7 – Destinatario sconosciuto

6 Dic di editor

7 – Destinatario sconosciuto


Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.

È tutto quello che riesco a dirmi, mentre con la mia vecchia Citroen guido sulla superstrada.

Fuori dal finestrino la nebbia spegne i colori dell’autunno, stemperandoli in un unico e uniforme biancore chiazzato qua e là di macchie indistinte: boscaglie, vecchie fabbriche in disuso, ruderi di cascine. Ho spento la radio per godermi questa intimità, il tepore che mi avvolge salendo dai piedi, il rumore monotono del motore. Per un momento mi sembra di essere su di una pilotina sperduta nell’oceano.

Ritorno al pensiero di prima e siccome mi piace essere preciso mi dico questa volta: è vero che non sempre chi ha i capelli bianchi fa le scelte più sagge.

Infatti. Partire da Palermo con una decrepita Due Cavalli per raggiungere uno sconosciuto ospedale di Vercelli, alla vigilia del proprio ottantanovesimo compleanno per giunta, no, non è davvero una scelta saggia. Ma adesso che sono quasi arrivato, a furia di caffè e sigarette fumate in fretta con il finestrino aperto, di colpi di sonno scongiurati all’ultimo momento, di soste nell’area di servizio per lasciarsi andare un po’ all’irresistibile richiamo del sonno, di sorpassi azzardati per non perdere l’uscita giusta, mi sento come un cavaliere antico che, sul suo cavallo, ha compiuto una grande impresa.

Mentre parcheggio nel piazzale dell’ospedale, ripenso a Clelia quando avevamo, in due, meno di cinquant’anni. Clelia che mi trascinava a ballare anche quando non ne avevo voglia, che non era mai stanca di parlare, che cantava una canzone spagnola mentre tornavamo in bicicletta dalla spiaggia di Mondello.

Clelia, l’unica veramente amata. A cui ho scritto lettere piene d’amore per quasi tutta la mia vita.

La porta automatica dell’ospedale si apre, davanti a me la coda alla reception.

Clelia che ora sta morendo di cancro e che ha chiesto di vedermi.

Aspetto il mio turno per chiedere informazioni.

Cosa posso dirti Clelia? Forse che sei partita, proprio nel momento in cui avrei voluto proporti di sposarmi, come ultimo tentativo di trattenerti. Di impedirti di scappare, ma come si fa a trattenere il vento o le nuvole?

Mi mandano al terzo piano, primo corridoio a sinistra. Dalle finestre la nebbia rende la città relativa.

Fermo il primo che trovo, un infermiere giovane dall’aria sciupata, mi specchio nei suoi occhi stanchi, forse ha appena finito il turno. Chiedo di Clelia pronunciando nome e cognome ad alta voce, come fanno gli anziani un po’ duri d’orecchi.

Cambia espressione, mi chiede se sono un parente. No che non lo sono e per giunta non la vedo da trent’anni- dico sempre più agitato e ad alta voce, come se ce l’avessi con lui.

Mi guarda fisso e aggiunge che purtroppo sono arrivato troppo tardi.

Altro che cavaliere antico, adesso sento che tutta la stanchezza del viaggio, forse anche della vita, mi cade addosso come un macigno, e mi piega le ginocchia.

Per fortuna poco prima di accasciarmi lui mi afferra sotto le ascelle e mi fa atterrare su una sedia lì vicino, dove resto con lo sguardo perso e il mento sul petto.

Poi, finalmente, comincio a piangere come un bambino, ma in fondo che differenza c’è.

E il film della mia inutile vita si riavvolge ancora una volta per ritornare da capo, con la certezza che forse la mia dote migliore è stata quella di arrivare sempre in ritardo, di perdere sempre l’ultimo treno, e non riesco a vergognarmi nemmeno quando mi ascolto mentre parlo di me a questi due o tre sconosciuti che adesso mi sono venuti intorno, non so se per curiosità o compassione.

Senta – mi dice l’infermiere dopo aver sentito da dove vengo e del mio viaggio – io non la conosco, ma per me esistono solo brave persone, che ne dice di venire a casa mia a riposarsi un po’? Alla mia compagna non dispiacerà. Così potrò raccontarle meglio di Clelia. Mi ha lasciato un compito prima di morire, recapitare una decina di lettere che ha scritto e non ha mai voluto spedire. Magari mi può aiutare a rintracciare il destinatario.


4 Commenti

  1. Una bella storia, raccontata con grazia. Ho apprezzato soprattutto l’uso del vocativo «Cosa posso dirti Clelia?…»: non c’era forse modo migliore per fornire quell’informazione.

  2. Racconto che inizia bene e continua anche meglio: con il procedere della narrazione entriamo sempre di più nell’animo del protagonista, riuscendo a comprenderlo. Il penultimo paragrafo è, a mio parere, il punto più alto dell’intero testo. L’uomo è al culmine della disperazione e della coscienza dei propri errori e, proprio in questo momento, interrompe la narrazione e ci rivela all’improvviso, con naturalezza, i suoi interlocutori. Raffinato.

  3. Un buon racconto, triste e un po’ malinconico, ma non straziante come potrebbe risultare, considerati gli eventi. Il tema centrale conferma e amplifica l’assunto dell’incipit: di fatto la saggezza non esiste, qualunque sia l’età di una persona. Il protagonista, nella fattispecie, saggio non lo è mai stato… Ben descritto il protagonista che in poche righe riesce a trovare una bella plasticità. Linguaggio equilibrato, corretto, pulito. Il tono cade un po’ nelle ultime righe, che meritavano una rilettura più attenta per essere rese più leggere e in armonia col resto del racconto.

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