattina presto Marco è ripartito. L’ho salutato e poi sono sceso al lago. Su una panchina vedo Marta. Ho il cuore in gola. Senza dire nulla mi siedo accanto a lei. Lei non parla, ha occhi enormi che fissano il lago. Nessuno di noi due ha dormito molto. “Ci sono cascata”, dice sottovoce. Con una mano avvicino la sua testa alla mia spalla. Lei mi lascia fare. Poi sussurra, “Tu sei diverso”.
Valutazioni Giuria
21 – Viola – Valutazione: 22 Commento: La rivalità tra due fratelli per una donna è un tema un po’ scontato. La caratterizzazione dei personaggi è piuttosto efficace, come anche la narrazione della serata con Marco protagonista. Più banale la conclusione. Lo stile è lineare e il racconto è ben scritto. |
“Non potevano essere più diversi di così, più brutti di così e tu ora sei nei guai!” furono le parole che uscirono dalla gola rossa e venata di rabbia di Frank, mentre alitava fuoco improperi sul povero Eric che, se lo avesse saputo prima, sarebbe rimasto a casa.
Eric aveva trovato l’annuncio su Facebook, una ragazza cercava un pittore: lavoro retribuito. Sembrava un sogno, un’offerta pagata con soldi veri, senza proposte di scambio con visibilità né “tanto tu ti diverti”. Aveva risposto al messaggio e la bionda dall’altra parte dello schermo era rimasta solo una fotografia. Quando era stato scelto e dai messaggi erano passati alle telefonate, aveva parlato solo con uomini di mezza età. Nessuno particolarmente gentile o educato, ma è difficile sottrarsi alla tentazione del pagamento, soprattutto se sei uno squattrinato studente d’arte con una borsa di studio in scadenza.
Si era trovato in mano una banconota viola al primo incontro, insieme a un invito (non dire a nessuno cosa stava dipingendo) e qualche minaccia. Lui avrebbe taciuto anche solo con i cinquecento euro, ma le minacce gli fecero venire il dubbio che a quel punto non avrebbe più potuto rinunciare al lavoro.
Gli diedero una foto ad altissima definizione e a grandezza naturale del Ritratto di Paul Guillaume di Modigliani; aveva una settimana di tempo per portarne una copia esatta su tela.
I manifesti delle mostre che erano in città lo illuminarono. Serviva un quadro da sostituire all’originale! Non pensò minimamente di andare dalla polizia. Era forse la sua unica occasione di esporre alla Pinacoteca. Lavorò tantissimo, in modo preciso, studiò le pitture usate, i pennelli e i movimenti del polso dell’originale. Era molto soddisfatto del lavoro. Il committente invece sembrava non apprezzarlo.
Frank dal canto suo, era lì a occuparsi di quelle che per lui erano questioni di secondo piano. Per qualche motivo lo avevano messo a parlare con uno che doveva copiare un disegno brutto di un tizio con un occhio bianco e uno nero e adesso era di fronte a questi due quadri troppo diversi fra loro. Aveva urlato e piegato a pugni le lamiere appoggiate alla parete, così da dare al ragazzino un assaggio di quello che sarebbe successo. Di certo il capo gli avrebbe chiesto di intervenire sul ragazzino. Forse avrebbe dovuto rompergli le dita, magari sparargli, dipendeva da quanto era importante quel quadro per il boss. Non gli interessava, avrebbe fatto quello che gli avrebbero detto di fare, come sempre. Ma finché non riceveva ordini comandava lui, e avrebbe continuato a urlare perché lui era cattivo, grosso e arrabbiato e il ragazzo doveva spaventarsi. Si girò verso il pittore e riconobbe lo sguardo di paura e incredulità per non essere in grado di difendersi. Gli occhi che si sbarrano prima di velarsi di lacrime mentre lui si avvicina e inizia a picchiare. Che soddisfazione! Anche più del pestaggio in sé. Un rumore di freni annunciò l’arrivo del boss.
Barry scese dalla panda verde dell’87. Gli piaceva non dare nell’occhio quando doveva sbrigare questioni urgenti e la Jaguar significava essere fermato a ogni incrocio. Entrando nel capannone si trovò davanti la solita scenetta di Frank. Lui minaccioso che fissava il bersaglio di turno da una parte e una preda pronta a essere sbranata dall’altra. Chissà se il ragazzino era bravo come diceva sua moglie. Si avvicinò alla tela tenendo lo sguardo fisso sul giovane. Era veramente spaventato, Frank doveva esserci andato giù pesante. Guardò il quadro e rimase di sasso. Se non fosse stato per la differenza di materiale non avrebbe capito quale fosse l’originale. Si avvicinò alla tela, poi alla foto e ogni singola pennellata era al suo posto. Sembrava che la foto fosse stata fatta al quadro che aveva davanti. Era molto soddisfatto, ma non era a loro che doveva farlo capire. Ora avrebbero pagato il ragazzo e lui si sarebbe preso il quadro e una volta a casa pure i sorrisi della moglie. Guardò Frank che fece per prendere la pistola. Allora si rivolse a lui col soprannome che gli avevano dato ormai quindici anni fa… chissà se il ragazzo aveva idea di quello che aveva rischiato.
“Guercio, dagli i soldi”.
Frank tentennò, poi prese la busta dall’altra tasca e la diede al pallido artista.
“Bel lavoro ragazzo, ora sparisci…e acqua in bocca”.
Valutazioni Giuria
22 – Punti di vista – Valutazione: 22 Commento: La storia c’è, sia a livello strutturale che a livello concettuale (tutti i personaggi, escluso il boss, hanno un occhio che vede e uno che non vede, come nel Modigliani), ma non è ancora compiuta. Quel che manca è una maggiore attenzione alla realtà e alla plausibilità di tutti i passaggi. Alcuni esempi di stranezze: Frank e il boss che giudicano la copia tanto diversamente (in fondo il Guercio vede male anche la foto dell’originale); il boss che gira in Panda (ci sarà pure una via di mezzo tra questa e una Jaguar); il modo contorto di avvicinare il giovane pittore (perché mai deve essere adescato?); la moglie del boss che conosce uno studentello squattrinato; infine la mossa poco astuta del boss, che vuole regalare un falso Modigliani alla moglie (se non ho capito male), proprio quando l’originale è in mostra in città. |
Non potevano essere più diversi di così.
Uno ordinato, gaio, di una gentilezza forse affettata, da risultare effemminato; l’altro ruvido, scortese, volgare.
L’unica che in qualche modo riuscì a parlare ad entrambi, fu la Dott.ssa Maugeri, donna minuta, col viso segnato dall’età, dita traballanti, ma non per questo meno lucida di quando ancora esercitava in corsia.
A lei si rivolsero anni prima nella speranza di riportare equilibrio nella casa, Armando, 55 anni, dirigente quadro in un istituto di credito del centro e sua moglie Paola, di 4 anni più giovane, casalinga un po’ per scelta, un po’ per necessità.
Le visite settimanali in casa Ferioli permisero alla Dott.ssa di entrare in contatto non senza fatica, sia con Luca che con Tommy, facendo emergere dinamiche familiari conflittuali che più di una volta si risolsero proprio grazie all’opera di contenimento della stessa.
Fino a quel momento, a parte qualche grida, qualche porta sbattuta, qualche maledizione al criceto sul comodino e qualche Santo posto all’attenzione del vicinato, non si andò. L’incolumità di tutti mai fu minata, né minacciata.
Quel sabato si superò il punto che trasforma un’allegra pioggia di luglio, in un temporale improvviso con goccioloni grandi come chicchi d’uva, uno di quelli che lascia tutti senza possibilità di riparo, destinati a rientrare alle proprie case intirizziti e infreddoliti.
Luca si chiuse in un mutismo assoluto appena svegliato, incapace di uscire dal perimetro della propria camera, se non per fugaci volate in bagno. A nulla valsero le parole di sprono dei genitori. Luca si ostinava seduto sul letto con le gambe racchiuse tra le braccia, ondeggiando ritmicamente il busto e la lunga testa avanti e indietro. Le pupille seguivano ubriache l’andamento del capo roteando su sé stesse come impazzite, passeggere loro malgrado, di una nave in preda alle onde dell’Atlantico furioso. I tentativi di avvicinamento di Armando e Paola, restituirono scene di panico che fecero desistere i due e attendere silenti l’arrivo della Dott.ssa.
Il suo ingresso nella stanza, condusse la nave in porto e permise alle pupille di Luca di toccare terra. I genitori lasciarono la stanza e la Dott.ssa si sedette ai piedi del letto.
Sembravano Teti e Zeus dell’Ingres, se non fosse che Luca sembrava più Pan che il re dell’Olimpo e la Dott.ssa più che una Nereide, una cariatide dell’acropoli di Atene.
Le tante ore trascorse con lui, nel suo studio o più facilmente a casa sua, le fecero capire che era sempre meglio essere prudenti, mostrando una leggera deferenza, almeno fin quando non si inquadrava lo stato d’animo della persona con cui ci si confrontava.
Lo guardò e facendo intendere che qualsiasi cosa fosse successa si sarebbe potuta sistemare, chiese: “Hai litigato con Tommy, vero?”
Due occhi tremolanti, lucidi, folli, lasciarono quelli della Dott.ssa per ripercorrere di nuovo la rotta della nave impazzita, giungere al soffitto inclinato rivestito di perline di larice e lì fermarsi.
Quelli della Dott.ssa seguirono lentamente la stessa orbita fino a trovare il centro del Sistema Solare fissato da Luca. Quel che vide la lascò senza fiato, inorridita: il criceto di Luca crocefisso, quasi invisibile tra i due lucernari, con la testa penzolante perpendicolarmente al pavimento.
“Gliel’avevo detto a quella checca isterica che gliel’avrei inchiodato quel cazzo di criceto!! L’avevo avvertito cazzo, l’avevo avvertito!!”
Quella voce rabbiosa seguita da un ghigno beffardo, fece rabbrividire ulteriormente la Dott.ssa che riuscì solo a dire “Tommy!! Sei Tu? Che ti succede?? Che hai fatto?!!?”
Tommy prese la pesante abat-jour e la frantumò sul cranio della Dott.ssa, lasciandola esanime a terra. Gli occhi sbarrati, probabilmente increduli per quel che videro; le rughe colme dal rivolo di sangue che scese copioso sul volto. Era morta.
Il Disturbo Dissociativo dell’Identità, quello che prima gli psichiatri chiamavamo disturbo da personalità multipla, annulla il senso del sé: quando sono Tizio mi comporto in un modo, quando sono Caio in un altro.
Luca era stato tante volte Tommy, ma nulla aveva fatto presagire alla Dott.ssa o ai genitori un possibile epilogo.
Dopo un lungo processo, il Tribunale ha condannato Luca a 14 anni di reclusione da scontare in una clinica psichiatrica dove tutt’ora lotta con Tommy e le sue paranoie.
Valutazioni Giuria
23 – DDI – Valutazione: 24 Commento: Il racconto del dramma di Luca-Tommy e di tutti i personaggi coinvolti ha un epilogo tragico e non scontato. Ci sono alcuni inserti (Sembravano Teti e Zeus dell’Ingres, se non fosse che Luca sembrava più Pan che il re dell’Olimpo e la Dott.ssa più che una Nereide, una cariatide dell’acropoli di Atene) che non danno un contributo reale alla narrazione e la appesantiscono. Meglio sarebbe stato magari soffermarsi sui sentimenti degli altri personaggi. Attenzione all’uso delle virgole |
Non potevano essere più diversi di così. Uno era grassoccio, il collo tozzo, le mani e il viso paffuti. Più basso dell’altro, che pure presentava un leggero ingobbimento dovuto alla postura. Costui era magro, addirittura esile, la carnagione un po’ pallida e il viso scavato. Eppure, i lineamenti erano identici: lo stesso naso importante, gli occhi penetranti e sempre circospetti con quel taglio un po’ orientale che dava particolarità al viso, la bocca sottile ma non troppo, raramente illuminata da un sorriso.
Insieme da sempre, si sopportavano a fatica. La crescita e il passare degli anni aveva messo distanza tra loro fino a renderli opposti. Le loro esigenze, i loro gusti e, in generale, la loro attitudine verso il mondo, erano inconciliabili: a uno piaceva fare sport, l’altro era pigro e indolente; uno era vegano e salutista e aveva abolito da tempo grassi e carboidrati dalla sua dieta, l’altro era famelico e amante del junk food; uno era gentile, educato e sempre disponibile, l’altro chiassoso, sbrigativo ed egoriferito.
Ci si aspetterebbe almeno dell’affetto reciproco, un residuo di quell’antica unione, di quella comunanza di esperienze che avevano vissuto. E invece i due si odiavano. Così quando Adelfo si invaghì di una donna e iniziò a frequentarla, quell’altro, per ripicca, trovò il modo di sabotarlo. Lui e Irene erano seduti al tavolo di un ristorantino defilato ma molto romantico e avevano appena ordinato al cameriere un antipasto e un secondo a testa. Ciò che arrivò al tavolo poco dopo, però, non corrispondeva per nulla alle attese: il cibo aveva un pessimo sapore, come se qualcuno avesse volontariamente mescolato gli ingredienti sbagliati. Adelfo, in imbarazzo, rimandò indietro i piatti di entrambi, nonostante Irene cercasse di minimizzare il problema, e volle lasciare il locale. La donna non sapeva che dire e sul suo volto Adelfo poté leggere… delusione. Si separarono, tornando ognuno a casa propria.
Fu dopo pochi passi che lo vide dietro il finestrino di una macchina. Subdolo. Tentava di nascondersi dopo avergli mandato a monte i piani. Era certamente stato lui a sabotare la cena. “E probabilmente, nel frattempo, si è mangiato tutta la dispensa del ristorante, grasso com’è”, pensò Adelfo.
Rientrato a casa, si tolse scarpe, giacca, pantaloni camicia e calze, rivelando la magrezza della sua schiena nello specchio alle sue spalle. Ripose gli abiti su una sedia e si infilò il pigiama.
Fu una notte di sogni agitati: lui che sedeva in prima fila a lezione in università ascoltando il professore, quell’altro che attirava su di sé l’attenzione di tutti i compagni facendo domande a sproposito; loro che durante la lezione di ginnastica alle superiori aspettavano di essere smistati in una delle due squadre per la partita di basket, ma nessuno li sceglieva perché quello, fingendo di stare male, lo trascinava negli spogliatoi; lui seduto sul prato in riva al fiume mentre lì accanto le ragazze chiacchieravano civettuole con i suoi amici ignorandolo completamente, e quell’altro che, comparendo dal nulla, aveva iniziato a deriderlo.
Si svegliò, più stanco di quando si era addormentato, e se lo vide davanti.
Quella faccia che avrebbe tanto voluto prendere a schiaffi, così beota in quel suo essere tonda e chiazzata di rosso, quel corpo sgraziato e rigonfio di grasso e tracotanza, quella presenza fastidiosa che stava lì a sfidarlo, a ricordargli che non valeva niente, di quanto i suoi tentativi di migliorarsi fossero inutili e che quei chili, dei quali cercava da sempre di disfarsi, erano sempre lì in quello specchio a guardarlo così come lo guardavano gli occhi di quello. Come lo guardavano sempre: dagli specchi, dai finestrini delle auto, dalle vetrine, persino dalle pozzanghere in una certa condizione di luce. Quegli occhi pieni di repulsione, disprezzo, risentimento, schifo, distorsione. Che poi erano i suoi.
Valutazioni Giuria
24 – SABOTAGGIO – Valutazione: 18 Commento: Il racconto non è chiaro: non si capisce se sono gemelli e perché ci sia quest’odio tra loro. Cosa li costringe poi a stare insieme se non si sopportano? Anche la sintassi, a volte volutamente complessa, non contribuisce a conferire chiarezza |
Non potevano essere più diversi di così eppure si amavano alla follia.
Ivano e Alessia si erano conosciuti via sms, cosa piuttosto insolita per lei dato utilizzava raramente il cellulare. Eppure quel giorno l’aveva impugnato e scorreva con le sue dita affusolate i messaggi che arrivavano in continuazione.
Lei che odiava i gruppi watsapp si era fatta convincere ad entrare e rimanere in quello creato per organizzare il diciottesimo compleanno di una sua cara amica, ma solamente perchè era un evento importante.
Quella sera si era addirittura così presa bene che scrisse su quel gruppo, precisamente rispose ad una battuta simpatica di un certo Ivano.
Di tutta risposta lui le scrisse privatamente.
Il messaggio citava: ”Piacere Ivano ma tu puoi chiamarmi Ivi”
Appena Alessia lo lesse dapprima si stupì ma poi sul suo viso spuntò un piccolo sorriso, il primo dopo la rottura con il suo primo fidanzato.
Ultimamente era sempre giù di morale e finalmente quell’Ivano era riuscito a rubarle un minuscolo ma pur sempre un sorriso.
Evidentemente quel messaggio le aveva suscitato interesse così si decise a rispondergli per vedere lui dove voleva puntare.
Andarono avanti a parlare tutta la notte, a lei sembrava di conoscerlo da sempre.
Il giorno dopo si cercarono entrambi come due bambini ansiosi di scartare il regalo di Natale.
Si scrissero tutti giorni, chiacchieravano intere giornate per telefono.
Parlavano di tutto, delle loro diverse passioni, di come passavano la giornata etc finchè dopo mesi decisero di incontrarsi.
Ricordo ancora l’agitazione di lei, non aveva chiuso occhio tutta la notte.
Era ansiosa di conoscere Ivano, che pareva l’uomo perfetto.
Era la mattina del 9 Luglio quando Alessia prese quel treno da Milano Rogoredo con destinazione un paesino di Cuneo.
Finalmente dopo due ore di viaggio si videro per la prima volta.
Fu strano per Alessia passare da una grande città caotica ad un paesino silenzioso immerso nelle montagne.
Era tutto diverso ma l’importante era poter conoscere di persona lui.
Fu amore a prima vista per entrambi.
Da quel giorno non si lasciarono più.
Lei dopo un mese si trasferì in Piemonte per vivere insieme a lui.
Cambiarono le loro abitudini per venirsi incontro.
Lei dovette abituarsi a dormire con la tv accesa per poter illuminare la stanza dato che lui aveva paura del buio, lui si abituò ad addormentarsi senza volume alla tv perchè lei non riusciva a prendere sonno se non c’era assoluto silenzio.
Lei imparò ad andare a cavallo, cosa mai fatta prima, e andò a pescare per la prima volta nonostante avesse la fobia dei vermi.
Il tutto per poter toccare con mano le grandi passioni di Ivano.
Ma lui non fu da meno, lui si abituò ad avere sempre musica in casa e si subiva ogni giorno Alessia allenarsi facendo i vocalizzi di canto.
Lei imparò a cucinare perfettamente e lui imparò a mangiare verdure e pesce, quest’ultimo era un alimento che lei adorava e non poteva farne a meno.
Lui imparò ad abituarsi anche ad avere in casa anche due splendide gatte, animali preferiti di lei.
Lui che non aveva neppure un criceto.
Non potevano più essere diversi di così eppure si completavano.
Valutazioni Giuria
25 – Ivano & Alessia – Valutazione: 16 Commento: La storia, con un’apertura interessante e ben descritta, diventa invece banale nel suo dipanarsi. Ci sono anche alcune sbavature linguistiche (Quella sera si era addirittura così presa bene) e alcune imprecisioni morfosintattiche. |
Non potevano essere più diversi di così eppure erano destinati a stare insieme.
Leo adorava il proprio lavoro, era proprietario di un appartamento in centro e, nonostante le parecchie avventure amorose, iniziava a sentire il desiderio di formare una famiglia.
Marika aveva una casa modesta, un lavoro che non le piaceva ed era convinta che non si sarebbe più innamorata.
Leo era alto, adorava i fumetti ed era consapevole del proprio fascino. Esattamente il contrario di Marika che era piccolina, divorava grandi classici e non si rendeva conto della propria bellezza.
Un filo magico li aveva attirati spesso l’uno all’altra per tutta la vita, eppure non si erano mai incontrati. Entrambi erano nati a Masela, avevano frequentato le stesse scuole medie, ma non avevano mai avuto modo di incontrarsi perché assegnati a delle classi collocate in due ali separate dell’istituto. Avevano scelto scuole superiori differenti, ma il Destino aveva deciso che entrambi aspettassero il proprio autobus alla stessa fermata in orari diversi. Avevano modo di stare vicini solo quelle volte in cui il bus di Marika arrivava in ritardo. Ogni volta che ciò accadeva, Leo e Marika avvertivano un sussulto interiore, una vampata di calore che andava a posizionarsi tra lo stomaco e il cuore. Era una sensazione strana che li portava a credere di essere sul punto di vivere un’avventura magica. Ogni volta che avvertivano quella vampata, una forza inconscia li portava a guardarsi intorno. Si cercavano senza saperlo ma, per una questione di attimi, i loro sguardi non si incrociavano mai. Marika tendeva a voltarsi verso il ragazzo più alto quando Leo era di spalle. Se invece era lui a guardare in direzione di Marika, notava solo un gruppo di ragazze che, inconsapevoli, coprivano la fonte di quel mistero.
Per motivi di lavoro lui e per amore lei, una volta cresciuti, lasciarono la città e dimenticarono in fretta le emozioni adolescenziali. Se ne ricordarono solo quando, anni dopo, tornarono a vivere a Masela. Entrambi di nuovo single, guidando in prossimità della vecchia pensilina, avvertirono ancora una volta la vampata di calore tra lo stomaco e il cuore. Nessuno dei due poteva immaginare che ciò accadesse perché entrambi erano in coda allo stesso semaforo.
Quella sensazione iniziò a farsi sentire sempre più di frequente perché Leo e Marika frequentavano la stessa palestra, lo stesso bar e persino lo stesso supermercato. Più passava il tempo, più il Destino si divertiva a farli avvicinare l’uno all’altro, a osservarli mentre si chiedevano il perché di quel sussulto e a farlo svanire immediatamente creando dei diversivi.
Un giorno Marika, stanca di non capire che cosa le stesse accadendo, decise di andare alla vecchia pensilina dell’autobus ad aspettare che si presentasse quella vampata. Sorrise nel notare la scritta “Marika ama Leo” che qualcuno aveva riportato sulla pensilina e si sorprese a pensare che anche lei avrebbe voluto un Leo da amare. Origliando i suoi pensieri, il Destino capì che Marika era di nuovo pronta a innamorarsi e, con il solito filo magico, attirò Leo alla pensilina.
I loro occhi si incrociarono per la prima volta. Il sussulto si fece intenso e la vampata di calore che di solito avvertivano tra lo stomaco e il cuore avvolse i loro corpi in un abbraccio.
“Era una vita che ti aspettavo, lo sai?”.
“Lo so.Ti aspettavo anch’io”.
Valutazioni Giuria
26 – LA PENSILINA – Valutazione: 22 Commento: La storia sembra davvero inverosimile e il ruolo riservato al Destino è un po’ eccessivo ma è più una “favola” che un racconto e la sensazione che genera è piacevole. Anche il ruolo della “pensilina” quasi la umanizza. L’unica stonatura è la scritta: “Marika ama Leo”; non serve. Lo stile è lineare e scorrevole. |
Non potevano essere più diversi di così. Col cuore che mi martellava nelle orecchie, guardai di nuovo il primo quadro, senza dubbio un Caravaggio, e vi riconobbi le stesse ombre che popolavano la mia mente, una visione buia della vita in cui mi riconoscevo fin troppo bene. Il secondo, invece, doveva essere di un impressionista, forse Monet, con quei colori così vivi e luminosi da fare quasi male agli occhi. Dio, quel verde acceso mi ricordava così tanto…
“Signorina Spinetti?”
Trasalii. Forza, Adele, concentrati! La storia dell’arte è il tuo cavallo di battaglia.
Sbattei le palpebre per mettere a fuoco la barba candida del professor Minelli. “Qua—qual era la domanda?”
Sbuffò, guardando l’orologio. “Signorina, sa che cosa diceva Napoleone?”
Feci di no con la testa, grata che ci fossimo solo noi in quella stanza.
“Posso perdere una battaglia, ma non perderò mai un minuto” recitò il professore, agitando l’indice sopra la scrivania di mogano che ci separava.
Lo stavo fissando a bocca aperta e sentii tremare la mandibola quando sbatté il palmo sul tavolo. “Mi sta facendo perdere tempo, signorina. Si svegli! Questa è la ‘Vocazione di San Matteo’ del Caravaggio e questa la ‘Passerella giapponese’ di Monet. Le ho chiesto di elencarmi le similitudini.”
Spinse nuovamente le due immagini nella mia direzione e un ricordo congelato dal dolore sbocciò dentro di me come una delle ninfee sulla tela di Monet.
“Ti piace quel Caravaggio, Adele?” Vidi un paio di occhi verdi osservarmi da vicino, in cerca di una reazione.
“Sì. Ma è così buio. Talmente buio che la luce diretta che arriva da destra sembra quasi una ferita. È bellissimo, ma anche estremamente… triste.”
“Il buio non è triste, tesoro. L’oscurità è da tutte le parti.”
Avevo alzato gli occhi al cielo, sbuffando. “Davvero, papà? Per questo da trent’anni dipingi quadri pieni di luce e di colori?”
Il ricordo del suo sorriso enigmatico mi scavò una voragine nel petto.
“Guarda meglio tesoro” mi aveva detto. “Non esiste luce senza ombra.”
Avevo odiato quella frase all’istante. Ma quella era la sua risposta alla vita: per lui il mondo era soltanto una tela da riempire di colori, che non avrebbe avuto senso senza un velo di oscurità qua e là. Ma che si fa quando l’unica fonte di luce si spegne all’improvviso? Che farò io quando tu non ci sarai più? Questo non avevo avuto il tempo di chiederglielo.
“Signorina…” Il tono del professor Minelli si era addolcito tutt’a un tratto.
Mi sfiorai la guancia con le dita e la trovai umida di lacrime. “Mi dispiace, io… Di solito non sono così.” Affondai il volto nelle mani. “Non so nemmeno cosa ci faccio qui.”
“Ho visto alcuni suoi lavori, signorina. Il talento non le manca.”
Un singhiozzo sfuggì prima che riuscissi a fermarlo. “Mio padre diceva che a quattro anni dipingevo meglio di lui.”
Sentii una mano posarsi sul mio gomito. “Magari è qui perché ama l’arte.”
Era la mia vita… finché un incidente non ha fatto fuori l’unica persona con cui potevo condividerla.
Mi strofinai gli occhi. “Non voglio farle perdere altro tempo, professore. Mi dia il pessimo voto che merito, così tolgo il disturbo.”
Mi alzai dalla sedia, rassegnata ad aver bocciato il terzo esame in due mesi, da quando mio padre se n’era andato. Ma il professore si limitò a osservarmi sopra il bordo dei suoi occhiali da lettura, accarezzandosi la barba, come se fossi una strana creatura che non riusciva a decifrare. “Si sieda, la prego.”
Obbedii, stremata, lo sguardo fisso sui miei piedi.
“Che cosa vede lei in questi quadri?”
Esitai, incerta sulle sue intenzioni. Ma quando alzai gli occhi sul suo volto, trovai soltanto una sincera curiosità.
Mi schiarii la voce. “Vedo un quadro fatto di luce che non conosce il nero.”
“E che altro?”
“Un pittore tormentato dalle ombre della vita.”
Annuì, serio. “Due quadri molto diversi, dunque.”
“Non potrebbero essere più diversi di così…” sospirai. “Ma forse una cosa in comune ce l’hanno.”
“Quale?”
Chiusi gli occhi e feci quello che mi riusciva tanto difficile, quello che papà aveva sempre fatto al posto mio: trovai il lato positivo. “Beh, è piuttosto ovvio, in realtà, visto che non esiste luce senza ombra.”
Per la prima volta da quando ero entrata in aula, quella mattina, vidi il professor Minelli sorridere. “Concetto interessante, signorina Spinetti. Che ne dice di elaborare?”
Valutazioni Giuria
27 – Chiaroscuro – Valutazione: 28 Commento: L’idea è bella e la narrazione è ben costruita. Forse un po’ sbrigativo il riferimento alla morte del padre. Lo stile è scorrevole ma ci sono alcune imprecisioni che in parte lo penalizzano. |
Non potevano essere più diversi di così. Lei una dottoressa della media borghesia cresciuta all’antica quanto basta per aver dedicato un’intera vita allo studio e alla famiglia. Lui un nobile, gentile educato quanto basta per mangiare la vita a morsi senza perdere un minuto sempre dietro a qualche bella donna. Prima di Natale si erano salutati senza sapere se si sarebbero rivisti. Lei era stata malata di Covid-19 e gli incontri fortuiti avuti erano stati alquanto blandi date le sue condizioni di salute e non sarebbero stati sufficienti a saziare l’appetito dell’uomo. Lei allora, supplendo alle sue forze, giocò d’astuzia e gli regalò una bottiglia di Bolgheri rosso per poterla aprire e festeggiare dopo le feste di Natale. Ben quindici giorni trascorsero lontani a causa della zona rossa stabilita anche se si scrivevano costantemente in attesa della nuova apertura. Tornarono a gennaio nella stessa casa dove si erano baciati, lì dove la bottiglia era stata accantonata, con il nastro verde ancora attorcigliato intorno alla scatola rosso vermiglio. Si baciarono con un desiderio che ormai era diventato impossibile da pensare. Lui aprì l’armadio dove solitamente teneva i liquori ma la bottiglia era sparita. Cercò di capire chi potesse averla presa, telefonò alla donna che si occupava della sua alcova, cercò nella casa di famiglia ma della bottiglia non c’era nessuna traccia.
Qualcuno l’aveva presa ma chi poteva essere entrato in casa senza nemmeno mettere un bicchiere fuoriposto e senza forzare la serratura? I bicchieri vuoti rimasero davanti al camino mentre lui le si avvicinò desideroso di ritrovare la donna che aveva lasciato. Lei si ritrasse, non era sicura di voler essere sua e la bottiglia scomparsa segnava un presagio nefasto. Non era solita concedersi agli sconosciuti anche se quell’uomo dal fascino e dalle maniere ormai dimenticate, la attraeva come nessuno mai in precedenza. Era solita dare fiducia alle sensazioni e in quel momento non premonivano nulla di positivo così, dopo un bacio esagerato, lo salutò uscendo velocemente dalla casa. Lui non capì più nulla e nei giorni successivi non si diede pace per cercare la bottiglia. Pensò che lei fosse alquanto bizzarra, forse più di quanto avesse potuto immaginare. – Lasciarla stare o insistere? Una donna così è molto faticosa – pensò tra sé e sé ma ormai la sfida era aperta. La doveva avere non tanto per inserirla nella lista delle mille donne che aveva conosciuto quanto per riuscire a capire una persona così diversa da lui, talmente diversa da attrarlo più di qualunque donna disponibile gli fosse fino a quel momento capitata.
Ad un certo punto si voltò verso il computer perennemente acceso e un messaggio vocale apparve sopra la tastiera: Mettetevi al riparo sotto il tavolino davanti al camino. Premete il tasto T sula vostra tastiera e guardate le tracce sul pavimento. Spostate il sacco della posta e troverete delle bottiglie di vino pregiato. Aprite la porta di fronte a quella da cui siete entrati ed uscite dall’altra parte. Raggiungete la credenza a sinistra della finestra. Osservate le bottiglie di vino costoso e la cella vuota del portabottiglie. Guardate anche la scatola vuota dell’argenteria che prima del furto conteneva le posate. Controllate la porta a sinistra della credenza. Avvicinatevi alla sedia lontana dal tavolo e prendete il pezzo di corda usato per legare l’ultima donna con la quale siete stato. Due bicchieri + bicchiere con patina di vino = tre persone. Due bicchieri + bicchiere con patina di vino = due persone. Osservate le bottiglie di vino e Champagne sul mobiletto accanto alla stufa.
L’uomo seguendo le indicazioni trovò un paio di guanti che aveva regalato e Carolina, l’ultima donna con la quale era stato.
Capì in quel momento che solo lei possedeva ancora le chiavi della sua casa e che, in qualche modo, aveva seguito le sue tracce. I guanti erano incrociati in segno di guerra. Non erano più due calici ma tre e il gioco si sarebbe fatto ancora più duro.
Valutazioni Giuria
28 – ROSSO BOLGHERI – Valutazione: 18 Commento: Il racconto è diviso in due. La prima parte, salvo qualche sbavatura stilistica, funziona e rende accattivante la dinamica tra i due; la seconda invece è volutamente criptica, troppo e la narrazione rimane sospesa. |
1 – Dolente epilogo
2 – La retata
3 – IL FIORE DI PASQUA
4 – Diversi
5 – UGUALMENTE DIVERSI
6 – HB e DD
7 – Amori diversi
8 – I figli del re
9 – Il varco nella rete.
10 – La premiazione
11 – DIVERSI?
12 – LA COPPIA “IN”FELICE
13 – Gli occhi di Martina
14 – Diversi unici simili. Forse semplicemente umani.
15 – I Fitzgerald
16 – Marco e Viola
17 – Yin e yang
18 – La collina
19 – Era una farfalla
20 – La munitionette
21 – Viola
22 – Punti di vista
23 – DDI
24 – SABOTAGGIO
25 – Ivano & Alessia
26 – LA PENSILINA
27 – Chiaroscuro
28 – ROSSO BOLGHERI
Accetta Informativa