“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!”
“No, non venire che sei vècio!”
“Macchè vecchio! Io sono in forma smagliante, mi sento come se dovessi rimanere così per altri 5000 anni!”
“Guarda che devo attraversare tutta la cima e portare il mio carico di formaggi e arzèle in Vallelunga, ci sarà tanta neve, falìva anche adesso.”
“Secondo me vuoi andare da solo perchè di là ci sono le figlie del conciatore. E lo so che sono disponibili da sole o in gruppo…”
“Sono donnine per bene, le figlie del garbàr. A cosa servono le femne se non a renderti felice?”
“Servono a stancarti, ecco a cosa servono. Infatti mi pare più bello farmi tutta la strada nella neve con te che stare ancora qui ad ascoltare mia moglie.”
“Mica devi ascoltarla davvero, basta che muovi zuca in so e in zò ogni tanto…”
“Dai, vengo con te e le figlie del conciatore ce le dividiamo. Sono meno giovane di te, ma ho dei tatuaggi che piacciono alle pulzelle.”
Fu così, che dopo un lauto pasto a base di cervo e dormita ristoratrice Giorgio e Omobono si misero in viaggio.
Era mattina presto, il sole non aveva ancora fatto capolino attraverso le cime, ma il cielo era già dipinto di un tenue rosa dorato: si prospettava bel tempo. Quando i due uomini si incontrarono ogni cosa era ricoperta da una seconda pelle di ghiaccio. Avrebbero patito molto freddo, ma ciò non li spaventava: entrambi erano nati e cresciuti in quelle zone.
“Vè, Omobono, ricordati di tòr lo speck di stambecco.”
“Ce l’ho! Tu piuttosto, non dimenticare i formaggi!”
I due uomini attraversarono la vallata a passo svelto, parlottando del più e del meno. Quando incontrarono i primi clivi del crinale l’andatura rallentò parecchio e, tra un ansimo e l’altro, risalirono il pendio fino alla cima. La neve si era fatta sempre più alta ed era molto faticoso procedere, tanto che spesso si fermavano accampando una qualche scusa per non ammettere al compagno la stanchezza.
Il percorso non stava presentando sorprese e i due si godettero un breve pranzo accecati dal sole, il cui riflesso era moltiplicato esponenzialmente dal biancore imperante.
“Varda, lazò c’è la felicità.”
“Arriveremo in tempo per bere qualcosa e cenare tutti insieme.”
“Mi sfregolo le mani, non so se per il freddo o per il pensiero del dopocena.”
“Giorgio, tirati su che partiamo.”
“Ci sono dei punti engiazzàdi, vedi di non cadere perchè sennò ti mando giù a svoltolon!”
“Ci scendi poi te rotolando. Te l’ho detto che sto alla grande!”
Meglio non sapere esattamente come proseguì quella giornata, certo è che i due arrivarono a destinazione e che tutto (ma proprio tutto) andò secondo i loro concupiscenti piani.
Non vorremmo disturbare il lettore con queste impudicizie, ma per il buon esito della narrazione dobbiamo svelare che a tarda notte nel fienile del conciatore c’erano: i suoi soliti animali, le sue quattro figlie e i nostri due protagonisti, tutti vicini vicini, che il gelo non perdonava.
Qualcun’altro però dimostrò di non perdonare: con una lanterna in mano, strascicandosi per il troppo vino tracannato, arrivò il conciatore che, notando le pudende in mostra, si alterò grossolanamente! Prese il vicino forcone e iniziò a rincorrere i due mal- (o ben-, deciderà il lettore, secondo il suo punto di vista) -capitati, che iniziarono a scorrazzare per il cortile in costume adamitico!
Saranno stati dei felloni, ma un freddo così non lo augureremmo neanche a loro!
Così, tra grida, botte e schiamazzi, i due abbandonarono ogni ricordo delle gradite carezze e, per Giorgio, dei propri averi. Omobono invece riuscì eroicamente a coprirsi e raccattare alcuni oggetti mentre l’amico veniva battuto, poi si mise velocemente in marcia per il ritorno.
Purtroppo non fu abbastanza svelto a scomparire nel bosco: il vecchio conciatore lo colpì alla spalla con un colpo d’arco magistrale, e la punta della freccia in selce penetrò le carni del nostro malavventurato amico, che strisciò finchè potè verso la cima e la salvezza: nessuna delle quali furono raggiunte, anzi, a raggiungerlo fu una poderosa tormenta di neve che lo ricoprì. Per secoli.
“Giorgio” fu il suo ultimo pensiero “me la sono cercata, ma muoio da eroe. Tra 5000 anni mi troveranno e racconterò tante cose. Avrò talmente tanta confidenza con quei nuovi amici che mi soprannomineranno addirittura Ötzi!”
Valutazioni Giuria
1 – Fuga per l’immortalità – Valutazione: 18 Gaia: Un racconto alquanto grottesco, così come risulta piuttosto fuori luogo (o quanto meno fuori tempo…) la allusione ad Otzi, la mummia di un uomo vissuto probabilmente oltre 5000 anni fa… A parte qualche errore (qualcun’altro) e l’impiego non sempre puntuale degli avverbi (“si alterò grossolanamente”), il linguaggio è corretto e vario; i dialoghi, tuttavia, sono un po’ poveri e il contenuto risulta poco coinvolgente; nella seconda parte il racconto migliora, con l’appello al lettore e il tono da novella d’altri tempi. L’insieme risulta comunque un po’ “goffo”, privo di armonia, appesantito dallo squilibrio fra le due parti. Matteo: Dal momento che il racconto riprende chiaramente la vicenda di Otzi, l’ambientazione dovrebbe essere totalmente differente. Niente speck, nessun conciatore proprietario di un fienile, nessuna lanterna. Anche nel caso in cui questa discrepanza fosse voluta, non mi sembra per nulla efficace. Il narratore inoltre è assolutamente ingombrante nella seconda parte. Paola: La narrazione, di impronta boccaccesca, è abbastanza sviluppata. Il lessico, a metà tra il dialettale e l’italiano trecentesco, con espressioni come “pudenda”, ben accompagna il taglio del racconto. Pietro: Il racconto ha due voci distinte. Nella prima parte il narratore è invisibile, nella seconda invece è giudicante e, dunque, molto visibile. Le due voci di principio possono coesistere, ma per la buona riuscita del racconto è meglio sceglierne una sola. La battuta finale non è coerente con la forma e il tenore dei pensieri di Omobono nel resto del racconto, né plausibile. Starebbe invece molto bene in bocca al secondo tipo di narratore. La scelta di alcuni tempi verbali nelle battute iniziali scombussola la linea del tempo, compromettendo la comprensione del testo. |
«Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami vengo con te» gli grido dalla camera.« E’ mattina Rosa. Devo sbrigarmi. Il treno non aspetta!» In un secondo ricordo che oggi è il giorno della sua partenza. Giorgio sarebbe andato a Basilea, dove lo attendeva un ottimo impiego. Per intere settimane mi aveva assicurata che la nostra relazione avrebbe retto anche alla distanza, ma, dentro di me, sentivo che quello era un addio. Seduta sul balcone mi accendo una sigaretta e, dall’alto lo saluto, mentre si affretta a raggiungere la stazione. Il mio pianto disturba la tranquillità della città. Mentre sto per rientrare, la ringhiera del terrazzo inizia a tremare. Oddio! E’ il terremoto? Rientro in casa veloce e mi accuccio sotto il tavolo della cucina. Dopo pochi secondi non si muove più nulla. Guardo l’orologio: sono le 10.25.
Vengo assalita dalle assordanti sirene di tutte le forze dell’ordine che spezzano il silenzio. Vedo la gente che si riversa sulle strade, diretta verso la stazione. La ferrovia, grazie alla sua particolare posizione geografica, concede di essere lo snodo di tante direzioni. Scendo le scale e vengo travolta da tantissima polvere e da un penetrante odore di bruciato. La gente grida, piange, si agita. Continuo a non capire finché non giungo sul luogo.
Innanzi a me si presenta un’immensa voragine di detriti, sangue e disperazione.
La popolazione sembra un vespaio impazzito. Poi, immediatamente, realizzo che Giorgio è uscito da casa proprio per andare in stazione. Mi guardo attorno e comprendo l’entità del disastro.
Una strage. E’ il 2 Agosto del 1980 e Bologna è stata devastata. Il battito del cuore accelera vertiginosamente. Sono al centro di un’apocalisse . Comincio a temere. Nel disperato tentativo di trovare Giorgio, mi precipito nella mischia e offro il mio aiuto. Ciò a cui assisto non ha termini per essere definito. L’umanità che perde la propria identità smistata tra la cenere dei cadaveri e dell’edificio. Ho visto uomini recuperare corpi sotto le macerie, medici ed infermieri, rientrati dalle loro ferie, per contribuire ai soccorsi. L’orologio della stazione fermo alle 10. 25, la stazione divenire un immenso cimitero. Chiamo Giorgio, disperatamente, nome e cognome. Il fumo e la polvere bruciano nella mia gola ma continuo, imperterrita, a gridare. Il suo treno era sul primo binario. Le forze dell’ordine non mi permettono di addentrarmi oltre. Qualcuno inizia a parlare di una bomba. Incredula, continuo la ricerca del mio amato, nel mezzo del nulla che è rimasto del piazzale Ovest della stazione. Sono arrivata lì alle dieci e quaranta del mattino, ma dopo moltissime ore, non riesco ancora a muovermi di qui.
Ho aiutato alcune persone a ricongiungersi ai propri cari, altre a salire sui mezzi di soccorso messi a disposizione ma di Giorgio nessuna traccia. Dentro di me sorge la speranza che non si sia diretto subito in stazione. Nella mia testa si rincorrono tantissime ipotesi fino a che non scorgo giungere l’autobus numero 37.
Vedo gente che piange mentre osserva le persone che vengono caricate dentro di esso. «Perché sono così afflitte?» domando. «Perché quello non è più un bus ma un carro funebre. Dentro vengono caricati solo i cadaveri». Senza attendere ulteriori spiegazioni mi precipito all’interno. Mi faccio largo tra la gente e infine vedo.
Non Giorgio, ma la morte. La disumana capacità dell’odio che l’essere umano può perpetuare verso la sua specie. Lacrime pesanti solcano il mio viso. Non sò neppure da quanto tempo sono qui, la mia percezione del tempo è ferma a questa mattina, mentre fumavo. Assorta nei miei pensieri vengo ridestata da un poliziotto. «Mi scusi Lei conosce Giorgio Rasi?» Lo osservo con incredulità e gratitudine : «Sì è il mio compagno». «Queste sono le sue cose- mi dice- è indicato l’indirizzo di casa e come referente è segnalata Rosa Palestro. E’ Lei?» «Sono io, sono io» – rispondo esagitata- «dov’è Giorgio?» «Sull’autobus 37». Priva di ogni energia vitale mi accascio a terra.
Sento una scossa elettrica pervadermi il corpo: no, non è il defibrillatore ma la sensazione che avevo avuto stamattina. Quella che non lo avrei rivisto mai più perché la distanza ci avrebbe separati. Invece sono bastati pochi centinaia di metri.
Valutazioni Giuria
2 – CENERE – Valutazione: 19 Gaia: L’idea funziona, la trama coinvolge. La scrittura, ahimè, ha diverse imprecisioni e alcune frasi sono proprio scorrette , ad esempio: ” La disumana capacità dell’odio che l’essere umano può perpetuare verso la sua specie”, dove credo che “perpetuare” stesse per “perpetrare”, verbo comunque non perfettamente adeguato…; oppure: “La ferrovia, grazie alla sua particolare posizione geografica, concede di essere lo snodo di tante direzioni”… Una rilettura più paziente avrebbe probabilmente consentito una efficace rifinitura. Matteo: La separazione definitiva tra i due innamorati, causata dall’attentato, è raccontata in maniera molto incisiva. Purtroppo però la narrazione è minata da alcune imprecisioni a livello di consecutio temporum, soprattutto nel primo paragrafo e poi nella parte centrale, dove il passato prossimo sostituisce a volte il presente. Paola: L’idea di ambientare la vicenda a Bologna nel giorno della strage del 1980 rende tutt’altro che scontata una separazione tra i due amanti, che avrebbe potuto prendere una piega più banale. Incisiva anche la scelta di riprendere il concetto di definitività dell’abbandono, spostandolo sul piano ineluttabile della morte. Dal punto di vista dello stile ci sono alcune imprecisioni che, tuttavia, non penalizzano la lettura. Pietro: L’idea di raccontare una separazione con un attentato terroristico è forte e, a mio avviso, funziona. La narrazione un po’ meno. Il motivi principali sono alcune, improvvise «uscite» dall’immedesimazione nel personaggio e nel momento presente («L’umanità che perde la propria identità…», ad esempio, è un pensiero concettuale poco plausibile), e alcuni errori nell’uso dei tempi verbali. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
A quelle parole mi fermo, mi volto. Lo riconosco.
“Aldo, Aldo Mei! Ma che diavolo ci fai qui, vecchio pirata?”
“Oh, dopo. Dimmi tu, piuttosto”
Indico con un ampio gesto il paesino poco più a valle.
“Suggestivo, vero? Peccato che da quando hanno aperto la superstrada stia lentamente morendo. E dire che la vista sul mare è di una bellezza…”
“E quindi?”
“Quindi, interveniamo noi di Ex Novo. Acquistiamo le case, le ristrutturiamo se occorre et voilà! Ecco che un paese morente come Collemezzo diventa un magnifico albergo diffuso…”
“Ok. E gli abitanti?”
“Oh…hanno fatto, chi più chi meno, un po’ di manfrina ma alla fine ho convinto quasi tutti. Manca solo il proprietario della autofficina Mia, dove la gente del posto fa rimettere in ordine trattori, mietitrebbia, cose cosi, da contadini…”
Mi blocco, sento il gelo nelle ossa. Mia Belli, come avevo potuto dimenticare?
Ero stato anche testimone, buon Dio!
Lui fa un ghigno storto, mi punta il bastone verso il petto.
“Oh, ci sei arrivato…Ho dato il nome di mia moglie all’officina quando è morta di un tumore ai polmoni, sei anni fa. Fumava, e come se fumava. Però cucinava da Dio. Forse un po’ troppo condito, per le mie vene e il mio cuore. Ma, accidenti che goduria!”
Un quarto d’ora dopo, sono seduto al suo fianco a guardare il mare lontano e non solo…
“Perché quell’ambulanza?”
“Oh, niente. Un problema ai semiassi. Ah, sai che Giulia è diventata volontaria della CRI?”
“Giulia tua sorella?”
“E chi se no? Da quando è finita col Teo vive qui, con me. Certo, lei è invecchiata meglio. Buono sto Vermentino, eh?”
Appoggio il bicchiere sul tavolino arrugginito, indico quella roba bianca e azzurra chiamata Mia Riparazioni e Manutenzioni con il suo corredo di rottami…
“Aldo, per la miseria…mi dici perché ti incaponisci così? Mi dici a cosa ti serve sto ca… di officina se i clienti non ci sono più?”
Ancora quel sorriso storto…
“Ti ricordi i vecchi tempi, le nostre sfide in auto?”
“Cosa vuoi dire?”
Apre un cassetto del tavolo, ne prende una cartina.
“Questo è il piazzale dell’ospedale di Riva. Partendo da Pianalto ci giungi o raggiungendo la superstrada e uscendo a Mongallo o facendo la costa, vedi? Il bello è che il navigatore da gli identici tempi di percorrenza, anche se, a dire il vero, la litoranea in questa stagione è trafficata, per non parlare dei quattro semafori che la interrompono a Cabassa e Coltorto…”
Lo interrompo.
“Ok, ho capito. E quindi?”
“Quindi al mattino di dopodomani, alle otto in punto, ci troviamo nella piazza di Pianalto e partiamo. Tiriamo a sorte sul tragitto che percorreremo e via; se arrivi prima tu l’officina è tua e magari anche Giulia, chi sa, le sono sempre piaciuti i vincenti”
“E se…?”
“Sai, Giorgio? Penso che tu abbia ragione: è inutile tenere in piedi una baracca come questa se clienti non ce ne sono più. Se vinco, l’albergo che stai progettando è mio”
Ridacchio tra me mentre corro sulla superstrada.
Per portare a termine un’impresa come trasformare un paese in albergo non si dovevano solo convincere i proprietari delle case a vendere, c’erano conoscenze, da coltivare.
Era bastata una telefonata all’assessore alla viabilità del comune di Riva per convincerlo a regolare il timer dei quattro semafori sulla litoranea perché scattasse il rosso quando una certa auto gli si avvicinava.
Oh, non che ci contassi molto, sul rispetto delle regole da parte del vecchio pirata, ma se voleva portare a casa la pelle, e magari non falciare qualche vecchietta…
Arrivo all’ultimo incrocio.
Verde, bene.
Mi blocca la sirena di un’ambulanza, la faccio passare, mi accodo, arrivo al piazzale.
Nessuna traccia di Aldo e della sua Mini, accendo una sigaretta.
La donna che scende dall’ambulanza si gira un attimo verso la mia direzione e il cuore mi si ferma.
No, non è invecchiata male, Giulia. Proprio no.
Vado verso di lei come un automa.
Lei alza gli occhi, mi guarda, mi riconosce. Dovrei gioirne, ma il gelo non mi lascia…
“Stavamo riportando l’ambulanza al deposito, quando ho visto la Mini in un fossato. Un malore, visto che non c’erano segni di incidente”
“Come un malore?”
“Oh, non lo sai? Ha una brutta cardiomiopatia dilatativa, è in attesa di trapianto”
FINE
Valutazioni Giuria
3 – LA SFIDA – Valutazione: 20 Gaia: Il racconto non sta tanto in piedi: la trama non è adeguatamente strutturata. Il dialogo fra i due protagonisti non convince, né tanto meno l’idea della gara. I vari passaggi non sono chiari, non sono naturali e risultano privi di colore. Anche il finale manca di patos e lascia il lettore un po’ in sospeso, come se la sfida non avesse avuto una conclusione. La scrittura, invece, è coerente e corretta. Matteo: Nel complesso il racconto non è molto credibile. Se davvero Giorgio si è occupato dell’acquisizione delle proprietà del paese, dovrebbe già essere al corrente della situazione di Aldo. Sarebbe più naturale se, incontrandolo per strada, cercasse di evitarlo: in questo caso la frase dell’incipit sarebbe davvero perfetta. La sfida tra i due è decisamente poco realistica: non si capisce per quale ragione Giorgio dovrebbe mettere a repentaglio il suo lavoro senza alcuna motivazione. Paola: L’esordio denuncia una confidenza tra i due personaggi che tuttavia stride poi con il fatto che il protagonista non è al corrente che il proprietario dell’autofficina sia in realtà l’amico di vecchia data. La sfida alla “Fast and Furious” tra due uomini attempati è poco realistica ma dà un tocco di vitalità. Ci sono alcune imprecisioni stilistiche. Pietro: Il racconto non genera la tensione necessaria alla rivelazione finale. Credo che il problema sia strutturale: l’idea della sfida avrebbe potuto essere sfruttata meglio, magari iniziando nel mezzo della gara e ricostruendone a poco a poco l’importanza con un paio di flashback. Nelle singole scene la prosa scorre; la storia è pensata nella sua interezza con un’ottima economia dei dettagli, sempre funzionali. |
«Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.»
Suo fratello si girò a guardarla, con una gamba già dall’altra parte della finestra: vide uno scricciolo determinato.
«Sai che potrebbe essere pericoloso» le ricordò.
«Più che restare qui?» rispose Clara.
«D’accordo, ma sta attenta, ti prego.»
«Fai strada.»
Scivolarono giù per il discendente e atterrarono sul soffice prato dell’orfanotrofio.
Solo allora Clara si rese conto di una stonatura: «Stavi per… Mi avresti lasciata qui! Come… come…»
«Sarei tornato a prenderti, che credi? Ora non è il momento. Andiamo. Non far rumore.»
~~~
La mattina dopo la signora K ricevette la sconvolgente notizia: i fratelli Lupi mancavano all’appello. Non riusciva a crederci, una fuga dal suo istituto! In preda a una furia omicida convocò i suoi aiutanti, pronta a sbranare chiunque avesse avuto un minimo di responsabilità in quell’increscioso incidente.
E sbranò, eccome se sbranò: i sorveglianti delle camerate, la guardia al primo cancello, quella al secondo…
~~~
Il brigadiere Calligaris ascoltò il racconto dei due ragazzi con sempre maggiore scetticismo, ma quando Giorgio arrotolò una gamba dei pantaloni fino al polpaccio scarnificato i suoi dubbi scomparvero, sostituiti dall’orrore. Organizzò in fretta e furia un drappello e dopo venti minuti fece irruzione nell’orfanotrofio della signora K. La trovò che si stava ancora occupando di uno dei sorveglianti.
~~~
Da Il Banditore del 17 novembre 18**
Sconvolgente scoperta!
ORFANOTROFIO GESTITO DA CANNIBALI!!!
Arrestata la responsabile, sorpresa nell’atto di mangiare un suo dipendente.
FINE
Valutazioni Giuria
4 – DIVERTISSEMENT N° 1 – Valutazione: 18 Gaia: Decisamente apprezzabili alcuni spunti arguti (la direttrice che “sbrana” i dipendenti, non solo metaforicamente, come si sarebbe indotti a pensare…e l’effetto spiazzante della notizia della direttrice cannibale. Nel complesso, tuttavia, ci sono troppe incoerenze: il fratello pronto a lasciare sola in uno scenario tanto orribile la sorellina; la gamba scarnificata che salta agile dalla finestra e scappa in barba a ben due livelli si sorveglianza… Ci voleva maggiore cura e, probabilmente, una trattazione più estesa dei particolari per dare il giusto scenario alla scioccante “verità” . Buono dal punto di vista linguistico. Matteo: Capisco che si tratti (come dice il titolo) di un divertissement, ma l’aspetto del cannibalismo, introdotto giocosamente, non riesce a reggere da solo il peso del racconto, che appare incompleto. Approfondirei la vicenda dei due fratelli, dal momento che la loro funzione attualmente potrebbe essere svolta allo stesso modo da un singolo personaggio. Paola: L’idea era buona e lasciava presagire una pagina di cronaca interessante o una denuncia alla Oliver Twist. Purtroppo manca lo sviluppo che invece era atteso. Anche la dinamica tra i fratelli poteva essere oggetto di approfondimento. L’allusione al cannibalismo è eccessiva, sarebbero state delle violenze. Sul piano stilistico qualche errore di punteggiatura. Pietro: Il cortocircuito tra il letterale e il figurato di «sbranare» è, certo, molto invitante, ma dubito che la psicologia del cannibalismo sia tale che la fame segua alla rabbia, o che si possa fare uno spuntino a base di polpaccio di bambino vivo (o, ancora, che quel bambino poi possa correre). A parte questo mi sembra che la storia, molto interessante, finisca non appena iniziata. Perché non sfruttare lo spazio rimanente? |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
“Ehi Gigi! No, no! Niente di urgente, una cosa personale”
“Okay, però non fare tardi. Questa sera non possiamo sbagliare niente!”
“Tranquillo! Cacchio! Questa sera è troppo importante, saranno le prove ufficiali. Poi, finalmente, entreremo in sala incisioni!”
“Sono emozionatissimo, sono anni che aspettiamo questo momento”
“Già! Sembra impossibile ma finalmente ci siamo!”
Finalmente Giorgio rallenta la corsa per riprendere fiato!
“Una panchina, sediamoci un attimo”
“Ma andavi così di fretta!”
“Sì, sì. Ma devo riprendere fiato. Correre e parlare contemporaneamente proprio non ce la faccio”
Gigi ride dell’amico.
“Sempre fuori forma. Dovresti venire a correre con me”
“Sei impazzito? Potrei morire dopo dieci minuti”
Altra risata
“Giorgio, ma questa sera ci sarà anche quella nuova ragazza?”
“Gloria? Sì, ha detto che ci sarà sicuramente”
“Ottimo. Speriamo che rimanga, ha una voce favolosa! Potrebbe anche cantare da solista”
“Vero, ma non diciamolo a Gaia. Sai che è piuttosto suscettibile!”
“Già. Per ora aspettiamo. Poi potrebbero alternarsi, cantare ciascuna un proprio pezzo”
“Secondo me potrebbero benissimo duettare. Verrebbe bene!”
“Sì possiamo provare. Finite le prove ne parleremo. Magari davanti ad una pizza!”
“Ehi! Non fare il furbo! Questa volta è serata di hamburger! La pizza l’abbiamo presa l’ultima volta”
“Hai ragione! Dai ti lascio andare, sembravi avere molta fretta”
Giorgio guarda l’orologio, pensieroso. Sembra essersi dimenticato dell’appuntamento.
“Ma in verità credo di essere in anticipo, posso aspettare ancora un poco”
“Piuttosto, Gigi, non abbiamo ancora deciso il nome del gruppo e proprio non ho idee”
“Io un’idea ce l’avrei. Che ne dici di G-roup?”
“Group? Che cavolo di nome è “Gruppo” per un gruppo musicale?”
“Non group, ma G-roup! Staccato!”
“Comunque non capisco. Che senso ha?”
“Ma come! Giorgio, Gigi, Gaia, Graziano. La nuova ragazza Gloria! Abbiamo tutti il nome che inizia con la lettera G”
Giorgio guarda Gigi, abbastanza perplesso.
“Non so, non mi convince…”
“Altra cosa di cui discutere questa sera. Sarà una lunga serata! Comunque ora ti lascio al tuo appuntamento”
Gigi si alza per andarsene, ma Giorgio rimane fermo sulla panchina e non accenna a muoversi
“Ehi tutto bene?”
“Senti Gigi, non prendermi in giro, ma non ricordo più dove stavo andando! Cacchio! Eppure mi sembra che fosse importante!”
Gigi scoppia a ridere!
“Sei il solito smemorato! Sarà meglio che rimani con me fino all’ora delle prove, altrimenti ti dimentichi anche di quelle!”
“Non è possibile, dannazione! Non è possibile! Era qualcosa di importante, era per il gruppo!”
“Dai, vedrai che ti tornerà in mente. Andiamo! Ti offro un gelato”
Giorgio si alza e i due amici si incamminano verso la gelateria più vicina.
“Giorgio, guarda! Quello non è Graziano?”
“E’ proprio lui. Dove starà andando così di corsa?”
“Graziano! Ehi Graziano! Aspettaci, veniamo con te!”
“Ciao ragazzi! Non posso aspettarvi… ho un appuntamento urgente!”
“Okay! Ma non fare tardi questa sera!”
Graziano si ferma a prendere fiato.
Mezz’ora dopo, alla stazione, un impresario, più famoso per la sua disonestà che non per le sue abilità, sale su un treno per tornare a casa.
Una volta seduto prende il telefono e fa una chiamata.
“Ciao! E’ andata buca. Non si sono presentati all’appuntamento”
Riceve una brusca risposta!
“Che dovevo fare? Mettermi a cercarli per tutto il paese?”
“Questa volta mi hanno fregato! Ne avevo contattati due! Si sono rivelati più furbi del previsto! Eppure sembravano solo un gruppo di ragazzetti smemorati”.
Valutazioni Giuria
5 – Truffatore dimenticato – Valutazione: 14 Gaia: Leggendo questo racconto mi è venuta in mente quella nenia infantile che ripete sempre la stessa storia, senza mai concluderla: “c’era una volta un re che disse alla sua serva: “raccontami una storia”; la storia incominciò: C’era una volta un re che disse alla sua serva: “raccontami una storia”…E via dicendo. Giorgio e Graziano ripetono la stessa scena, ma non si capisce il seguito della storia… Una narrazione poco coerente… che non coinvolge e non incuriosisce, ma lascia “perplessi”. Matteo: La comparsa del truffatore alla fine del racconto non funziona molto. La sua figura dovrebbe essere anticipata (giocando magari sul diverso livello di conoscenza del lettore rispetto a quello dei personaggi) e approfondita. Il lungo dialogo tra i due membri della band non mi sembra molto a fuoco. Paola: Due domande sorgono spontanee: come mai sono così importanti le prove di quella sera e … di quale genere di truffa dovrebbero essere oggetto i ragazzi? Manca la struttura del racconto e quindi anche la conclusione rimane sospesa. Pietro: Ho letto e riletto ma non ho capito che cosa sia successo. Perché Giorgio e Graziano rispondono allo stesso schema? Che cosa voleva l’impresario? Sembra un racconto dell’assurdo (o fantastico) che non arriva al punto. |
- – Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te…
- – No, non voglio che vieni, ok? Lasciami in pace, una buona volta!
Lei sorrise, quasi materna.
- – Sai che non è possibile.
Sì, lo sapeva.
- – Mi spieghi cosa vuoi? Non ho niente da dirti, non voglio nemmeno dirti nulla, ormai è troppo tardi, il tempo è passato.
Lei abbassò lo sguardo.
- – Non esiste “il tempo”. È tutto “qui e ora”, in eterno. Ieri era il “qui e ora” di domani, domani sarà il “qui e ora” di oggi.
- – Quindi, secondo te, esiste solo il “presente”? Il presente è niente, non appena lo nomini diventa già “passato”… ma basta con questi pensieri inutili. Che cosa pensi di ottenere? Che cosa crediamo di ottenere tutti noi con pensieri di questo tipo? In tanti ci hanno provato, senza cavare un ragno dal buco, con il solo risultato di avvelenarsi la vita perché sono volati troppo vicino al sole. Ci avevano avvertito, i miti, ma non abbiamo ascoltato… e non è nemmeno colpa nostra, ma di questo desiderio di Assoluto che non riusciamo a ignorare, e che preme, forte, sul cervello e sul petto, come un dovere, un’abitudine, una malattia. Vattene, non voglio più sentire niente.
Ancora una volta lei si fece morbida, come seta.
- – Giorgio, ascolta. Capisco come ti senti. E non posso nemmeno darti troppo torto. Ricorda, però, quanto ci amiamo. Io non dimentico quello che abbiamo vissuto, quello che ci unisce, senza rimedio. Quante volte abbiamo riso, quante volte abbiamo pianto insieme magari guardando la scena di un film o ascoltando musica? Sai, come so io, che quelli sono i momenti più importanti e significativi della vita.
Lui la guardò. Gli occhi lucidi e un sorriso scarabocchiato.
- – Non ce la faccio più. Credimi. Cosa serve essere così? Cosa serve comunicare, anche con te? Chi risponde? Chi ascolta? Sono tutti bravi solo a parlare, a volte senza dire nulla, solo per presenzialismo, narcisismo o per far comunque sentire la loro voce, solo per farla sentire, senza che questo migliori nulla. Ho sempre pensato che sul nostro viso ci siano due occhi e due orecchie a fronte di una sola bocca proprio perché dobbiamo guardare e ascoltare molto di più, di quanto dobbiamo parlare. Vedi? Anche questo è un pensiero inutile, raffermo, impopolare, anacronistico… devo continuare? Non vedi come stanno realmente le cose?
Stavolta l’espressione di lei s’irrigidì, gli ficcò negli occhi uno sguardo insostenibile.
- – E cosa dovremmo fare, allora? Lasciarci? Sicuro? Non mi parlare di “realtà”, non esiste, la realtà è quella che costruiamo noi, con gli altri, attimo per attimo. È solo responsabilità nostra, di tutti, se siamo messi così. Potremmo cambiare le cose ora, ma ci vuole volontà, empatia, bisogna mettere un po’ da parte, solo un po’, i propri interessi e il proprio ego per un benessere comune e riscoprirci tutti legati, anche se ci piace pensare di non dover rendere conto a nessuno, anche se fa paura ed è una cosa “scomoda”: pensare che siamo responsabili gli uni degli altri. La tua natura è questa, è agire e pensare come hai sempre fatto, e seguire la propria natura, nella considerazione e nel rispetto di tutti, è una delle poche occasioni che conosco per essere sereni e in pace con se stessi. È anche per questa tua natura che ti amo.
Lui strinse le labbra, toccato.
- – Anch’io ti amo. Ma sono stanco. Forse non mi rendi più felice come un tempo e non dico che sia colpa tua. Sei la mia anima, letteralmente, ma non possiamo essere sempre soli. Devo andare.
Lei lo bloccò con la voce, irresistibile.
- – Dobbiamo solo far l’amore, ancora una volta, come sempre. Vedrai.
In quel momento Giulia si affacciò alla porta.
- – Giorgio, mi hai sentito prima? Il bimbo ha bisogno di essere cambiato. Puoi fare tu?
Giorgio distolse gli occhi dallo schermo.
- – Sì, amore, arrivo, scusa.
Giulia gli soffiò un bacio dalle mani e sparì.
Lui si alzò dalla sedia, spense il PC, e pensò che anche al di fuori di quel fuoco nero su campo bianco che erano i suoi scritti c’era vita degna di essere vissuta, forse non così grande, ma comunque piena di emozioni tangibili e senza troppe frastornanti oscillazioni.
Mentre si allontanava verso la porta, però, si fermò e non riuscì a non voltarsi a guardare la luminescenza che andava spegnendosi già con nostalgia.
Una voce sussurrò, tutt’intorno, dentro e fuori di lui.
Alla prossima, caro.
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6 – GOCCIA IN ME (ANAGRAMMA DI SÉ) – Valutazione: 27 Gaia: Un racconto pesante, fin dal criptico titolo. Un dialogo straziante fra il protagonista e la sua anima, che lungi dal renderlo pienamente se stesso, pare appensantirlo e tormentarlo. L’alternativa, a dire il vero un po’ angosciante, pare essere feroce: o vivere una vita faticosa e solitaria, ma vera; oppure una vita “facile”, ma superificiale e in qualche modo, non vera. Il richiamo di Giulia che dovrebbe essere gioioso, risulta di fatto una fuga dalla profondità del proprio io… Forse ho male interpretato, ma mi pare proprio che si stia raccontando l’esperienza di una persona incapace di stare nel reale: se è così, il racconto ha una sua coerenza, per quanto possa essere triste. Una nota: il discorso sul “qui ed ora” non regge e, francamente, stona un po’ con il resto. L’uso della lingua è buono. Matteo: L’idea è molto fantasiosa e la forma è piuttosto buona. Il dialogo tra il protagonista e la sua coscienza si rivela, in qualche modo, sorprendentemente reale e concreto. Il centro tematico di questo dialogo non mi sembra però abbastanza preciso. Come se la narrazione girasse intorno al cuore della vicenda, senza mai riuscire a centrarlo definitivamente. Paola: Il racconto sembra incentrato sulla fuga dalla realtà che lo scrittore (se così ho ben interpretato) compie e dalla quale, in ultimo, fatica a staccarsi per ri-immergersi in una realtà più vera ma forse meno intrigante ai suoi occhi. Ma non è forse possibile che sia la realtà ad avere più fascino delle dissertazioni un po’ contorte dei due protagonisti? Una precisazione: il riferimento al “qui e ora” sinceramente non credo sia corretto. “Qui e ora” è solo il presente. Non è possibile effettuare salti temporali con questa locuzione. Pietro: Un tentativo riuscito di dar voce a qualcosa di soffocante, forse alla claustrofobia stessa. Oltre a essere coerente al suo interno, il racconto è anche vero nel senso che questo termine può avere nella narrativa. Ciò non significa che non sia migliorabile: comunicare questa verità in maniera più diretta, ovvero inequivocabilmente e anche a chi non ne ha fatto esperienza diretta, sarebbe il passo ulteriore (passo molto difficile a mio avviso, poiché, se il tema è un «richiamo» assoluto, ogni sforzo di definirlo in oggetti, personaggi, rapporti e così via rischia di tradirlo). |
“Ma dove scappi così di corsa Giorgio? Aspettami vengo con te” gli urlai mentre il suo ciuffo biondo scendeva precipitosamente le scale.
Ero appena uscito sul pianerottolo per bloccarlo e regolare un piccolo conto rimasto in sospeso.
Un mese fa gli avevo prestato 500 euro per pagare l’ultima rata del mutuo. Per un amico e per giunta vicino di casa mi sembrava il minimo. Lui avrebbe fatto lo stesso per me.
Da quando, però, una settimana fa avevo accennato alla restituzione del prestito, si era trasformato in un imprendibile fantasma. Entrava e usciva alle ore più impensate, mi evitava in tutti i modi. Non rispondeva più al telefono e al citofono.
Quella mattina lo aspettavo al varco e, appena ho sentito la chiave girare nella toppa, mi sono slanciato fuori sul pianerottolo ma lui stava già zompettando agilmente di gradino in gradino, incurante dei miei richiami. Non avevo nessuna intenzione di mollarlo. “Adesso basta con le prese in giro, doveva restituirmeli uno sull’altro, punto”- borbottavo con i pugni al petto, i denti stretti e il vento gelido del mattino che mi schiaffeggiava mentre lo rincorrevo. Provai a chiamarlo più volte. Non rispose e scomparve dietro l’angolo. Arrivai trafelato e con il fiato corto all’imboccatura di un vicolo cieco. Credevo di averlo in pugno, invece scavalcò un muretto a secco, attraversò un terreno incolto, in direzione del fiume che in quella zona attraversava la periferia Nord della città. Lo imitai in tutte le sue acrobazie, sconosciute per un animale da divano quale ero diventato. A un certo punto, alla distanza di ottocento metri lo vidi salire sul parapetto del ponte di pietra e lanciarsi nel vuoto. Un brivido gelido mi percosse la schiena, emisi un urlo strozzato che mi lacerò il petto. Non avrei mai immaginato un sì tragico epilogo. Ero estenuato, ma ebbi comunque la prontezza di chiamare il 118 e fornire tutte le indicazioni necessarie e successivamente il 112. “Signor Gilberto, subito saremo…” la chiamata venne interrotta dalla ben nota comunicazione di servizio della Tim che mi informava della necessità di una nuova ricarica. Senza la forza di maledire il giorno e l’ora corsi con tutta la forza dei miei trent’anni. Le rotule scricchiolavano paurosamente e le caviglie mi dolevano oltremisura. Giunto sul ponte mi sporsi prima da un parapetto e poi dall’ altro, ma di sotto l’acqua scorreva serena con un leggera increspatura. Il silenzio assordante era interrotto solo dal battito vorticoso del mio cuore e dall’urlo lugubre delle cornacchie. L’ambulanza e i Carabinieri arrivarono prontamente in contemporanea cinque minuti dopo. Due esponenti dell’arma si calarono con una fune lungo l’argine umido e viscido, fino a una striscia di greto sassoso.
Avrei rinunciato al debito pur di rivederlo vivo, promisi pregando in silenzio. Poi, sotto le poderose arcate del ponte si sentì un vociare allarmato, un certo trambusto. Temetti il peggio. “Grazie mio Dio!” sussurrai con gli occhi rivolti al cielo quando scorsi Giorgio zoppicante in mezzo ai due carabinieri, insieme ad un involucro di plastica nera. Aggrappati alla fune risalirono sul ponte. Il mio vicino dopo esser stato prontamente medicato, con mia enorme sorpresa, venne ammanettato e spinto dentro la camionetta. Attraverso il finestrino mi lanciò un’occhiata di disprezzo. Non capivo. Bel ringraziamento per chi gli aveva appena salvato la vita! Anch’io venni condotto in caserma, interrogato come persona informata e rilasciato.
Quella notte dormii malissimo, tormentato da strani incubi.
L’indomani sul giornale comparve la notizia rivelatrice:” Pericoloso corriere della droga catturato grazie alla prontezza di un valoroso cittadino”. Ero diventato un inconsapevole eroe ma dei miei cinquecento euro neppure l’ombra!
Valutazioni Giuria
7 – Un prestito incauto – Valutazione: 20 Gaia: Nel racconto domina una forte incongruenza fra la dimensione “domestica” del prestito al vicino di casa e lo scenario criminale del traffico di droga; i due piani si mischiano indebitamente, col cordiale vicino che diviene improvvisamente inseguitore di un “pericoloso correiere della droga”. Il tutto ha un che di surreale… Il passaggio fra i due piani di realtà doveva essere più velato per risultare convincente e interessante. Il ritmo narrativo è buono, nonostante qualche imprecisione linguistica. Matteo: Tutta la vicenda mi sembra poco credibile. Un corriere della droga che rischia di attirare inutilmente l’attenzione chiedendo un prestito al vicino di casa e non restituendoglielo in tempo. Un inseguimento da film d’azione che nasce da una motivazione poco concreta (in fondo abitano sullo stesso pianerottolo, il protagonista potrebbe semplicemente aspettare che l’altro torni a casa). Polizia e ambulanza dovrebbero arrivare a sirene spiegate, trattandosi di un’emergenza, quindi il corriere dovrebbe sentirli e scappare. Il protagonista sembra accettare che un suo amico sia un criminale senza battere ciglio (al contrario, questo mi sembra l’aspetto più interessante del racconto). Oltre a questo, nella prima frase del lungo paragrafo centrale la consecutio temporum è sbagliata. Paola: La vicenda narrata solleva dei dubbi: come poteva aspettarsi il corriere della droga di non essere nuovamente intercettato dall’amico nei giorni successivi? Perché scappare allora? Soprattutto avendo per le mani una verità ingombrante… La storia dell’inseguimento è piuttosto avvincente ma poco congruente. Pietro: Il racconto, ben concepito, perde molta della sua efficacia poiché gli snodi della trama non sono giustificati. Perché Giorgio scappa e si getta nel vuoto come fosse inseguito dalle forze dell’ordine? Perché Gilberto chiama il 112, quando è preoccupato solo della salute di Giorgio? Inoltre – ma qui sono più incerto – come può, Gilberto, interrogato in caserma, non farsi un’idea sul motivo dell’arresto di Giorgio? La prosa scorre, esclusi un cambio isolato di tempo verbale («ho sentito», «mi sono slanciato») e diverse espressioni un po’ abusate o stilisticamente inadeguate (ad esempio «animale da divano», il brivido lungo la schiena, l’urlo strozzato, l’urlo che lacera il petto, il «sì» tragico epilogo, il silenzio assordante interrotto solo dal battito del cuore…). |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.”
L’ha raggiunto sulla strada, dietro all’uscita del teatro, adesso lo trattiene per un braccio.
“Non cercare di fermarmi, sono stanco, me ne vado, lascio la compagnia.”
“Ti prego non farlo.”
“E invece sì, sono stanco di essere trattato così. Ma non è solo quello.”
Il marciapiede è sommerso dalle foglie che l’autunno ha sparso sui viali della città, dove ancora sopravvivono gli ultimi alberi ormai ridotti a sagome stecchite.
“Ti capisco, forse Teo non è sempre facile da sopportare, ma sono convinta che sia un grande regista.”
“Non lo so, ho i miei dubbi, e per di più gli altri due, gli assistenti: totali incompetenti. Ma soprattutto, c’è qualcosa che non va in questa commedia. Io lascio, non ne voglio più sapere.”
“E cosa fai? senza il teatro tu sei morto.”
“Il teatro, il teatro…cerca di capire. Qualcuno, che ha tutto nella sua mente, butta giù una storia, inventa dei personaggi, inventa delle situazioni, dei dialoghi, insomma crea. Poi tocca a te diventare quei personaggi, entrare in quelle situazioni e tu diventi quei personaggi, sei quei personaggi”.
“Bellissima definizione, e allora?
“E allora io non ci sto, io mi ribello!”
“Cosa vorresti dire? Non farmi ridere.”
“Vuol dire che esco dal teatro ed entro nella vita, quella vera, dove non devo rendere conto a nessuno.”
“Ne sei sicuro? Forse la vita è meglio del teatro? Forse la vita è – salendo di tono – diversa dal teatro?”
Giorgio scuote la testa, tentando un’ultima resistenza, vorrebbe spiegarle meglio cosa prova, ma non trova le parole adatte e resta a guardare il tappeto di foglie morte sotto i loro piedi.
“Dovresti importi un po’ di più, tu sei un ottimo attore, la commedia è perfetta, per quanto tu non te ne accorga ancora. Ha ragione Teo a dirti che devi metterci più impegno e più forza…”
Senza accorgersi si è infervorata e a ha cominciato a parlare come ispirata, con le braccia protese in avanti.
“Nessuno ti regalerà un applauso solo per il fatto che esisti, devi metterci del tuo, fare esplodere i tuoi talenti, devi cercare di essere te stesso mentre sei qualcun altro. So che non è facile, devi mettercela tutta, e togli quell’espressione di sofferenza dalla faccia, sul palcoscenico non sei un carcerato, non sei malato, non sei povero. E io credo in te. Torniamo dentro adesso.”
“Sei d’accordo con lui, vero? Ti ha mandato Teo per convincermi a non farlo, adesso ho capito- le parole gli escono prima deboli, in un sussurro, poi sempre più decise, infine con voce stentorea-
“Volete tenermi prigioniero per sempre in quel buco di teatro, a provare sempre la stessa commedia, che non è mai pronta per il debutto, perché è questo lo scopo, trattenermi lì, mentre fuori c’è il mondo, la vita. Avrei dovuto capirlo prima, quanti anni sono passati? Che stupido che sono! Forse anche la nostra relazione è stata costruita ad arte da lui. “Poi, con voce alterata: “Adesso ricordo, ci lasciava discutere per ore dopo le prove, tutti uscivano prima e noi avevamo le chiavi del teatro…Tutto preparato, dovevo leggere tra le righe.”
“E anche se fosse? Non puoi lasciare la compagnia, la vita vera non è qua fuori, e là dentro. Fuori c’è lo squallore, la sofferenza, la solitudine, la malattia.”
Ha pronunciato queste ultime parole con un tono cupo, trascinando le sillabe, con le braccia tese in avanti come per attirarlo verso un tragico abbraccio.”
Giorgio è rimasto fermo, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo delirante.
Infine, grida: “No!”
Poi scattando improvvisamente Giorgio corre a sinistra verso le quinte e scompare alla vista. Nello stesso istante un lampo di luce rossa illumina per pochi attimi l’angolo vuoto del proscenio dove poco prima era stato raggiunto e trattenuto.
Cala il sipario. Il pubblico applaude.
Valutazioni Giuria
8 – Leggere tra le righe – Valutazione: 28 Gaia: Una trama interessante, anticipata da un titolo che svela appieno il proprio senso solo a racconto concluso: il protagonista avrebbe dovuto sapere leggere fra le righe, come dice lui stesso, ma anche (e soprattutto) il lettore avrebbe dovuto saper scorgere il “doppio senso” del racconto… Il dialogo dal sapore “metateatrale” avrebbe meritato una revisione per essere reso un po’ meno “pedante”, più leggero e scorrevole, ma nell’insieme funziona. Matteo: Davvero un racconto ben riuscito. Il colpo di scena finale è ben anticipato (senza essere svelato) dal tono del dialogo, sempre esagerato e con una sfumatura di irrealtà. Più si avvicina al finale, più le parole dei protagonisti diventano poco credibili, eccessive. Adatte al palcoscenico e non alla vita reale. Paola: Efficace soprattutto la conclusione. Quando ormai ci si è adagiati sulla discussione (un po’ trascinata) tra vita e teatro e il regista ci è diventato cordialmente antipatico, il lettore viene sorpreso dall’applauso finale e dal fatto di trovarsi egli stesso nella piece. La scrittura è scorrevole, anche se ci sono alcune imprecisioni. Pietro: Il racconto scorre molto bene, ma ho faticato a capire dove volesse arrivare. A mio avviso manca di decisione nell’affrontare il tema principale. I dialoghi, infatti, non appena trattano la questione vita-teatro, perdono la loro forma diretta e personale in favore di una forma più ideologica, quasi da manifesto: ci si aspetta che Giorgio si lamenti del regista troppo direttivo, e invece si lancia in una riflessione sul teatro in generale; ci si aspetta che la sua ragazza cerchi di trattenerlo facendo leva sul loro rapporto, e invece argomenta in maniera generica con carcerati, malati o poveri, con «squallore, sofferenza, solitudine e malattia». D’altra parte, i momenti in questo senso più riusciti non dovrebbero esistere per ragioni formali. Mi riferisco ai passaggi «Giorgio scuote la testa, tentando un’ultima resistenza, vorrebbe spiegarle meglio cosa prova, ma non trova le parole adatte», e «Senza accorgersi si è infervorata». Se l’idea – come sembra e come credo sia giusto ai fini del racconto – è quella di una cronaca di ciò che accade sulla scena, frasi come queste sono degli autogol. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!” grida Agata.
Le parole rimbombano nell’androne e Giorgio non può fingere di non aver sentito.
Si ferma, gira la testa e guarda in alto. Sembra spiazzato. Non avrei dovuto dirglielo, pensa.
Due piani sopra, Agata rientra in casa, si infila le scarpe aiutandosi con l’indice, afferra la felpa azzurra di sua sorella maggiore e sbatte la porta. Scende a salti le due rampe di scale aggrappandosi al corrimano. In meno di un minuto è vicino a Giorgio che le sorride imbarazzato.
Agata è di una testa più alta di lui e la felpa larga le nasconde il seno. Nella penombra Giorgio vede brillare i suoi denti. Agata sorride sempre, pensa. Giorgio non è più così sicuro di volerla fare, quella cosa. Ma adesso che lei è qui, non può tirarsi indietro. Cazzo, pensa.
“Sai dove abita?” chiede Agata.
“No, ma di pomeriggio è sempre al parchetto delle sbarre”.
Camminano per un lungo tratto senza parlarsi, proiettando il film di quello che succederà in tutte le varianti, o almeno in quelle che riescono a immaginare.
All’ingresso del parco si fermano. Agata guarda Giorgio e sta per dirgli qualcosa ma lui è già ripartito a testa bassa e sta entrando.
Bomber è seduto sullo schienale di una panchina verde di metallo con le scarpe giganti sulla seduta e la solita giacca nera. Giorgio gli si avvicina. “Ehi come mai da queste parti?” domanda bomber.
Giorgio non era sicuro che l’avrebbe riconosciuto. “Ehi bomber senti, ti devo parlare”.
“Ah ci avrei giurato. Ha mandato avanti il fratellone, vero?”
“No, lui non sa che sono qua! Senti, cosa vuoi per lasciarlo in pace?”
“Ah sei qua per offrirmi qualcosa, interessante! Ma, vedi, tuo fratello non sta mai zitto, mi risponde e quindi io lo devo rimettere al suo posto. Non è un cosa personale, capisci?”
Agata ha raggiunto Giorgio, ma è rimasta un passo indietro.
“E lei?” dice bomber scoppiando in una risata.
“È una mia amica”.
“Buongiorno Agata! Allora è vero che ti mancavo!”
Giorgio sente come un colpo in testa, ma dall’interno. Che cretino, pensa. Agata e bomber, ma certo! Si parlava solo di loro due anni prima, ma sono quelle cose che poi, crescendo, si dimenticano.
“Ti diverti ancora a spaventare i più piccoli? Bravo Marco, bravo “bomber”, bravissimo!” lo provoca lei.
Bomber scende con un balzo dalla panchina, supera Giorgio dandogli una piccola spallata e si pianta di fronte ad Agata.
“Facciamo così: tu dammi un bacio, uno di quelli che sai tu, e io lascio in pace il fratellino!”
Giorgio si avvicina alle spalle di bomber, è il doppio di lui, prova a dire qualcosa ma lui non si volta.
Gli tocca una spalla ma lui neanche se ne accorge. Sono scomparso dalla scena, pensa.
Agata e bomber sono a un passo uno dall’altra. Bomber si avvicina ancora un po’ e lei non si sposta.
Le mette una mano attorno al collo e le avvicina il viso al suo. Lei lo lascia fare. O almeno così sembra a Giorgio.
Poi le labbra si avvicinano e a Giorgio pare che intorno sia calato un silenzio assordante. Ma dura un attimo. Bomber si ritrae di scatto e si succhia il labbro inferiore. Poi si porta una mano alla bocca e dal mento due gocce scure cadono sulla punta delle sue scarpe.
“Ahahah, dovevo aspettarmelo”.
Anche Agata ride, ma solo con gli occhi.
Giorgio non capisce.
“Sei la migliore Agata!” dice Bomber mentre passa davanti a Giorgio senza sfiorarlo.
“E tu sei un coglione! Stai lontano da suo fratello!” grida Agata con una rabbia che Giorgio non riconosce.
“Un patto è un patto! E io li rispetto i patti!”. Senza voltarsi, aggiunge: “Giorgio, porta i miei saluti al fratellino!”
Agata si passa la lingua sugli incisivi e poi si volta.
Giorgio vorrebbe dirle qualcosa, chiederle perché, ringraziarla, insomma una cosa qualsiasi.
Ma Agata procede a testa bassa, un metro davanti a lui.
Il cielo sta imbrunendo e gli autobus, stipati di giacche e cravatte sgualcite, sfiorano il braccio sinistro di Agata e Giorgio che camminano sul cordolo del marciapiede. Ogni tanto Giorgio perde l’equilibrio e mette giù un piede. Agata mai.
Agata imbocca un vicolo che Giorgio non conosce e, appena voltato l’angolo si ferma. Giorgio un attimo dopo gira l’angolo e sbatte il naso contro il suo seno.
Ma che succede, pensa.
Lei non gli lascia il tempo di dire niente, gli mette una mano attorno al collo e lo bacia.
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9 – I baci – Valutazione: 31 Gaia: Un buon racconto, scorrevole, coinvolgente, ben scritto. La dinamica delle relazioni fra il bullo, la ragazza “tosta” e il fratello protettivo è ben costruita. I personaggi hanno una bella plasticità, e risultano ben caraterizzati. Il lieto fine fa sempre piacere. Matteo: I personaggi emergono con naturalezza nel corso della narrazione, attraverso azioni sempre molto concrete e mai banali. Anche dal punto di vista della forma il racconto è ben riuscito. Paola: Un racconto scorrevole e piacevole. Adatto sicuramente ad un romanzo per adolescenti. Ricorda D’Avenia sia per la caratterizzazione dei personaggi sia per lo stile narrativo, a metà tra la narrazione e i dialoghi incalzanti. Ben scritto. Pietro: Racconto ben scritto. I personaggi sono credibili, i gesti sempre significativi. Avrei spinto maggiormente sulla psicologia di Giorgio nel momento del bacio tra Agata e Bomber: la tensione è molto alta, lui un po’ apatico («scomparso dalla scena», appunto). |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”. Lo vidi, coi palmi rivolti verso l’alto e un po’ chiuso nelle spalle, come chi ti sta dicendo qualcosa di ovvio.
Quell’uomo interrompeva continuamente ogni mia attività, mi rallentava per il bisogno di stare insieme a me, di dimostrarmi il suo affetto, quasi la sua venerazione. Mi si attaccava di continuo, col suo sorriso al miele, spesso accompagnato da storielle che dovevano essere divertenti. Arrivava alla mia scrivania all’improvviso e insisteva perché lasciassi in sospeso ciò che stavo facendo per fare una pausa insieme a lui, perché il caffè senza di me non aveva lo stesso aroma, diceva. Non era servile e non agiva così per attirare la mia benevolenza; mi girellava attorno come un bambino piccolo incredulo per essere stato ammesso ai giochi dei grandi. Aveva tre anni più di me ed era il mio datore di lavoro, ed io il suo assistente.
Era subentrato al padre cinque anni prima, quando questi si era ritirato, dopo aver passato anni a cercare di inculcare nel figlio l’idea che con i dipendenti bisogna mostrare rispetto e avere polso. Sul rispetto, il signor Gustavo (col nome di battesimo, perché il signor Musso, diceva, era suo padre) aveva appreso tutto, sul polso no.
Del padre non aveva il carattere, la capacità di far sentire la propria presenza forte e positiva, di essere autorevole, ma non arrogante. Gli somigliava invece fisicamente. La prestanza e l’incedere deciso ne facevano, a prima vista, un uomo affascinante. Il signor Gustavo non aveva moglie e viveva ancora con i genitori. Amava dire, con una risata, che era perché non aveva mai avuto la fortuna che aveva avuto suo padre con le donne. Noi pensavamo che nessuna donna potesse sopportare il suo modo di fare svenevole.
Se il signor Gustavo aveva nei miei confronti una sorta di venerazione, anche con gli altri dipendenti non mancava di elargire manifestazioni di benevolenza e ammirazione sempre eccessive e fuori luogo. L’adulazione sembrava per lui un dovere morale: ripeteva in continuazione frasi d’elogio, ma davano la sensazione di una bella torta nella quale si è ecceduto con lo zucchero. Nauseavano. Eppure lui le diceva con sincerità.
Il suo primo assistente, ereditato dal padre, mi aveva messo in guardia sul fatto che non era il caso di mostrarsi infastiditi dalle manifestazioni del capo, perché la cosa lo sconvolgeva nel profondo. Una volta aveva provato a fargli presente, col dovuto tatto, che il suo atteggiamento poteva essere male interpretato. Il signor Gustavo era sparito per due settimane, adducendo un malanno non meglio identificato. Poi era tornato e aveva ripreso a comportarsi come prima.
E adesso era anche lì, per strada: “Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
E così, per la prima volta, mi voltai spazientito. Perché quel giorno proprio non potevo permettermi di rallentare. Andavo a ritirare l’anello che quella sera avrei dato alla mia ragazza per chiederle di sposarmi. Ero nervosissimo.
“Senta, non anche qui…io sono il suo assistente, non la sua vita, e soprattutto lei non è la mia. Ho molta fretta, non posso aspettare e lei riesce sempre a farmi perdere un sacco di tempo!”
“Certo, hai ragione, ci vediamo” si limitò a dirmi.
Rimasi spiazzato, bloccato sul marciapiede senza sapere se inseguirlo. Mi ripresi in tempo per arrivare alla gioielleria prima che chiudesse e, vista la serata importante che mi aspettava, mi dimenticai di lui.
Il giorno dopo non era al lavoro. Quando uscii dall’ufficio mi parve doveroso andare da lui per scusarmi. Varcato il grande cancello, percorsi a piedi il vialetto fino alla porta d’ingresso. Al momento di bussare mi bloccai, sentendo giungere dall’interno una nota voce sdolcinata che diceva:
“Che persona meravigliosa sei. Una donna tanto intelligente e sensibile non si trova tutti i giorni. Sono davvero fortunato”
“Smettila, per favore, la vuoi piantare? Non se ne può più!” rispose una voce femminile tra l’esausto e il rassegnato.
“Scusa, cara”
Stavo per andarmene quando la porta si aprì.
“Che cosa fa lei qui, Giorgio?”
“Mi scusi signor Musso, c’è il signor Gustavo?” dissi, cercando di dissimulare la mia confusione.
“No, è partito stamattina per la montagna. A volte anche lui ha bisogno di staccare, sai?”
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10 – Il signor Gustavo – Valutazione: 21 Gaia: La trama non ha grande consistenza. Non ci sono fatti particolarmente significativi che le diano corpo. Di fatto tutto ruota intorno alla descrizione della figura del “signor Gustavo”, una figura a dire il vero poco realistica. La conclusione, poi, contraddice la premessa: il vigore del Musso padre descritto all’inizio (in opposizione alla mollezza del figlio) pare ora totalmente smentito dalla “nota voce sdolcinata” sentita dal dipendente. Il tutto appare un po’ incoerente. La narrazione è scorrevole e non ci sono errori di carattere linguistico, ma nell’insieme il racconto non convince. Matteo: Il racconto è ben scritto e scorrevole alla letturra. Il fatto che il protagonista non sopporti più il suo capo non mi sembra però motivato a sufficienza. Appare semplicemente come un superiore eccessivamente espansivo. La piccola sfuriata di Giorgio risulta quindi esagerata. Paola: Il ritratto del signor Gustavo è stucchevole al punto giusto. Quasi infastidiscono anche il lettore le frivolezze e il suo eccessivo servilismo. Ciò che regge poco è il fatto che lo faccia con i suoi sottoposti. Sarebbe stato più efficace il contrario: un dipendente appiccicoso e stucchevole. Interessante la scelta narrativa di demolire “sentimentalmente” anche il padre, invece. Corretto sul piano stilistico. Pietro: Non sono riuscito a capire il punto del racconto, l’importanza della sorpresa finale. A parte questo credo che il montaggio che porta a essa faccia scorrere il racconto troppo velocemente e non lo valorizzi. Sarebbe meglio cominciare dal presente di Giorgio che si dirige a casa di Gustavo, raccontando a se stesso quanto è accaduto: dall’evento straordinario, ovvero la sua «ribellione» al titolare, al pentimento, passando per la situazione aziendale e le fragilità del signor Gustavo. |
<<Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.>> esclamò la moglie, accelerando la breve falcata dovuta alla piccola altezza, preoccupata.
<<M-me ne v-vado. M-me ne d-devo a-a-andare. N-non posso fare q-questa c-cooosa.>> le parole gli uscivano a fatica, mentre con passo spedito iniziava la discesa della lunga scalinata che portava all’uscita dal palazzo.
Elisabetta riuscì a prenderlo per un braccio e con un gesto deciso fece fermare l’alta e snella figura, facendo tintinnare le medaglie che ricoprivano l’uniforme sul petto dell’uomo. Giorgio si girò a guardarla, pronto all’ennesima ramanzina in quel matrimonio che sembrava più ricordare un rapporto madre-figlio.
<<Allora dimmi, di grazia, dove vorresti andare? Dove pensi di poter andare? Pensaci un attimo, ti permetterebbero di andartene? Ne hanno già perso uno. Che figura ci farebbero a perdere anche il secondo?!>> Elisabetta lo guardava col viso lievemente inclinato, gli occhi socchiusi e un sorriso, leggermente ironico, stampato sulle labbra.
Giorgio la fissò con lo sguardo perso nel seguire quel pensiero. “Ha ragione, come sempre. Non posso andarmene, non posso abbandonare il mio paese in questo momento. L’ha già fatto mio fratello e io non posso, non devo ma, soprattutto, non voglio seguire il suo esempio.” L’uomo abbozzò un timido sorriso e la donna capì che la piccola crisi di nervi di quell’uomo che tanto amava era finita.
<<P-Perché non mi hai c-chiamato B-Bertie? >> riferendosi al nomignolo affettuoso che tutti in famiglia utilizzavano per chiamarlo.
La donna sorrise. <<Perché tu, in questo momento, non sei Bertie. Sei Giorgio VI, Re del Regno Unito. Ed era mio preciso dovere ricordartelo. Tu non sei mai stato una persona qualunque e da questo momento la tua, e la mia, vita cambierà. Devi essere cosciente di questo. Ma non devi avere paura di questo cambiamento. Io, e tutte le persone che ti stanno attorno, che ti conoscono, che ti apprezzano e ti vogliono bene, ti aiuteremo a superare le difficoltà.>>
Giorgio guardò Elisabetta con gli occhi pieni di amore. Da quando l’aveva conosciuta l’aveva amata in maniera totale e incondizionato. Aveva anche dovuto sopportare due volte il suo rifiuto a sposarlo non perché non lo amasse, semplicemente aveva paura della vita di corte. Ma adesso, in questo preciso momento, era lei ad avere il coraggio di affrontare quella situazione. Lei era la leonessa che proteggeva il suo re. Fu sopraffatto da un’ondata di affetto verso quella donna, all’apparenza minuta e fragile ma con una forza interiore incredibile, allungando una mano per porgerle una tenera carezza sulla guancia. Il passaggio di una coppia di soldati lo fece desistere da quell’imbarazzante gesto. Rimase con il braccio fermo, sospeso nell’aria ma i loro sguardi stavano esprimendo tutto quello che c’era da dire.
<<A-andiamo. >>. Il Re prese la moglie sottobraccio e, ritornando sui loro passi, andarono incontro al loro destino.
Erano anni difficili e lo spettro nazista aleggiava su tutta l’Europa. Nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale. Durante tutto il conflitto, e in modo particolare nel difficile periodo dei bombardamenti tedeschi su Londra, seppe conquistare la stima e l’affetto dei suoi sudditi, rimanendo sempre saldamente al suo posto e rifiutando ogni fuga, contribuendo, con i suoi discorsi radiofonici, a tenere alto il morale del paese.
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11 – Una fuga regale – Valutazione: 27 Gaia: La storia è interessante, i personaggi sono ben caratterizzati e il dialogo funziona. La scrittura, tuttavia, è un po’ zoppicante; i periodi, talvolta troppo lunghi, presentano alcune imprecisioni, come, ad esempio, quel gerundio “allungando una mano per porgerle una tenera carezza sulla guancia” che rimane un po’ sospeso; l’ultimo periodo è privo di soggetto (lo si intuisce, ovviamente, ma sarebbe stato corretto esplicitarlo). La narrazione non è sempre fluida: sarebbe stato utile rileggere qualche volta il racconto (magari ad alta voce) per renderlo più scorrevole. Matteo: Pur essendo piuttosto ben scritto, mi sembra che il racconto non aggiunga molto rispetto al film “Il discorso del re”, che di certo deve averlo ispirato. Ci tengo a far notare come il paragrafo finale strida con il resto della narrazione (sembra più che altro una frase conclusiva da film). Senza aver visto la pellicola, si farebbe fatica a comprendere da cosa effettivamente stia scappando il re (immagino da una seduta di registrazione o qualcosa del genere). Paola: La contestualizzazione storica è interessante. Cogliere lo spunto di “Giorgio” come riferimento al re balbuziente è una bella idea. Il dialogo tra i due ricorda le scene di vita famigliare del “Discorso del re” e convince. Scorrevole, salvo qualche imprecisione, sul piano stilistico. Pietro: Il racconto è ben scritto. Ci sono tuttavia, a vari livelli, delle eccedenze che non vi aggiungono nulla e, anzi, lo zavorrano. Mi riferisco, a livello stilistico, a frasi (o parti di esse) come: «Ed era mio preciso dovere ricordartelo», «Lei era la leonessa che proteggeva il suo re», o «da quell’imbarazzante gesto»; a livello strutturale, al paragrafo finale, che ha proprio la forma tipica di una nota esterna al racconto. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.”
Giorgio continuò a correre senza badare al ragazzo che si era affiancato a lui.
“Dai fermati” gridò “Dimmi dove stiamo andando?”
“Pyramiden” rispose senza smettere di correre. “È lì che sto andando.”
“Pyra…che?”
“Pyramiden una città semi abbandonata in Norvegia. Neve, orsi polari, volpi artiche.”
“Norvegia, certo” sospirò il ragazzo continuando a correre “ma non possiamo partire così. Fa freddo. Dobbiamo comprare vestiti pesanti, scarponi e attrezzatura, una bussola ad esempio, se no ci perdiamo. Dai, smettiamo di correre, dobbiamo fare una lista delle cose da portare con noi.”
Giorgio si fermò di colpo. “Davvero verresti con me?”
“Certo” il ragazzo gli prese la mano. “Dai vieni, organizziamoci.”
Sua madre aveva osservato tutta la scena da dietro il vetro. “È in gamba quell’infermiere” sussurrò.
“Sì” confermò il medico alle sue spalle. “Riesce sempre a calmarlo. Prima che arrivasse dovevamo fermare Giorgio con la forza. Una volta siamo stati costretti perfino a sedarlo o avrebbe corso fino allo sfinimento.”
“Succede ancora tutti i giorni?”
“Anche più volte al giorno. Ogni volta una meta diversa.”
La donna si girò verso il medico. Aveva gli occhi lucidi. “Perché lo fa?”
“È l’ultimo ricordo che ha della sua vita normale. Lui che scende le scale e corre fuori in cerca di aiuto. Credo che sia il suo modo di esorcizzare il senso di colpa.”
“Ma non è stata colpa sua. Suo padre ha dato fuoco alla casa, si è addormentato ubriaco con la sigaretta accesa e…” Le parole le morirono in gola.
In quel momento Giorgio entrò nella stanza.
“Ciao mamma” disse abbracciandola.
“Ciao piccolo come stai?”
“Bene, mi hai portato i dolcetti?”
Lei sorrise, battendosi la tasca. Uscirono nel grande giardino che circondava l’ospedale e passarono il pomeriggio chiacchierando e mangiando biscotti.
Negli ultimi due anni era andata a trovare suo figlio ogni settimana. Si sedevano fuori e parlavano, ma non era mai riuscita a fargli raccontare di quel maledetto giorno che aveva spezzato le loro vite e si era portato via la piccola Linda. Non era nemmeno sicura che lui ricordasse quello che era successo.
Non forzare la mano era stata l’indicazione del medico. Bisognava aspettare che fosse lui a parlarne.
Uno dei tanti pomeriggi in cui lei arrivò all’ospedale trovò Giorgio che correva da solo. L’infermiere, seduto su una panchina, lo controllava.
“Da quanto corre?” chiese avvicinandosi.
“Quasi mezz’ora” rispose lui. “Altri cinque minuti e lo fermo.”
Sua madre lo guardava in silenzio, gli occhi gonfi di lacrime. “Posso farlo io?” chiese.
Lui la fissò perplesso. “È sicura?”
Annuì, senza smettere di seguire suo figlio con lo guardo e quando lui le passò accanto lei iniziò a correre al suo fianco.
“Ciao amore. Dove corri? Posso venire anch’io?”
“Ciao mamma, che stai facendo?”
“Corro con te. Dove vuoi andare?”
Lui sembrò rifletterci un attimo e poi disse “voglio andare a casa. Nella nostra bellissima casa in centro.”
“Va bene” sussurrò lei, andando a caccia di aria. “Adesso fermati però dobbiamo preparare la tua valigia.”
Giorgio si bloccò di colpo. I suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza.
“Non è vero mamma. La nostra casa non esiste più, è bruciata.”
Lei si piegò, tentando di riprendere fiato. Ci siamo, pensò.
“Allora te lo ricordi” gli chiese.
Si sedette sull’erba. “Non è stata colpa mia” singhiozzò. “Ho cercato di svegliare papà, ma non ci sono riuscito. Il fumo diventava sempre più nero e io ho avuto paura. Così sono corso a cercarti. E ho corso, ho corso. Pensavo di farcela. Pensavo che se fossi arrivato da te assieme avremmo potuto aiutare Linda.”
La madre gli accarezzò i capelli. Un nodo le serrava la gola.
“Avrei dovuto portarla con me. Ho provato a tirarla fuori dalla culla, ma era troppo pesante. Non riuscivo a respirare e mi bruciavano gli occhi.”
Sua madre lo abbracciò forte. Giorgio scoppiò in lacrime. Era la prima volta da quel terribile giorno che lo vedeva piangere.
“Portami via di qua, ti prego” sussurrò.
“Va bene” rispose lei, sorridendo. “Ora abbiamo una nuova casa, ti piacerà, ma devi promettermi che smetterai di correre.”
“Perché mamma a me piace, sto bene quando corro.”
“Ok allora, troveremo un posto dove potrai correre, anzi, dove potremo correre assieme.”
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12 – LA CORSA DI GIORGIO – Valutazione: 25 Gaia: Il racconto cattura velocemente l’interesse del lettore, certamente stupito dal fatto che la corsa di Giorgio abbia motivazioni in qualche modo patologiche. I vari passaggi sono un po’ veloci, ma il vincolo delle battute non consente grande approfondimento. Benché si abbia la sensazione che la vicenda sia risolta in modo un po’ sbrigativo, i fatti narrati sono interessanti e il racconto è coinvolgente. Il dolore profondo della madre, lo straniamento di Giorgio dovuto al trauma subito, la cura del medico e dell’infermiere sono ben resi. Il fatto che Giorgio desideri continuare a correre rende meno precipitoso il finale, facendo intendere che il percorso di guarigione richieda ancora del tempo. L’uso della punteggiatura non è sempre corretto. Una critica: la struttura non è chiarissima; il racconto inizia con dei fatti che paiono i più recenti; più avanti, tuttavia, viene raccontato l’episodio centrale (quello in cui Giorgio, finalmente, piange e racconta il terribile giorno dell’incendio) che, evidentemente, è successivo a quanto raccontato all’inizio: c’è una certa incongruenza. I fatti andavano scanditi meglio dal punto di vista temporale. Nel complesso, comunque, un buon racconto. Matteo: Le due scene descritte nel racconto meriterebbero entrambe maggior spazio. Sono troppo sostanziose per un racconto breve, con il rischio che il lettore, almeno a una prima lettura, perda per strada dei pezzi. Mi concentrerei sulla prima, a mio parere molto ben congeniata. Paola: L’esordio è singolare e toccante. Bella l’immagine dell’infermiere che fa breccia nella dinamica che il ragazzo mette in atto per sfuggire al suo dramma. La vicenda narrata coinvolge il lettore, come anche la conclusione che lascia intravedere un punto di ripartenza per madre e figlio. Peccato che il poco spazio narrativo a disposizione abbia costretto a condensare gli eventi del passato e quelli del presente, senza poterli esplodere adeguatamente. Pietro: Il racconto è scritto molto bene, soprattutto la scena iniziale. Il problema è che è troppo veloce: tutte le difficoltà della madre a comunicare col figlio, esposte nella prima scena, nella seconda vengono superate. Forse è una storia troppo lunga per questo breve spazio. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te” urla con tono spaventato Lucia guardando il nipotino, di soli tre anni, che sfugge, come un lampo, una saetta, dalla sala da pranzo alla sua piccola stanza, con il cordless in mano.
Lo insegue, silenziosamente, lo osserva. Stupore e dubbi si uniscono nella mente di Lucia.
Giorgio si trovava, come era solito fare, a trascorrere il pomeriggio, post scuola dell’infanzia, dai nonni materni mentre il padre lavorava come operaio nella azienda dolciaria locale e la madre dava ripetizioni di grammatica delle bambine.
Quello che poteva connotarsi come un pomeriggio come tanti aveva un sapore diverso da una settimana a questa parte poiché Alessandra, la mamma di Giorgio, era entrata nella trentaseiesima settimana di gestazione e, quindi, la nascita di Azzurra era alle porte tanto così come il momento dell’evento imprevedibile.
Ogni attimo poteva essere quello giusto.
Sebbene Giorgio non fosse pienamente consapevole di come la sorellina sarebbe venuta alla luce, aveva ben chiaro che questo sarebbe potuto accadere anche all’improvviso perché la maestra gli aveva insegnato che la cicogna arriva quando meno ce lo si aspetta.
Oggi la cicogna era arrivata.
Eccolo, il momento tanto atteso, voluto e desiderato da Giorgio.
Lucia segue il piccolo nella sua stanza.
In un modo armoniosamente agitato il bimbo si getta sul suo tavolo “da disegno”, con le gambe di plastica rossa, e sposta fogli e giocattoli alla ricerca di un piccolo pacchettino dal colore rosa. Il dono che lui stesso aveva scelto, insieme al papà, per la sorellina. Un ciondolo, con una coccinella, un simbolo che si potesse fare intrinsecamente e silenziosamente portavoce di un messaggio di speranza e di un augurio per una vita meravigliosa.
La nonna capisce. Intuito femminile, di genitore.
Dall’occhio destro le cala una lacrima di emozione che le inumidisce la guancia giungendole alle labbra.
Non servono parole.
Sa già tutto.
Capisce che Azzurra è nata.
Giorgio si gira bruscamente col suo fare impacciato imputabile alla salopette di jeans che gli stava stretta.
Recepisce immediatamente l’emozione della donna e le dice “Su nonna, muoviti. Cosa aspetti? Quanto mi vuoi ancora fare aspettare? Nove mesi non sono abbastanza?! “
Il nanetto si era improvvisamente trasformato in un piccolo uomo consapevole che “impartiva piacevoli e diretti ordini alla nonna”.
Ad osservarli sembrano due forze.
Giorgio e Lucia.
Nipote e nonna.
Energia, eccitazione ed impeto vestono il bambino da una parte mentre la donna si fa portavoce di una commossa, posata, ma immensa commozione.
Il cuore di Lucia è colmo di gioia, un’emozione vivida che si connota come la piena commistione di felicità imputabile alla nascita di una nuova vita e di piacevole stupore, subordinato alla gioia indotta dal vedere, assaporare l’emozione dell’amato nipote.
Non se lo aspettava Lucia, è quasi incredula.
È ferma.
Paralizzata dall’energia indotta della furia gioiosa di Giorgio.
“Nonna muoviti. Prendi macchina!” si sente dire dall’’ometto con le gote sporche di Nutella…
È inverno. 15 dicembre. La neve cade timidamente.
Giorgio è pronto per uscire. Imbacuccato come un omino Michelin corre per la casa dando alla nonna il necessario per partire il prima possibile per andare alla clinica a vedere Azzurra.
In men che non si dica Lucia si ritrova vestita di sciarpe, cappelli e guanti dal nipote.
Prende il piumino rosso, la borsa e le chiavi della sua C3 che le aveva regalato il marito per il compleanno.
Non ha nemmeno il tempo di avvisare Michele che era diventato di nuovo nonno perché l’impeto di Giorgio è irrefrenabile.
Scendono come delle saette le scale, giungono in garage.
3, 2, 1. Si parte verso il primo saluto alla piccola stellina nascente.
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13 – Il fiocco di Azzurra – Valutazione: 21 Gaia: L’idea è bella, e la narrazione inizia molto bene, con la vivacità del bimbo felice descritto con brio. Tuttavia nel racconto ci sono diverse lacune. Non è chiaro come si passi dalla mamma che dà ripetizioni, alla stessa in clinica a partorire; non si capisce come il bimbo possa sapere della nascita della sorellina, mentre la nonna no; il linguaggio del bimbo è decisamente troppo evoluto per l’età (nel primo dialogo). La descrizione delle emozioni della nonna è troppo lunga e ingombra un po’ il testo. Ci sono alcune ripetizioni, un po’ fastidiose considerata la brevità del testo. Avrei valorizzato di più la vivacità del bimbo, descrivendone i vari movimenti e dato meno importanza alla riflessioni sentimentali della nonna, la cui emozione poteva essere resa con il dialogo o facendole compiere dei gesti significativi. L’insieme sarebbe risultato più equilibrato e piacevole. Matteo: L’incertezza nell’uso del tempo verbale nella narrazione (che oscilla dal presente all’imperfetto) caratterizza in negativo l’intero racconto. Paola: L’idea di fondo del racconto è bella e particolarmente adatta a questo momento dell’anno, il che la rende più toccante. Ci sono però due aspetti che a mio avviso influenzano negativamente il testo: l’indecisione nell’uso dei tempi verbali e l’alternarsi, quasi frenetico, tra le riflessioni della nonna e l’euforia trascinante del nipote, aspetti che rendono la narrazione poco scorrevole. Pietro: La freschezza del racconto non riesce ad avere la meglio su alcuni problemi di facile soluzione ma molto evidenti. Innanzitutto, dall’inizio alla fine c’è un’indecisione di fondo sul tempo verbale. Quindi la tendenza, nei momenti più introspettivi, a spiegare più che a raccontare – sia a livello contenutistico che formale. La coccinella, ad esempio, è un simbolo così chiaro che basta a se stesso; la gioia di Lucia comprensibile anche senza essere vivisezionata. Spesso, infine, la lettura è appesantita da ripetizioni non funzionali alla narrazione come «La nonna capisce», «Non servono parole», «Sa già tutto», «Capisce che Azzurra è nata». |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!”.
“Che bello nonno, me lo racconti di nuovo?”
Mattia adorava la storia del nonno e della nonna al punto di farsela ripetere anche tre o quattro volte di fila.
Giorgio, con pazienza, ricominciava sempre il racconto dall’inizio: “Allora Mattia, devi sapere che nel 2020, quando tu eri ancora nel pancione della mamma, io abitavo con i tuoi genitori”.
“E perché nonno?”.
“Non ti ricordi Mattia che cosa ti avevo spiegato?”.
“Sì, me lo ricordo. Nel 2020 c’era un brutto ceffo!”.
“E il brutto ceffo si chiamava…”
“Covid! – continuò Mattia con l’aria soddisfatta di chi la sa lunga – e nessuno poteva uscire di casa perché Covid era aggressivo con tutti!”.
“Proprio così Mattia! E poi?”
“Poi tu eri venuto ad abitare qui perché mamma e papà non volevano lasciarti da solo!”
“Bravo Mattia. Ti sei ricordato bene!”
“Sì ma adesso continui tu!”.
“Va bene”.
Nonno Giorgio proseguì il suo racconto: “Di nascosto da tua mamma e tuo papà, quando abitavo qui, preparavo palline con la mollica del pane e le nascondevo tutte in un sacchetto”.
“Un sacchetto grande?”
“Un sacchetto grandissimo! Tanto così!” Rispose il nonno allargando le braccia per mostrare al nipote l’immensità del sacchetto.
Mattia, come ogni volta che nonno Giorgio arrivava a quel punto della storia, rideva: “Ma non è possibile. Non ci sono sacchetti così grossi!”.
“Ma il mio era un sacchetto magico!” Rispondeva sempre il nonno sgranando gli occhi per creare un senso di stupore, ma Mattia non era così ingenuo.
“Dai nonno, devi continuare la storia!”.
“Quando Covid divenne meno aggressivo, senza dire niente a tua mamma e a tuo papà, io uscii di casa di nascosto per andare a trovare la nonna. Ti ricordi dove abitava la nonna Ottavia?”.
“Certo! La nonna abitava qui vicino in una casa di cura per malati di Alzheimer perché la nonna non si ricordava più niente e non riconosceva più le persone!”.
“Bravo. Sai tutto!”.
Mattia non poteva perdere tempo a gongolare perché era venuto il momento della domanda più importante: “Nonno, ma se la nonna non ti riconosceva, perché andavi da lei?”
Ogni volta la risposta di Giorgio era la stessa: “Mattia, non mi importava se la nonna non mi riconosceva. Io riconoscevo lei e volevo vederla!”.
Giorgio prese il fazzoletto nascosto nella manica per pulire il nasino del nipote.
“Stavo dicendo che sono andato alla casa di cura per malati di alta marea e”
“Nonno, ti sei confuso! Era una casa di cura per malati di Alzheimer, non di alta marea!”.
“Hai ragione Mattia. Ho sbagliato!” commentò Giorgio felice per quella trovata dell’alta marea che aveva dato un tocco nuovo al solito racconto.
“Non fa niente se hai sbagliato. Vai avanti!”
“Cosa si dice in questi casi?”
“Per favore”
“Così va bene. Allora, sono arrivato alla casa di cura, ho chiesto di vedere la nonna, ma non mi hanno fatto entrare. Temevano che Covid si nascondesse nelle mie tasche!”
“E allora tu hai fatto finta di allontanarti, ma hai girato l’angolo per cercare la finestra della sua stanza!”
“Ben detto. E ti ricordi che cosa è successo dopo?”
“Hai lanciato palline di pane contro al suo vetro per chiamarla! Lei si è affacciata e tu hai pensato che era ancora più bella di quando l’avevi conosciuta!”
“È vero Mattia. La nonna quel giorno era bella come tanti anni prima quando, per chiamarla, lanciai palline di pane contro la sua finestra!”.
Giorgio raccontava sempre solo la sua versione di quello che era successo nel 2020 perché non poteva conoscere la versione di Ottavia.
Ottavia nel 2020 era anziana e ammalata ma, affacciandosi alla finestra, tornò ad essere la giovane ragazza di un tempo. Stava lì sperando che i genitori non se ne accorgessero. Al posto dell’ago per la flebo aveva un braccialetto di perline e non indossava la camicia da notte, ma il vestito a fiori. Lo aveva tenuto tutto il giorno sperando che lui passasse di là. E lui non solo era passato di là, ma l’aveva anche chiamata lanciando palline di pane contro al vetro. Lui era Giorgio, il ragazzo che le piaceva tanto e che sperava la invitasse alla festa di primavera.
“E che cosa ti ha detto la nonna quando sei andato via?”
“La nonna Ottavia ha ripetuto esattamente le stesse parole di circa cinquanta anni prima: Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!”.
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14 – Il vestito a fiori – Valutazione: 29 Gaia: Un bel racconto, scritto con molta delicatezza, senza tuttavia risultare melenso. Molto azzeccata l’idea di utilizzare l’incipit come un ricordo e molto piacevole il dialogo fra nonno e nipote. Temi decisamente consistenti, quali il Covid e l’Alzheimer, sono toccati con grande garbo attraverso il racconto del nonno. Un po’ struggente il finale, ma funziona molto bene. Ben scritto, piacevole, coinvolgente. Matteo: Racconto molto dolce. I personaggi del nonno e del nipote riescono a essere realistici. L’idea di trasformare l’incipit del racconto nella storia raccontata dal nonno è molto interessante. Mi sembra però che l’ultima parte del racconto sia piuttosto imprecisa: il contrasto tra l’immagine della nonna da giovane con quella di lei nella casa di riposo (potenzialmente molto bella) è poco rifinita, migliorabile. Paola: Il racconto è delicato e toccante. E’ bella la tenerezza che si crea tra nonno e nipote che continuano a reiterare la stessa scena e lo è anche la narrazione dell’amore giovanile di nonno Giorno per la ragazza con il vestito a fiori. Ben scritto. Pietro: Racconto ben scritto. L’idea della circolarità è tematicamente appropriata. Ho trovato brusco il passaggio alla prospettiva di Ottavia: che lei riviva quel giorno ce lo fa sospettare (in un certo senso sperare) la malattia e ce lo confermano le sue parole. Non vedo perché, dunque, le informazioni necessarie non ce le possa dare Giorgio. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.” Giorgio continuava a correre, andando verso la stazione. Paola gridò: “Giorgio!”. Niente. Ancora più forte: “Giorgio ! “. Ma la T-shirt bianca di Giorgio scomparve definitivamente fagocitata dalla folla all’ingresso della stazione. Era l”82, l’anno che l’Italia vinse i mondiali. Paola rinunciò a seguire Giorgio, avevano parlato il giorno precedente, così si rassegnò e tornò sui suoi passi.
Il giorno precedente, al tavolo all’aperto di un bar, davanti a un gelato, avevano parlato del loro rapporto. Era stato Giorgio ad invitare Paola.”Io partirò domani per l’India. E’ inutile dirti cosa rappresenta l’India per me.” aveva detto Giorgio, dopo aver chiarito che in quella città non c’era più niente che lo attraesse.”Vorrei che tu venissi con me” Paola aveva ascoltato, le era piaciuto come Giorgio aveva vissuto il loro rapporto, ma era troppo ancorata alla città, all’Università, alle sue amicizie ed anche alla sua famiglia. Rispose: “Ci devo pensare”. “Impossibile”, disse immediatamente Giorgio, “parto domani”.
Tornando sui suoi passi, andando verso il bar dove c’era tutto il gruppo dei loro amici, Paola incominciò a rimuginare ciò che si erano detti del loro rapporto. Capì però allora che non aveva fatto niente per mantenere il rapporto con Giorgio. Tutta presa dall’Università che le rilasciava successi e tutta presa dal femminismo, che le rilasciava successi anche quello, non aveva fatto niente che potesse dimostrare affetto a Giorgio. L’aveva proprio trascurato: solo l’ultimo ritaglio di tempo avanzato era dedicato a lui e gli raccontava dei suoi successi, ottenuti indipendentemente da lui. Lui ascoltava, ma mai si complimentava. Capì: lei e Giorgio avevano in mente due tipi di rapporto diverso da realizzare e per questo Giorgio si era allontanato, ma anche per questo lei aveva rifiutato l’invito. Salutò gli amici del bar, prese una sedia e si sedette. “Ciao, Paola!” “Ciao a tutti” disse. Sentì che stava per piangere e si passò un dito attorno agli occhi. Asciutti. Riuscì a scacciare la sua sensazione di tristezza e ostentò sicurezza: “Giorgio è partito per l’India”. “Beato lui” dissero alcuni amici. “Quando tornerà?” chiese qualcuno. “Non lo so, praticamente ci siamo lasciati” Si sentì così libera da un legame di cui non aveva compreso le regole, in cui non aveva saputo accogliere le aspettative dell’altro. “Io resto qui.” “Ti va di fare una passeggiata?” disse Laura e subito fu affiancata da Paola. Laura e Paola parlarono a lungo del rapporto tra Paola e Giorgio e fu così che Laura rivelò che Giorgio aveva avuto un rapporto con un altra. Si vedevano quando Paola era all’Università o alle riunioni. Paola ci credette e non si pose mai il problema se fosse vero o falso. Prima sentì la rabbia montarle addosso, ma poi tutto svanì: Giorgio era fuggito da una situazione che non sapeva più gestire e lei poteva dirsi finalmente libera. E serena. La fuga di Giorgio fu da lei percepita nello spazio e nel tempo: distante mille miglia e ormai appartenente al passato.
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15 – Una fuga – Valutazione: 14 Gaia: La trama è un po’ contorta: lui che parte all’improvviso, lei che lo segue, ma in realtà senza alcun interesse… Un distacco che sembra doloroso, ma che alla fine risulta non esserlo per nulla, fino ad essere addirittura una liberazione… Tutto il racconto si sviluppa come la riflessione su un rapporto (esclusivamente da parte di uno dei due protagonisti del rapporto stesso); riflessione a dire il vero poco seria e poco matura, senza grande spessore. I pochi fatti non sono del tutto calzanti: lei che parla al bar con gli amici, i quali, contrariamente a quanto parrebbe normale fra amici, non sanno nulla del progetto di Giorgio. Tutti sembrano interessarsene ben poco e, più che amici, paiono automi… Il dialogo di Paola con Laura, poi, non convince: che senso ha l’accenno al presunto tradimento da parte di Giorgio?? Il finale è piatto e delude. Matteo: Il racconto finisce prima di iniziare. Paola infatti rincorre Giorgio, solo per accorgersi che in effetti avrebbe anche potuto evitare di farlo. Non è certamente un inizio in grande stile. Tutto ciò che avviene dopo appare come una debole spiegazione per la fine di un rapporto a noi del tutto estraneo. Lo svelamento del tradimento di Giorgio nel finale è poco utile e quasi fastidioso. Paola: Partiamo dalla fine: il tradimento raccontato dall’amica rende quasi squallido un rapporto amoroso che, si intuisce, già non aveva senso di esistere. Anche il resto della narrazione non coinvolge il lettore che avverte, per motivi diversi, poca empatia nei confronti di entrambi i protagonisti. Anche lo stile non contribuisce a rendere gradevole la narrazione. Pietro: Tanti cambiamenti e tante nuove consapevolezze per Paola: un bel materiale da racconto. Purtroppo però questo materiale, allo stato attuale, è più «detto» che raccontato. Rimane il desiderio di vedere le cose insieme a Paola, invece che dall’alto. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!”
Accidenti. Avevo sperato che Matteo non si accorgesse di me, mentre passavo di fronte a casa sua, ma ovviamente lui aveva dovuto trovarsi in giardino proprio in quel momento.
La verità era che non volevo più frequentarlo, la nostra amicizia si era ormai arenata da tempo, e cercavo ogni scusa possibile per evitare di incontrarlo. Ma lui sembrava non rendersene conto. E abitare nella stessa via non aiutava di certo ad evitare incontri non voluti.
Mi toccò fermarmi e aspettare che uscisse, chiudendo il cancelletto dietro di sè. Si avvicinò sfoderando un sorriso smagliante e mi chiese dove fossi diretto.
“Da nessuna parte di preciso, voglio solo fare un giro in centro…” risposi, sperando che non si unisse a me. Ovviamente andò così e ci dirigemmo insieme verso il centro città che distava dieci minuti a piedi.
Matteo non tacque un attimo per tutto il tragitto. “Hai visto che belle le luci di Natale quest’anno? Mi ricordo che l’anno scorso erano oscene, mettevano una tristezza! Stavolta hanno fatto proprio un bel lavoro, l’albero al centro della piazza è spettacolare! Tu e Margherita dove andrete il 25, dai tuoi o dai suoi?”
Io rispondevo a monosillabi, non ero di grande umore e non avevo voglia di chiacchierare. Speravo che Matteo si accorgesse del mio stato d’animo e finisse per andarsene a casa, o per lasciarmi solo, se non altro. Ma lui continuava imperterrito.
“Senti, dovrei fare un salto in biblioteca. Devo prendere in prestito qualche libro.” Almeno là dentro regnava il silenzio. Mentre consultavo gli scaffali Matteo si allontanò e io tirai un sospiro di sollievo, conscio che tuttavia quella pace non sarebbe durata.
Penserete che sia proprio una persona orribile, a pensare a queste cose e a comportarmi così verso un amico, per quanto ormai distante. A mia discolpa potrei dirvi che sono stati i nostri genitori a insistere perchè diventassimo amici, da ragazzini, e che abitando vicini e frequentando le stesse scuole e gli stessi posti è stato pressochè impossibile evitare di trascorrere tempo insieme, volenti o nolenti. Potrei dirvi anche che in realtà non ho mai considerato Matteo un vero amico, bensì solo qualcuno con cui trascorrere del tempo una volta ogni tanto, perchè è una persona che reggo solo a piccole dosi ed è così per tutti, non solo per me.
Non negherò che anche io a volte non sono il massimo dell’affabilità e della simpatia, ma è senz’altro più piacevole trascorrere il tempo con me piuttosto che con lui. Non per vantarmi, ma ho un gran senso dell’umorismo… quando sono di buon umore, s’intende. Altrimenti divento sarcastico e cinico da morire.
“Giorgio? Hai fatto?”
Intendeva ovviamente se avessi trovato tutto ciò che volevo prendere in prestito, ma io non avevo ancora finito di cercare e scossi la testa. “Mi manca ancora un romanzo.”
“Ti aiuto se vuoi.”
“Lascia stare, dovrebbe essere qui vicino.”
Silenzio. Percepivo la sua presenza a pochi passi da me, come una nebbia che aleggiava fitta la sera tardi in Pianura Padana. Ma quando mi voltai dopo aver trovato il tomo che cercavo, non potendo più rimandare oltre, lo vidi fermo a testa bassa, cupo in volto.
“Che c’è?” chiesi, confuso. Non capivo il suo cambiamento di umore improvviso.
“Mia sorella è malata.”
Lo guardai ancora più perplesso. Lui continuò. “Una forma rara tumorale. E’ da un po’ che volevo dirtelo, non lo sa praticamente nessuno a parte la mia famiglia…”
Capii perchè ultimamente sembrava rincorrermi sempre, nonostante i ripetuti inviti declinati da parte mia, nonostante la mia freddezza nei suoi confronti. Voleva solo sfogarsi, e io ero una delle persone che conosceva meglio.
Tacqui per qualche istante, insicuro su come rispondere. “Mi dispiace molto. Come sta? Si sta curando?”
“Sì… ma non sanno ancora se la cura sarà efficace.”
“Andiamo a bere qualcosa.”
Mi sentivo in colpa? Certo.
Ma potevo rimediare almeno in parte? Sicuro.
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16 – Punto di rottura – Valutazione: 23 Gaia: Il racconto lascia un po’ di amaro in bocca… I due personaggi non ne escono particolarmente bene: Giorgio appare un po’ presuntuoso, egoista e addirittura ipocrita; pare quasi farsi un merito del fatto di avere “sopportato” Matteo negli anni, anche se poi ammette i sentirsi quasi in colpa per il modo in cui cerca di evitarlo; Matteo sembra il tipico ragazzo un po’ pesante, che cerca affannosamente un rapporto con Giorgio, nonostante i modi antipatici di quest’ultimo… Un’amicizia imposta “dall’alto” che non si capisce bene che ragione abbia di esistere. Poi, il racconto della malattia cambia le carte in tavola e spinge Giorgio ad ascoltare “l’amico”… o forse, per la prima volta, a prenderlo seriamente in considerazione. Un po’ triste…e non del tutto convincente. Forse valeva la pena di approfondire un po’ le riflessioni di Giorgio per aiutare il lettore a capire se la svolta sia avvenuta per “pena” o se sia stata una reale occasione per iniziare finalmente un’amicizia seria… C’è uno sbilanciamento fra la parte negativa (la descrizione della poca sopportazione) e la conclusione. La narrazione è scorrevole, il linguaggio appropriato e corretto. Matteo: La lettura è scorrevole, ma la qualità formale è altalenante. Non mi è del tutto chiaro il senso del racconto: perchè Giorgio dovrebbe sentirsi particolarmente in colpa? Se una persona ci è poco simpatica siamo legittimati a non passare il tempo insieme. Il fatto che Giorgio cambi idea solo perchè la sorella di Matteo è malata mi sembra piuttosto ipocrita. Paola: Il racconto, sul piano stilistico, è ben scritto e ciò contribuisce a rendere scorrevole la lettura. Purtroppo però ad allontanare il lettore è l’antipatia che si avverte nei confronti di entrambi i personaggi: un Giorgio scostante e supponente (grande umorista, a detta sua) e un Matteo che ha lo stesso appeal di un cagnolino abbandonato. E la malattia della sorella non risolve anzi avvolge il finale di un senso di colpa che si sente addosso anche chi legge. Pietro: Il racconto scorre ma lascia un senso di casualità che ho faticato a spiegarmi. Credo, alla fine, che sia dovuto a una mancanza di definizione del personaggio di Giorgio, il quale ha, certo, un desiderio molto chiaro (evitare Matteo o scrollarselo di dosso), ma solo negativo. Leggendo, noi non sappiamo perché sia uscito di casa, dove stia andando, perché sia una disgrazia incontrare Matteo proprio oggi. Così Giorgio risulta a tratti respingente (le sue motivazioni generiche sembrano scuse), e il racconto un po’ debole. |
“Ma dove scappi così di corsa Giorgio? Aspettami, vengo con te, Giorgio! Giorgio…”
Ancora una volta passava rapido per dileguarsi in fretta, ma quella mattina mi prese il puntiglio di andargli appresso.
Scivolava tra le persone e rasentava incautamente le ruote dei carri. Quando sbucò sull’emporio e incrociai gli occhi di Clara, le feci un rapido cenno portando l’indice alla bocca. Resse il gioco, ma allo stesso tempo diede uno strattone ad Elisa ed i loro sguardi divertiti mi fecero sentire ridicolo.
Clara era un folletto dal cuore tenero, invece Elisa, beh Elisa… erano tutti innamorati di lei, del suo modo garbato di fluttuare le gonne e l’apparente inconsapevolezza di essere seducente.
Intanto Giorgio ed io seguitavamo a correre per le strade polverose, fino al limitare delle case ed oltre. Quando lo vidi tuffarsi nel ripido d’un faggeto, lo seguii finché sfociò sulla grillaia d’un cocuzzolo. Lì rimasi quatto e muto, fermo pure nell’intento di scoprire quel che andasse brigando.
Mi fregio d’essergli stato il miglior amico, ma ammetto che Giorgio apparisse strano, con quel parlare rado e ponderato, spesso lapidario. Come l’altro pomeriggio mentre giocavamo a carte col parroco; al sentir sacramentare giù in oratorio, don Davide stava per afferrare una scopa, quando Giorgio lo trattenne:
“Avranno tempo di incontrare chi si offenda oltre la carità del perdono” disse gettando un 2 di cuori.
Il don si sedette e proseguimmo come se ci avesse benedetto.
Questo era Giorgio, sempre immerso in un mondo del quale, ad essere fortunati, capitava di intravedere la meraviglia.
Ora che l’avevo seguito fin lassù, mi sembrava fossimo piccini come due zecche sulla chierica d’un frate. Poi uno sparo, vivo, a squassare improvvisamente la quiete. Giorgio scappò per dove eravamo venuti, mentre io rimasi schiacciato nell’incavo di un albero.
Benché gli echi della guerra giungessero affievoliti al paesello, uno sparo a quel periodo, gelava le budella. Era l’estate del ’44, l’ultima che avremmo passata insieme.
Tornò a coricarsi il silenzio ed in esso i rumori del bosco, allora uscii sorprendendo là dove non avrebbe avuto ragione d’essere, un giardino vezzosetto: aiuole, panchine, un’altalena ed una casetta per gli uccelli. Dalla casetta spuntava un foglio, la grafia era la sua:
“Quando le luci della sera, aggrediranno quel poco che rimane del giorno
e le stelle inizieranno a caderci tra i capelli,
tu saprai il desiderio che avrò espresso per primo”
Nei giorni successivi, Giorgio continuava ad essere elusivo ed io in modo impertinente, a tornare in quella dimensione da cui mi aveva escluso. Scoprivo il giardino ogni volta ingentilito e quasi sempre in bocca alla casetta un foglio arrotolato, ora suo, ora di “lei”.
Nel crescere innocente e profondo del trasporto, i messaggi rimanevano adespoti e vaghi, ma intuivo che un chiunque come me, non avrebbe dovuto capire.
Poi arrivò il giorno che Giorgio mi colse e tutto precipitò. Avevo un biglietto di lei tra le mani e leggevo a fior di labbra:
“Tesoro! Che pazza a pretendere quest’attesa, affinché tutto, tutto nasca sotto le stelle.
Chissà quale sceglierai per venire a baciarmi, se la vedremo cadere insieme.
Sarà il primo bacio, seppur mille te ne avrò già dati.”
“L’avresti detta tanto dolce?”
“Giorgio… io…”
“Non preoccuparti Checco, sono contento. Avevo voglia, anzi avevo bisogno di parlartene, come gli uccelli che non possono starsene senza cantare. È la prima volta che mi sento tanto felice Checco!”
Poi uno sparo, un altro, ma questa volta non ci fu il tempo di fuggire. Tre persone armate ci attraversarono come spettri. Giorgio si accasciò a terra.
Per tre giorni giacque delirante a letto, il medico aveva detto ai genitori che non c’era speranza, si tenessero pronti in qualsiasi momento.
Quando entrammo nella stanza, Giorgio forzò un sorriso e Clara corse via piangendo. Elisa trattenne le lacrime e sedendogli accanto, gli prese la mano. Non c’era bisogno me ne andassi, erano comunque soli e li guardai mentre parlavano con gli occhi, pacatamente, all’amore come alla morte.
Andai alla finestra, la luna brillava traslucida dietro nuvole di quarzo rosa e mentre le stelle cadevano, il primo bacio non fece alcun rumore.
Il giorno seguente Clara diede ad Elisa il fagotto dei messaggi di Giorgio:
“Qualcuno doveva pur farvelo confessare di essere innamorati.”
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17 – La notte di S. Lorenzo – Valutazione: 32 Gaia: Un racconto grazioso, che crea una atmosfera piacevolmente semplice, leggera, allegra, seppur velata da una certa malinconia. La vicenda stuzzica il lettore, la narrazione scorre felice, pur frenando un po’ per qualche asperità linguistica (non sempre un linguaggio ricercato aiuta la narrazione…). Una delicata storia di amore e amicizia, con un finale triste, ma ben descritto. La forma è corretta. Matteo: Il racconto è agrodolce, la narrazione fluida e appassionante. Alcuni passaggi risultano meno scorrevoli e sono presenti alcune imprecisioni stilistiche. La qualità complessiva del racconto però non ne risente. Non mi convince troppo la frase finale di Clara: mi sembra indelicata (anche se inconsapevolmente) in un momento del genere. Paola: La narrazione è delicata e accompagna gradualmente il lettore nell’universo di tenerezza costruito dai due giovani innamorati. Anche il lettore come Checco non si sente quindi invadente ma coinvolto nella vicenda. La conclusione, in sè drammatica, mantiene però i toni delicati e teneri dell’esordio. Ci sono alcune asperità stilistiche (nell’uso dei verbi e del lessico) che tuttavia non disturbano la lettura. Pietro: Il racconto è scritto molto bene, soprattutto per come scorre il tempo narrativo. Ho trovato solo qualche sbavatura. Innanzitutto il tempo verbale sbagliato nell’episodio del parroco («Come l’altro pomeriggio […] Giorgio lo trattenne», dovrebbe essere «Come qualche giorno prima […] Giorgio lo aveva trattenuto»); quindi la poca chiarezza (almeno per quanto mi riguarda) sulle condizioni di Giorgio – è delirante? come può, allora, parlare con Elisa? o forse non parlano davvero, ma solo con gli occhi? Infine ho apprezzato lo stile e la lingua, tranne quando mi hanno reso difficile la comprensione del testo («sulla grillaia d’un cocuzzolo», «Tre persone armate ci attraversarono come spettri», «mentre parlavano con gli occhi, pacatamente, all’amore come alla morte»). |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
“Lasciami stare! Vattene!”
“Ma Giorgio, non fare così…sai quanto ti voglio bene e quanto ti vuole bene la mamma. Resta un altro po’ almeno, salutali e poi te ne vai…solo cinque minuti”
“E rimanere a guardarli negli occhi?! Mentre mi giudicano e sparlano alle mie spalle…bella famiglia! Meglio perderla che trovarla!”
Giorgio uscì su tutte le furie, lasciandosi dietro il rumore sordo della porta sbattuta.
“Ecco…è andato…la solita testa calda…Mamma! Mamma!”
…
“Mamma!!!”
Dal corridoio una serie di tintinnii, passetti appena accennati, si avvicinarono.
“Eccomi, eccomi! Che c’è? Cos’è questo trambusto? Di là il signor Brigazzi e il papà stanno giocando, muovetevi tu e Giorg- Ma dov’è andato Giorgio?! Di là, la figlia del Brigazzi, l’aspetta e poi ci sono le sor Maria, Frisella e Tanina. Agata, allora?!”
“…se n’è andato ma’…ho provato a dirgli di calmarsi, ma niente…Insomma, voi proprio non volete capire?”
“Cosa? Cosa c’è da capire? A quello poi gli passa, fidati suu. Sono cose che vanno, periodi. No, ciccina? E poi tu sei sempre bella, così brava. Gli passa dai.”
“Mamma, ieri Giorgio vi ha detto che è gay e tu, insieme al papà, cosa decidete di fare? Il giorno dopo invitate a casa il signor Brigazzi, la figlia zitella e le tre sor! Ma con quale intento poi!”
“Oooh Agatina mia, non mi stressare! Su, Giorgio è fumino! Non ci pensare, gli passa. Quello a cui bisogna stare attenti, piuttosto, è la salute di tuo padre. Ieri, poco ci mancava. L’ho fatto per lui…e per Giorgio, ovviamente! Con queste cose non si sa mai. Ora su, vieni di là. Ti aspettano tutti.”
La signora Grazia, vestita di tutto punto per l’occasione, prese sottobraccio la figlia, e con passo flebile e veloce si diresse verso il soggiorno.
Negli occhi di Agata si configura la strana scena, come di uno scontro concitato: le tre sor, dal collo teso e lungo, intente a scrutare, valutare e pontificare su qualsiasi cosa luccicasse o parlasse; il papà fintamente concentrato sul cavallo in E5 sorseggiava non curante la grappa di more. E il signor Bragazzi, decisamente non capace di giocare a scacchi, intento a girarsi intorno, lanciando occhiate di aiuto alla povera figlia, posata sul divano vicino a lui, e che da ben quarantacinque minuti era nel più totale silenzio.
“Ohh ma che trambusto è?!” Proruppe il padre, senza alzare lo sguardo dalla scacchiera, con i sensi come acuiti all’unisono “Pare il modo? Qua, col signor Brigazzi!”
“Ma no, no non si preoccupi” deglutì il signor Brigazzi, decisamente in imbarazzo e volenteroso di tirarsi fuori da una situazione evidentemente privata, in cui, a sua insaputa, era completamente immerso “Quale trambusto? Io, personalmente, non ho sentito nulla…”
“Ma va là, va là! La smetta di fare complimenti! Dov’è quel maledetto?! Quella disgrazia! Quel-
“Amore calmati…”
“Si papà, lascia stare, veramente…”
Ma il signor Ubaldi non aveva la minima intenzione di tacere. Suo figlio…un ricchione, un finocchio! Che scherzo era mai questo? “Dov’è?” Riprese Ubaldi.
“Se n’è andato papà…”
“Signor Ubaldi…” Brigazzi si inserì di sbieco nella conversazione “Io e mia figlia dovremmo andare, sa le commissioni!…” le tre sor si girarono all’unisono verso Brigazzi, attendevano bramose informazioni, succulente storielle. Pensavano a perché il padre fosse così arrabbiato con il figlio, a dove fosse, a un debito di gioco, problemi di droga, amanti e così via, nella loro testa, nascevano e morivano miti e leggende.
Ubaldi mise adagio una mano sulla coscia del Brigazzi, a lui dinanzi “Mio caro…le commissioni sono gravose, lo so per certo…” tutto, in quel suo tono calmo, pareva finto e forzato “ma fra poco sarà pronto il tè…ci sono i biscottini di Grazia e la partita da finire, no?”
Brigazzi non poté fare altro che annuire e rimettersi composto sul divano.
Il tè arrivò, fu bevuto in un silenzio quasi mistico, intenti a sorseggiare la calda bevanda.
Il crepuscolo arrivò presto. Gli ospiti si congedarono formalmente e la casa brevemente si svuotò della sua aria conviviale. Rimasero in tre, sul divano, in silenzio. Agata, Grazia e Ubaldi.
“Beh…io andrei a cercarlo…” disse Agata
“No. Ha fatto una scelta. Qua, in casa mia, ci torna solo con l’anello al dito e con un nipote in braccio!”
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18 – Non è una commedia italiana – Valutazione: 32 Gaia: Il racconto è divertente, se preso sul ridere come merita. I personaggi sono ben connotati: la figlia coscienziosa, la madre che fa di tutto per mediare gli squilibri domestici; il padre ottuso e dispotico, l’amico in imbarazzo, la figlia dell’amico silenziosa, le tre sor pettegole, assetate di particolari… Il tutto ha un che si teatrale; la vicenda è decisamente movimentata e chiassosa, pare di vederla davanti agli occhi. Buona la trama, vivace la narrazione. Qualche appunto sulla lingua: qualche imprecisione nell’uso dei tempi verbali (un presente fuori posto quando Agata rientra nel salone e “si configura..:”); una frase scorretta: “Il tè arrivò, fu bevuto in un silenzio quasi mistico, intenti a sorseggiare la calda bevanda.” (manca un soggetto che supporti l”intenti a sorseggiare”). Matteo: Una commedia davvero riuscita e divertente. I personaggi sono ben costruiti e si muovono con naturalezza sulla scena. Solo un passaggio non mi convince: quando nella prima parte Agata definisce il fratello una testa calda. Mi sembra invece che lei consideri giustificata la sua reazione, pur non avendo il coraggio di difenderlo fino in fondo. Sarebbe, a mio parere, un pensiero più adatto alla madre. Paola: … e invece sì e funziona. Il racconto, svolto integralmente tra le mura domestiche, ha l’impostazione di una piece teatrale sia per la coloritura delle battute sia per la marcata connotazione dei personaggi. Giorgio appare e scompare ma il suo outing getta una famiglia assai tradizionale nello scompiglio più totale e ognuno, etranei compresi, reagisce secondo il cliché. Qualche imprecisione stilistica. Pietro: Una commedia italiana di prim’ordine. Un unico appunto. La frase «Mamma, ieri Giorgio vi ha detto che è gay e tu, insieme al papà, cosa decidete di fare?» è, oltre che un pessimo modo di dare un’informazione (la classica battuta a favore di pubblico), del tutto inutile; i pensieri del signor Ubaldi («Suo figlio…un ricchione, un finocchio! Che scherzo era mai questo?») sono più che sufficienti. E poi non sarebbe male far venire al lettore un bel collo lungo e teso, come quello delle tre sor. |
Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te a correre. Non puoi staccarti da me così.
Sono arrivata stamattina in ufficio mentre lavoravi da qualche ora, eravamo insieme al bar quando ti sei fermato a fare merenda. Ti sono stata vicina sul tram mentre andavi a prendere quella maglietta che tanto ti piaceva. In macchina ero abbracciata al tuo petto mentre guidavi per tornare a casa. Ho urlato per farmi sentire quando sei passato davanti al ristorante all’angolo, dove c’è il semaforo che dura un secolo. Solo tu mi hai sentito, ma questo non ha tolto niente al mio grido.
Quando hai aperto la porta di casa le mie unghie si sono fatte sentire più profonde nel tuo stomaco e le lacrime che hai versato davanti alla tazza ancora sporca di rossetto non sono servite a far passare il dolore. Pensi davvero di poterti liberare di me così facilmente dopo tutto quello che hai fatto? Tre anni per una donna e ora vuoi stare solo. No, io non ti lascio adesso.
Non sono come lei. Ora che siamo legati io non ti lascio andare via per testardaggine.
Sono la parte sana di te, l’unica buona e farò sentire la mia voce, mentre tutto il marcio che hai dentro cerca di zittirmi. Continua a correre, io ci sono comunque. Non serve alzare il volume della musica, questa canzone la stavi ascoltando in macchina, dopo che l’hai fatta scendere. Ecco il ritornello che era partito esattamente mentre chiudeva la portiera per l’ultima volta. Cambia canzone se vuoi, le conosco tutte. Non puoi ignorarmi.
Fai fatica a respirare con questo profumo in testa, con le mie gambe che ti stringono il torace come le sue ti stringevano i fianchi, mentre si mordeva le labbra accarezzandosi i capelli.
Pensa perché te ne sei privato. Sei tu, che hai rovinato tutto. Sei un uomo e ti comporti come un bambino capriccioso. Aveva ragione a dirti che sei immaturo e assurdo.
Continua a correre così! Accelera pure, il battito che aumenta non mi farà sparire. La mia presa sul tuo petto rimarrà qui, salda, finché non farai la cosa giusta. Metti via quel telefono, non essere ridicolo. Cosa pensi di fare? Impietosirla dicendo di non essere riuscito a togliere il suo rossetto dalla tazza di Snoopy? Magari con un messaggio WhatsApp. Hai quarant’anni, smettila!
Che succede ora? Il sudore sta riuscendo dove le lacrime avevano fallito. Mi sto calmando.
Abbasserò un po’ la voce mentre corri quest’altro chilometro. Forse allenterò un po’ la presa, ma senza interrompere le vostre immagini. Non mentire, non è per il freddo che ti cola il naso e hai ancora le lacrime. Lo sai che ho ragione. Corri e guardati intorno. Sei da solo. A casa sarai da solo, nessun amico con cui andare a bere una birra. Li hai allontanati tutti quando ti dicevano di lasciarla perdere, che ti stava usando. Li hai maledetti dopo aver provato a convincerli che anche lei ti amava.
Volevi che rinunciasse al suo lavoro per te, perché sei speciale. Che interrompesse la sua carriera perché tu l’amavi come nessun altro. Le dicevi che poteva essere meglio di così, anche se era rimasta esattamente come l’avevi conosciuta.
Avresti potuto averla ancora, ma hai voluto strafare. Volevi fosse solo tua. Volevi essere solo suo. E ora non vuole più vederti né sentirti. L’hai fatta scappare e sai che ha ragione lei.
Aumenta il ritmo, corri più veloce, fai quest’ultimo chilometro e guardala, dall’altro lato della strada, mentre entra nel ristorante all’angolo con un altro. Guarda com’è interessata a quello che lui dice. Come si accarezza i capelli, si morde le labbra e accavalla le gambe. Gli ha preso la mano mentre la sua caviglia gli accarezza la gamba. Ora lui pensa di essere speciale.
STOP!
Hai finito di correre. Prendi fiato. Respira.
Ora hai l’occasione di zittirmi, ma devi accettare quello che ti dico.
Devi accettare me.
Lei è con un altro e ti fa male, ma sai che è quello che doveva essere.
Fermati, respira ancora.
Guarda il tuo riflesso nella vetrina e vedi i fatti per quello che sono. Sei tu che hai capito male, non sei speciale e non lo sei mai stato, almeno non per lei.
Non eri l’uomo della sua vita, non eri la sua salvezza.
Eri solo un altro dei suoi clienti.
Uno dei tanti.
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19 – 5KM – Valutazione: 33 Gaia: Una buona narrazione, che porta il lettore da un punto al suo opposto, senza che egli quasi se ne renda conto, In principio pare che la voce narrante (la parte “sana” di Giorgio) lo stia redarguendo perchè si è fatto scappare la donna amata…, poi quasi infastidisce perchè critica Giorgio per aver preteso un rapporto esclusivo, poi, pian piano, la realtà si svela: la donna non era innamorata, ma faceva il suo “mestiere”…; il rimprovero non è per aver rinunciato colpevolmente all’amore, ma per essersi illuso che vi fosse. L’invito, allora, è a guardare le cose come stanno: “Eri solo un altro dei suoi clienti.” Divertente e un po’ spiazzante. Un buon lavoro. Matteo: La voce della coscienza del protagonista è davvero potente, l’idea di rappresentarla come una donna vera e propria, in contrasto con quella che se ne è andata, è davvero molto originale. La narrazione è scorrevole, ma allo stesso tempo serrata ed energica. Il protagonista sembra un burattino nelle mani di una coscienza decisa finalmente a riprendere il controllo. Paola: Mentre si corre insieme a Giorgio la voce risuona nelle nostre orecchie, come nelle sue, e, per certi aspetti, infastidisce. Si sarebbe tentati di zittirla o di blandirla, dispiaciuti per il povero Giorgio che sembra aver preteso un rapporto esclusivo. Poi però la voce continua e … il lettore capisce che l’errore di Giorgio è ben altro: si è ostinatamente aggrappato all’idea di non essere un cliente come gli altri. E ha perso tutto: rapporti, amici, stima di sè. Tutto ma non lei, la sua coscienza. Lo stile narrativo contribuisce con efficacia a creare e sostenere il misunderstanding fino alla fine. Pietro: Il racconto funziona molto bene. Perfetto il rilascio delle informazioni. Solo, non sono sicuro che a parlare sia la parte sana della psiche di Giorgio. Alcune frasi (come «Pensa perché te ne sei privato», «Avresti potuto averla ancora», «L’hai fatta scappare») sembrano suggerire che essa avesse un fine patologico (rimuovere il bisogno di amore esclusivo di un innamorato) e che, spacciandosi per sana, perseguiti Giorgio per non averlo raggiunto. È un’osservazione esterna, che non pregiudica in alcun modo un racconto la cui voce narrante è coerente dall’inizio alla fine. Se l’obiettivo era quello di dar voce alla più subdola delle parti patologiche, chapeau; se invece era davvero quello di dar voce a una parte sana, è bene sapere che non è stato raggiunto. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te” urlai mentre scompariva velocemente dalla mia vista.
Lui non accennò nemmeno per un istante a voltarsi e continuò spedito a correre senza degnarmi di alcuna risposta.
Questa fu l’ultima volta che vidi Giorgio.
Appresi dal giornale locale, qualche giorno dopo, che fu ritrovato senza vita.
Ripercorsi quel momento e ricordai che non avevo mai visto Giorgio così agitato.
Ma cosa poteva essere successo?
Eravamo amici sin dall’infanzia e, crescendo insieme, conoscevo tutto di lui.
Sino ad oggi non si era mai fatto scrupoli a confidarmi ogni cosa; aveva sempre nutrito molta fiducia in me e non mi capacito di come non mi abbia rivelato cosa stava succedendo.
Sicuramente stava vivendo una situazione di forte disagio oppure era finito in un guaio più grosso di lui difficile da gestire.
Ma perchè non mi ha detto nulla? L’avrei aiutato come sempre, avremmo cercato una soluzione insieme.
Forse quel giorno, quel maledetto giorno avrei dovuto seguirlo. Ah se smettessi di fumare queste dannate sigarette sicuramente gli sarei stato dietro.
Talmente scosso dalla brutta notizia non mi ero accorto che non avevo terminato di leggere l’articolo di giornale.
Il quale citava a grandi caratteri: ”Annunciamo la terribile perdita di Giorgio Nemi, cittadino modello sempre in prima linea per aiutare il paese e bla bla bla
Oggi la protezione civile ha rinvenuto un cadavere sul letto del fiume Gilo.
Effettuata l’autopsia possiamo dire con certezza che il corpo ritrovato apparteneva a Giorgio Nemi, morto annegato.”
Con la vista percorsi velocemente la fine dell’articolo.
Mi fece rabbrividire l’ultima parola: annegato.
Annegato? Ma ho letto bene?
Non convinto rilessi e c’era proprio scritto annegato.
Ma com’era possibile?
Lui non si avvicinava mai al fiume perchè ne era terrorizzato dopo aver visto affogare suo padre.
Probabilmente qualcuno l’aveva spinto ad andare lì e quella persona sapeva anche che lui non era capace a nuotare.
Ecco spiegato perchè quel giorno lui era così agitato. Lui conosceva già la sua sorte.
Non ci sono altre conclusioni.
Ma chi poteva volergli così male da ammazzarlo?
Infondo tutti conoscevano Giorgio in paese, tutti sapevano che persona meravigliosa fosse.
Lui viveva di volontariato.
Divideva le sue giornate aiutando i vigili del fuoco oppure prestando servizio in croce rossa o nella casa di riposo.
Nei weekend, invece, lo trovavi nel gattile e nel canile ad accudire e coccolare i pelosetti ospitati dalla struttura.
Quindi come poteva qualcuno avercela con lui a tal punto di ucciderlo?
Ovviamente non potevo garantire alle mie domande delle risposte.
Non potevo nemmeno indagare da solo perchè non avevo gli strumenti necessari.
Non avrei saputo nemmeno da dove partire.
Inoltre nemmeno la polizia aveva iniziato l’indagine.
Avevano archiviato il caso concludendolo come morte accidentale.
Sapevo in cuor mio che non era accidentale la sua morte, sapevo che non era caduto nel fiume per una disattenzione.
Avevo le mani legate e mi sentivo inutile ma non potevo fare altrimenti.
Non conoscerò mai la verità, e me ne devo fare una ragione.
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20 – La scomparsa di Giorgio – Valutazione: 16 Gaia: Una trama alquanto povera, priva di mordente. Non c’è una storia, i fatti paiono non avere un fondamento o una spiegazione. I particolari sono buttati un po’ lì… Il finale delude, non offrendo una reale conclusione. C’è un mistero, ma non viene dato alcuno spunto per ipotizzare una soluzione. La forma mostra diverse incertezze e alcuni errori. Non sempre corretta la gestione dei tempi verbali. “Eravamo amici sin dall’infanzia e, crescendo insieme, conoscevo tutto di lui.” (sarebbe stato corretto dire: essendo cresciuti insieme). “Il quale citava a grandi caratteri:” non si inizia un periodo con un pronome relativo (risulta zoppa!). Matteo: Il racconto ruota intorno ai pensieri del protagonista nel momento in cui legge della morte dell’amico sul giornale: sono pensieri confusi (una confusione che permea anche la narrazione) e che, riguardo a quanto accaduto, non ci rivelano quasi nulla in più rispetto a quanto scritto nell’articolo. Sembra quasi che il racconto termini prima di cominciare, dal momento che il protagonista non ha nessuna reazione che lo spinga ad agire. Paola: La trama non regge, ci sono vari aspetti poco chiari: perché Giorgio corre verso una meta che gli fa orrore e che teme, come mai non si è mai aperto con il protagonista, finale osa può nascondere un uomo tanto tranquillo? Nel finale non viene data alcuna soluzione. Alcune imprecisioni sul piano stilistico. Pietro: Il racconto soffre di un problema di fondo circa la figura del protagonista e la qualità delle informazioni che fornisce. Pur essendo, infatti, il miglior amico di Giorgio, in questa breve inchiesta privata egli non ci rivela nulla che non potremmo sapere da un qualsiasi altro paesano («tutti conoscevano Giorgio in paese»). L’unica informazione non condivisa potrebbe essere il terrore di Giorgio per l’acqua. Ma allora non si capisce perché il protagonista non prenda l’iniziativa, indagando da solo o almeno sporgendo denuncia. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”. Tante volte avevo ripetuto quella frase nella mia testa, sognando di averla realmente pronunciata, ma non e’ così che erano andate le cose. La realtà era ben diversa ed avevo lasciato andare via l’unica persona che mi avesse fatto sentire viva e amata.
Quando due persone smettono di amarsi, non succede all’improvviso, ma c’è qualcosa di piccolo ed insignificante che avviene quasi ogni giorno, come una goccia d’acqua che scava la roccia, lentamente, ma che, in modo continuo, fa si che quella fessura diventi sempre più profonda.
Era una crepa, all’inizio piccola, che si è trasformata in una voragine. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Ci eravamo conosciuti al liceo, la nostra non era stata una relazione adolescenziale, eravamo amici e la vita ci ha portati a fare diverse esperienze, prima di capire che eravamo la metà perfetta, l’uno dell’altra.
Negli anni dell’università, avevamo continuato a vederci, ci siamo fatti forza nei momenti difficili e abbiamo gioito in quelli felici, una sana e profonda amicizia.
Ci eravamo rincontrati, soli, nello stesso momento, lasciati per motivi diversi dai rispettivi partners, abbiamo imparato a leccarci le ferite, insieme.
L’amore la prima volta, l’avevamo fatto, dopo che io avevo pianto disperatamente per quello lì che mi aveva lasciata per una collega di lavoro più giovane e più bella di me, anche più stupida, ma che aveva sempre qualcosa in più della sottoscritta.
Da lì ne erano seguite scuse, rimpianti, giustificazioni, ma dopo una settimana, ci eravamo ritrovati nello stesso letto, nella casa diversa.
Avevamo così capito di essere fatti l’uno per l’altra e che era giunto il momento di provarci, di provare a far andare meglio, qualcosa che, da sempre, andava bene.
Non siamo passati dal via ed in fretta e furia, senza pensarci, ci siamo buttati dentro a quella relazione, che avrebbe dovuto riempire tutti i vuoti, che avevamo accumulato negli anni. Convivenza, senza primi appuntamenti, rapporto maturo, senza figli, mentre i nostri amici imparavano a montare l’ultimo passeggino, per il terzo figlio in arrivo. Per un po’ è stato meraviglioso, stessi interessi, stessi amici, abitudini simili, il conoscerci così a fondo, ci dava la sensazione che vivessimo nel modo più naturale possibile la nostra intimità ed anche tutto il resto, ma ad un tratto è arrivata la noia, la routine, il dare e darsi per scontati.
La certezza di sapere, sempre, quello che l’altro pensava, non ci ha più permesso di chiederlo, vivendo di convinzioni, spesso errate e distruttive e aumentando i silenzi, i non detto, le elucubrazioni mentali, le paranoie e le fissazioni.
Da conviventi ci siamo trasformati in coinquilini, fino a diventare estranei, ad evitare tutto ciò che prima, amavamo.
Gli amici sono cambiati, gli orari stravolti, passavamo intere settimane ad incontrarci sulla soglia di casa, uno usciva per far entrare l’altro.
Semplicemente ci siamo evitati, per lunghi mesi, abbiamo rimandato il momento del confronto, per la paura di dirci che era finita.
Nessuno dei due voleva rinunciare all’unica cosa che aveva funzionato negli ultimi anni, nessuno dei due voleva rinunciare all’amico che era stato sostegno e punto fermo, àncora e porto, nido e casa.
Ed una sera, dopo aver cenato insieme, senza averlo deciso; Giorgio si era alzato, senza neanche aver finito di mangiare, senza una parola, un grido, un lamento, si era alzato, di scatto ed era andato in camera nostra, aveva tirato giù dall’armadio il borsone, quello vecchio, quello dei nostri viaggi, quello che, tante volte, aveva riempito di corsa, buttando dentro cose a caso, tutte le volte che aveva voglia di partire ed io lo seguivo; l’avrei seguito ovunque , l’avrei seguito se mi avesse voluto con sé; ma quella sera, no, lui voleva andarsene, voleva andare via, via da me.
E di corsa se ne era andato, non voleva essere fermato; correva per non darsi il tempo di pensare, correva perché non voleva che io lo fermassi, voleva solo scappare. Le scale, di corsa ed io ero rimasta lì, seduta al tavolo, immobile, paralizzata, incapace di muovermi e di parlare, incapace anche di pensare.
Non gliel’avevo detto, non avevo detto: “Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”. Le parole erano rimaste in gola, nessun suono, solo un nodo, che mi stringeva sempre più forte.
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21 – In amore vince chi scappa – Valutazione: 20 Gaia: La narrazione è un po’ confusa: a tratti l’amore fra Giorgio e l’amica di sempre pare il fiorire di un seme gettato da tempo, a tratti, invece, pare un ripiego/rifugio destinato a morire di morte naturale… L’entusiamo iniziale che lascia gradualmente spazio alla più totale lontananza stride col grido soffocato dell’incipit…. (perchè la protagonista avrebbe dovuto fermare Giorgio, se tanto fra loro non c’era più nulla…?). La vicenda risulta un po’ noiosa, la narrazione non particolarmente coinvolgente. Una critica al titolo: “In amore vince chi scappa”: a cosa si riferisce? Giorgio è scappata, ma ha davvero vinto? L’amore funziona quando uno scappa?? C’è dell’assurdo: l’amore, per vincere, ha bisgono di due persone felici insieme; se uno scappa, non solo non c’è vittoria, ma neppure amore! Diverse imprecisioni di carattere linguistico. Spesso incoerente l’uso della punteggiatura. Matteo: Le premesse sono buone, ma ben presto il racconto si perde nella descrizione di un rapporto probabilmente troppo complicato per essere riassunto in poco spazio. La conseguenza è che tutto rimane in superficie, non riusciamo a conoscere davvero i due protagonisti. Tutto viene detto e manca l’azione. Migliora nel finale, dal punto in cui Giorgio prepara la valigia. In quel momento il personaggio è reale, lo vediamo per davvero. Paola: In questo amore non ha vinto nessuno: lui scappa e lo fa in fretta e senza voltarsi e lei non lo insegue e lo rimpiange ma lo fa senza mordente. Eppure erano amici! Ci si sarebbe aspettato che in nome di quel rapporto si guardassero in faccia per dirsi “addio”. Sul piano formale ci sono alcune imprecisioni. Pietro: Il racconto ha una buona impostazione ma manca il suo obiettivo: il grande viaggio nel passato della coppia, alla fine, non ci spiega perché la protagonista non abbia fermato Giorgio. Attenzione alle virgole, spesso intralciano la lettura. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te…”
Sono state le ultime parole che ho pronunciato prima di sentire la porta blindata sbattere e il rumore riecheggiare nella stanza vuota. Un rumore fisso, ritmato, quasi come il suono di quello stano strumento a percussioni che qualche giorno prima avevo sentito suonare da un giovane rasta vicino a Piazza Duomo.
Mi sono sentita libera, non avevo nessuna intenzione di seguirlo.
Ho passato tre anni della mia vita accanto ad un ragazzo incapace di donare affetto. Le emozioni erano la sua paura più grande, con il tempo si era costruito un barriera di razionalità che lo aveva reso freddo, distaccato e rigido.
Le persone che incontravo per strada, mi dicevano: “hai un ragazzo d’oro!”
oppure “ tienilo stretto che è di buona famiglia”, mia nonna lo adorava e i miei genitori non potevano pensarmi accanto a nessun altro.
Giorgio e io eravamo fatti per stare insieme, così dicevano tutti i nostri amici, con il tempo ce ne convincemmo anche noi e in un freddo inverno, due giorni prima di Natale, ci mettemmo insieme. Ricordo che eravamo sulla mia auto, fuori iniziavano a scendere i primi fiocchi di neve e noi in silenzio li guardavamo accoccolarsi dolcemente sul parabrezza e svanire. Poi lui mi disse che voleva provarci, che era stanco di essere mio amico, che era pronto a fare sul serio con me, che forse era da sempre innamorato di me. Ma non ne era convinto.
Io amo sempre in maniera smisurata, è il dramma delle persone sensibili, lasciano il cuore ovunque, spesso anche dove non serve. Così in quei tre anni donai a Luca il mio intero cuore, ma lui non sapeva che farsene. Era troppo impegnato ad avere successo al lavoro, ad essere gratificato dalle cose materiali.
Si dedicava ad attività lodevoli che potessero nutrire il suo ego smisurato. Era campione di nuoto, e tutte quelle ore passate in piscina gli avevano regalato delle spalle forti e larghe. Quante volte avrei voluto sdraiarmi sul divano, accoccolata tra le sue braccia, guardando un film dopo una lunga e difficile giornata di lavoro. Ma lui aveva sempre qualcosa da fare, documenti da finire, relazioni da spedire via mail, telefonate importanti.
Tutto veniva prima di me.
Lui non credeva alle mie dichiarazioni di affetto, le trovava inutili, mi accusava di non amarlo abbastanza.
Ricordo che una sera d’estate, organizzai un pic-nic, era il mio giorno di riposo dal lavoro, mi alzai presto e preparai dei meravigliosi tramezzini e del mojito con la menta raccolta dal nostro giardinetto.
Lui quella sera tornò a casa e mi disse che avevo la faccia stanca, un po’ spenta, brutta insomma.
“Non è meglio che vai a riposare? Andiamo domani, magari, a mangiare. Ti porto in un ristorante, non a fare un pic-nic”.
Mi misi a ridere, andai in camera, indossai un abitino bianco svolazzante, i miei orecchini di perle preferiti, mi truccai delicatamente, uscii di casa con il mio cestino da pic-nic e con la bicicletta sfrecciai forte per le viette di campagna.
Il profumo intenso dei campi di grano, le cicale e i grilli mi facevano compagnia, la leggera brezza estiva mi fece venire la pelle d’oca e alzò il vestitino lasciando intravedere le mutandine bianche a pois rossi.
In cielo c’era una stellata incantevole, io costeggiai gran parte della passeggiata sul Canale Villoresi e mi fermai in uno dei miei luoghi preferiti. Distesi a terra la tovaglia a quadrettini bianchi e blu e sentii la felicità entrarmi nel cuore.
Avevo finalmente scelto me stessa.
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22 – HO SCELTO ME – Valutazione: 20 Gaia: Una trama un po’ debole, a volte contraddittoria: lei che cerca di fermare la corsa di Giorgio, ma in realtà è ben felice che se ne vada; frasi e dimostrazioni di affetto che vengono interpretate come mancanza di amore…; un pic nic serale, al buio, in bicicletta, da sola… E poi non si capisce bene in quale momento si collochi l’evento del pic-nic, apparentemente annuncio di un’imminente separazione (ma è lui ad andarsene, in realtà…). In sintesi: la dinamica della relazione non è chiarissima. Non particolarmente coinvolgente. Corretto il linguaggio. Matteo: L’incipit contrasta in modo poco congruente con il finale: perchè è Giorgio ad andarsene, se è la protagonista a scegliere di mettere fine alla relazione? Anche se i due protagonisti sono costruiti piuttosto bene, la loro relazione non riesce a occupare con naturalezza il palcoscenico, non è viva. A mio parere, la narrazione potrebbe cominciare dai preparativi per il pic-nic (da tutti i dubbi e le aspettative connesse), per poi far emergere le problematiche della relazione attraverso l’azione dei personaggi. Paola: L’aspetto megliore di questo racconto è la connotazione chiara e ben delineata dei due personaggi: freddo e calcolatore lui, sentimentale e calda lei. Non regge invece la struttura narrativa: la vicenda si apre con la porta di casa che sbatte e lui che esce in un gesto teatrale ma si conclude con lei che, di fronte a un rifiuto di Giorgio, parte sola per il pic nic che aveva organizzato. Il corpo centrale è occupato dalla narrazione del disastro sentimentale della coppia. Pietro: Il punto di forza di questo racconto sono le scene, che restituiscono perfettamente e con la giusta amarezza lo scontro tra i desideri dei due personaggi. Le sue debolezze, invece, il passaggio tra le scene un po’ affrettato (il caso più lampante è la mancata chiusura dell’anello narrativo), e una certa compiutezza del giudizio. In fondo è proprio il racconto a costituire l’ultimo passo verso la piena consapevolezza della protagonista e verso la sua scelta. Per salvaguardare il senso del viaggio sarebbe allora più opportuno non dare giudizi espliciti sin dall’inizio (ad esempio tutto il paragrafo «Ho passato tre anni…»). |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te” disse Luigi tenendo per la coda un cagnolino tutto bianco, “Pant pant, eccomi arrivo!”, gli fece dire ansimando e facendolo trotterellare in piccoli balzelli.
Nell’altra mano un orso pelosone si girò e portando il mento al petto, Luigi gli diede la voce più grande che riuscì a fare: “Forza, sbrigati che non ho tempo da perdere”.
Poi sbirciò dentro uno cesto di vimini e dopo aver rovistato un po’, ne trasse uno gnomo panciuto dal cappello a punta. Lo fece zompettare da un piede all’altro, con la punta del cappello che puntava ora sulle dieci, ora sulle due, poi con una parlata come quella che ci si aspetterebbe da uno gnomo panciuto: “Ciao! Dove andate?”, al che l’orso Giorgio rispose: “A prendere il muschio per il presepe”. Il cagnolino bianco si mise a saltellare sul posto: “Si dai, vieni anche tu!” e lo gnomo si accodò sul tappeto.
Con foga Luigi rovistò di nuovo nel cesto, sapeva quel che andava cercando, ma non lo trovava e così immerse anche la testa tra tutti i pupazzi, ma cosa non accadde al suo volto quando lo ritrasse!? Era trasfigurato in un ghigno malvagissimo, con le sopracciglia insaccate verso il principio del naso e le labbra strette da divenir bianche! Nella mano destra uno pterodattilo prese a volteggiare in cerchio “Aaaa, Uaaaa, Aaaa”, poi se ne andò tra mille acrobazie in giro per la stanza, sul divano, sotto il tavolo “Aaaaa, Uaaaa, ora arrivo e vi sputo il fuoco! Ora arrivooooo!”.
Luigi fece posare l’uccellaccio sul bordo della libreria e corse dal cagnolino “Giorgio Giorgio ho paura! Chi è quello che vuole sputare il fuoco?”, prontamente l’orso pelosone gli si parò davanti e con voce grande cercò di mettere ordine: “Tranquillo cagnolino, è uno perotappilo, ma non ci farà niente”. Lo gnomo questa volta non saltellava più tanto allegramente, anzi, infilzò la testa appuntita tra due cusini “Brr brr, ho paura!” diceva col sederone per aria. La faccenda era seria, lo pterodattilo aveva proprio un’aria minacciosa e li fissava pronto a spiccare il volo da un momento all’altro. Luigi senza perdere un secondo, corse a prendere la coperta di pile dalla poltrona del nonno e ne fece immediatamente un’altissima montagna “Tu cagnolino sistemati dentro questa caverna, tu gnomo vieni con me” disse Giorgio. Il cagnolino scomparve tra le pieghe della coperta, mentre l’orso e lo gnomo con pochi balzelli coprirono mille miglia di dislivello. Quando furono in cima Giorgio bofonchiò qualcosa all’orecchio del compare “Mumble mumble…”, lo gnomo fece segno di aver capito e Luigi li sistemò alquanto sbiechi sulla cima.
Come immaginerete l’uccellaccio spiccò il volo verso i due “Whammm Whammm” prese a sputar fuoco, ma lo gnomo salì sulle braccia tese e rigide di Giorgio, che lo lanciò in altissimo “Sbisccccc” in uno scontro terrificante la punta del cappello ferì mortalmente il cattivone, che iniziò ad agonizzare in tragicissimi lamenti “Aaaaaa, muoiooo, Aaaa” e come all’ultima tornata delle montagne russe, finì la sua maldestra planata a pancia in su “Sbang, sono morto!” disse con sommo sconforto.
Giorgio e lo gnomo per la gioia appiattirono la montagna coi loro salti, poi il cagnolino uscì dalla grotta, aveva visto tutto “Yeeeee, viva Giorgio, viva Giorgio! Ora possiamo andare a prendere il muschio per il presepe!”, ma qualcos’altro volle interrompere la spedizione e questa volta Giorgio non avrebbe potuto fare nulla:
“Gigi vai a lavare le mani, è pronto!”.
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23 – Giorgio, il cagnolino e lo gnomo – Valutazione: 29 Gaia: Un simpatico racconto per bambini; certamente un modo originale di sfruttare l’incipit. La storia animata dal piccolo Luigi si legge volentieri, è scorrevole e simpaticamente prevedibile. Il bimbo è come sorpreso nel pieno del suo gioco ed è descritto in modo vivido. La forma è buona. Il finale divertente. Matteo: Il racconto è ben scritto e la lettura è davvero scorrevole. A mio parere però qualcosa non funziona nella concezione di fondo del racconto. Sembra a prima vista una storia per bambini, ma così non è: si tratta piuttosto di una storia che parla di un bambino (che quindi deve avere caratteristiche diverse). Il racconto è eccessivamente ancorato al gioco inventato dal bambino, che dovrebbe essere un semplice strumento narrativo. Nel finale il testo gira a vuoto, quando invece (una volta usciti dal gioco) dovrebbe farci capire il senso della narrazione. Paola: L’idea di fondo del racconto è interessante e incuriosisce il lettore, spingendolo a continuare. Lineare e scorrevole sul piano stilistico. Pietro: Idea interessante (e meno innocua di quanto possa sembrare), racconto ben scritto. All’inizio un’ambiguità rende difficile la comprensione del testo: «tenendo per la coda un cagnolino tutto bianco» fa pensare che il cane sia Giorgio, che sia un animale in carne e ossa, e che Luigi lo trattenga per andare con lui. Il «come immaginerete» verso la fine evoca tutta una dimensione di rapporti tra chi scrive e il pubblico che non aggiunge nulla al testo. |
“Ma dove scappi così di corsa Giorgio? Aspettami, vengo con te! Cosa ti è successo? Giorgio, stai bene?”
“Ho visto il Sapone a Golasecca”
“Smettila, cosa stai dicendo? Che sapone?”
“Nicola Sapone”
Giorgio era uscito quel tardo pomeriggio per una corsetta tra i boschi che costeggiano la strada della Mercantera. Passando davanti alla baita dei Ballarin, vide un uomo. Indossava un saio nero, tra le mani una falce, sembrava la Nera Mietitrice e poi…e poi quella musica satanica proveniva forse da un’auto. Giorgio incrociò il suo sguardo. Era certo che Sapone l’avesse riconosciuto.
“Giorgio, non scherzare, dopo aver ucciso il Tollis e la Pezzotta ed aver istigato un po’ di gente al suicidio…beh, sta ancora scontando i due ergastoli. Dubito lo vedremo ancora.”
“Luca seguimi!”
“Ma gli Slayer1 lo sanno? Questa volta glielo dici tu a Jeff Hanneman!”
“Luca, è una cosa seria, smettila!”
Sotto casa di Giorgio incontrarono Dino Conti, un fiorentino che da poco si era trasferito nell’appartamento accanto. Un bel tipo, alto, una camminata di quelle che ti impediscono di staccargli gli occhi di dosso ed un look volutamente trascurato. Non si conosceva la sua professione, voci di paese dicevano fosse un militare in congedo permanente. I due amici scambiarono con Conti due convenevoli poi con una scusa lo salutarono.
Più tardi, annacquando la tensione con un calice di prosecco, cercarono su un sito di cronaca nera notizie di Sapone. Effettivamente era in carcere e stava per laurearsi in filosofia.
“Chi l’avrebbe mai immaginato!” esclamò Luca. “Guarda un po’, il Volpe invece dopo il pentimento è diventato credente”.
Giorgio non era tranquillo, l’indomani sarebbe tornato a Golasecca.
Nonostante la baita dei Ballarin fosse abbandonata da anni, trovò la brace di un fuoco spento da poco, nei pressi una bottiglia vuota di vodka ed un pacchetto di sigarette accartocciato. Tra il mantello di aghi di pino antistante l’ingresso qualcosa luccicava: un ciondolo, in realtà era una placca metallica, sul retro un’incisione: San Salvi – Firenze. Recentemente un simile pendaglio l’aveva visto al collo di qualcuno di sua conoscenza, non fu in grado di ricordare chi fosse.
Comunque era evidente che qualcuno fosse stato li.
Giorgio scoprì che il San Salvi era stato un manicomio, chiuso grazie alla legge Basaglia del ’78.
“Cosa c’entra il San Salvi con colui che voleva assumere le sembianze del Sapone?”. Si ripeteva queste parole mentre vagava per la sua abitazione in cerca di risposte.
Aveva iniziato a piovere. Una pioggia battente, sembrava scandire i minuti ed i secondi di quella sera. A rompere quel ritmo fu il campanello. Dallo spioncino Giorgio riconobbe Dino. Si sentì sollevato di avere visite, così aprì la porta invitando il vicino di casa ad entrare. Giorgio gli raccontò le sue perplessità. Conti nonostante fosse “forestiero” conosceva bene la storia del Sapone, del Volpe e compagnia bella. Aveva avuto modo di appassionarsi a quel caso di cronaca che li aveva visti protagonisti e che tanto aveva terrorizzato la provincia di Milano e Varese nel ‘98.
Mentre Dino incalzava domande su domande, Giorgio si ricordò che la piastrina trovata apparteneva proprio al suo interlocutore. Rabbrividì. In effetti la sua corporatura faceva pensare a colui che indossava la tunica. Certo i capelli non erano gli stessi ma una parrucca avrebbe reso possibile la trasformazione. Si sentì improvvisamente assalito dal pericolo ed il fiorentino aveva ormai avvertito questo stato d’animo. Con una scusa Giorgio si allontanò, mentre cercava di raggiungere le scale, si sentì afferrare per il collo.
La voce di Dino si era trasformata in un suono disumano che gli sussurrava: “Le bestie di satana sono tornate! Muori!”
Le urla di Giorgio furono udite da alcuni passanti che intervennero prontamente evitando l’irreparabile.
Dino Conti non era altro che un disadattato che aveva trascorso quindici anni della sua vita al San Salvi, nella sua pazzia si convinse di essere una bestia di satana e di dover proseguire in totale spirito di emulazione ciò che la droga e la noia avevano a suo tempo iniziato.
1 Gruppo metal accusato di aver ispirato gli omicidi elle BdS
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24 – Il sapone – Valutazione: 22 Gaia: La vicenda certamente incuriosisce il lettore, che ne segue voelntieri gli sviluppi. I personaggi, però, non sono costruiti perfettamente: a figura di Luca sparisce dopo poche righe; Dino, apparentemente quasi uno sconosciuto, viene inaspettatamente coinvolto a pieno regime e non si comprende bene perchè Giorgio senta il bisogno di raccontargli tutto… Una migliore organizzazione dei personaggi e dell’archittetura narrativa avrebbe certamente dato maggior valore ai contenuti. Buona la forma. Un po’ più di tempo avrebbe consentito forse un risultato migliore: ce n’erano tutte le premesse! Matteo: La struttura del racconto non è ben congeniata: lo sviluppo della narrazione è difficile da seguire, anche a causa della poca consistenza dei personaggi. Il dialogo iniziale mi è parso innaturale e il paragrafo in cui si descrive l’incontro tra Giorgio e il Sapone presenta una consecutio temporum errata. In generale la vicenda è poco convincente ed è facile per il lettore perdere dei passaggi. Paola: Il racconto è interessante e, nel complesso, piuttosto ben costruito. Per rafforzare il ruolo di Luca, altrimenti marginale, si poteva fare in modo che i due amici proseguissero le indagini insieme. Giorgio avrebbe comunque potuto trovarsi solo al momento dell’aggressione. Utili i riferimenti di cronaca (delitti, gruppo metal e ospedale psichiatrico): danno sostanza al racconto. Corretto sul piano stilistico. Pietro: La storia è interessante, il racconto non sempre le rende giustizia. In particolare, nulla viene detto del motivo che spinge Giorgio a indagare su ciò che ha visto (perché, mi chiedo, non farsi i fatti propri?), né è credibile la lentezza con cui Giorgio, trovata la piastrina, capisce che la Nera Mietitrice è Dino (anche perché, piastrina o no, chi legge capisce tutto non appena viene presentato il forestiero); inoltre la figura di Luca è inutile allo sviluppo della trama. Per risolvere tutti questi problemi in un colpo solo credo basterebbe mettere Dino al posto di Luca. In questo modo Giorgio, vista la Nera Mietitrice, chiederebbe aiuto al suo amico Dino, ignaro che è proprio lui ad averlo terrorizzato; e scoprendo la piastrina in sua presenza capirebbe, ma troppo tardi. Chiara l’esigenza della spiegazione finale, ma allo stato attuale è uno «spiegone» – come si dice in questi casi – del tutto gratuito. |
“Ma dove scappi così di corsa Giorgio? Aspettami, vengo con te”. Non feci in tempo a finire la frase che Giorgio era già uscito dall’appartamento sbattendo la porta alle sue spalle. E adesso? Non avevo le chiavi per poter chiudere la porta d’ingresso, quindi andarmene così, senza avvisare Giorgio, era da escludere. Avrei aspettato il suo rientro. “Giorgio, ti sembra questo il modo di piantare in asso un tuo amico?” gli avrei chiesto quando sarebbe tornato. Ah, sì, sì, gliene avrei dette quattro! Ma i minuti passavano e di Giorgio nemmeno l’ombra. Per passare il tempo iniziai a sfogliare il quotidiano appoggiato sul tavolo. Politica, finanza, una donna uccisa dal marito, un furto nell’appartamento di un anziano signore, una truffa ai danni di un imprenditore in campo medico che prometteva vendetta, vittoria per la squadra di calcio cittadina, alcuni strani episodi al cimitero e tombe apparentemente profanate… Dopo un’ora trascorsa a leggere il giornale avevo esaurito notizie e pazienza. Ma come potevo andarmene lasciando la casa incustodita? Dopo aver letto del furto avvenuto ieri, poi! Dovevo aspettare Giorgio e, a questo punto, mi meritavo anche di sapere perché avesse tanta fretta di uscire. Non l’avevo mai visto così. Ed eravamo amici da tanti anni, eh, anche se c’erano stati dei periodi in cui non ci eravamo frequentati perché lui era spesso in viaggio. Ma comunque con me era sempre stato gentile e quindi questa scortesia proprio mi coglieva impreparato. “Ma glielo dirò, eh! Eccome se glielo dirò!” ripetevo vagando per l’appartamento.
Guardai l’orologio: le 18.30. Mia moglie mi aspettava per cena e se fossi arrivato troppo tardi chi l’avrebbe sentita? Proprio stasera, poi, che aveva preparato il mio dolce preferito.
Avrei aspettato solo un’altra mezz’ora e poi, Giorgio o non Giorgio, me ne sarei andato.
Usai il bagno degli ospiti che aveva una finestra aperta sul cortile. Sentii la voce di un uomo che chiedeva “Dove?” e un altro rispondere “Là in alto”. E se fossero stati i ladri di cui parlava il giornale? Meglio tenere le luci accese e fare un po’ di rumore. Sapendo che l’appartamento non era vuoto, non sarebbero entrati, no? Poi una risata seguì la conversazione. Non potevano essere ladri, i ladri non sono così rumorosi. Mi tranquillizzai, uscii dal bagno e spensi la luce. Mentre tornavo in salotto, notai che la camera di Giorgio era sottosopra. La curiosità era fortissima ed entrai. Vestiti, calzini, carte e giornali erano sparsi ovunque, le ante e i cassetti dell’armadio aperti. Chissà che cosa gli aveva messo tanta fretta… Raccolsi una fiala che giaceva rotta e vuota sul pavimento e la gettai nella spazzatura in cucina.
Cercai nuovamente l’orologio con lo sguardo: le 19.00. Era decisamente arrivato il momento di tornare a casa da mia moglie. Mi venne l’acquolina in bocca pensando alla pastiera che mi aspettava a conclusione della cena. A Giorgio gliele avrei cantate in un altro momento!
Mi infilai il cappotto, diedi un’ultima occhiata all’appartamento e mi avvicinai alla porta. Clic. Le luci si spensero. Girai la maniglia. La porta si aprì spinta violentemente dall’esterno e POOM. Il fucile a pompa mi aveva trapassato da parte a parte, lasciando un buco all’altezza dello stomaco. Caddi a terra e non vidi più nulla. Ma sentii. Ancora per poco sentii parlare gli uomini che mi avevano sparato: “E questo sarebbe Giorgio? Quello stronzo che pensava di fottere il signor Cheng? Pensavo ci avrebbe dato più filo da torcere e invece era solo un coglione”, “Dai, non perdiamo tempo, vediamo di trovare quei campioni di materiale genetico e riportiamoli indietro, sono già successi troppi casini e sai che Cheng vuole che… BUIO. Ero morto. Chi l’avrebbe detto a mia moglie che non sarei tornato per cena? E poi mi svegliai sul tavolo freddo di un obitorio con una fame insostenibile.
Ma questa è un’altra storia…
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25 – E ora chi lo dice a mia moglie? – Valutazione: 26 Gaia: Disarmante. Un racconto che scorre apparentemente tranquillo per finire con un colpo di scena davvero spiazzante. Non si può non sorridere, e questo fa onore al racconto. Decisamente spiritosa l’idea della voce narrante che continua a raccontare anche dall’obitorio. Narrazione fluente, forma corretta (salvo un’imprecisione nell’uso dei tempi verbali…). Bene Matteo: Nonostante la forma sia piuttosto buona, mi sembra che il racconto sia poco plausibile. Cosa ci fa il protagonista nell’appartamento di Giorgio? Per quale ragione vi rimane, nonostante il suo presunto amico l’abbia abbandonato in maniera inspiegabile e improvvisa? E’ comprensibile il tentativo di rappresentare in modo divertente un personaggio fuori posto, ma personalmente ho trovato l’intera situazione incongruente e difficile da seguire. Il finale, chiaramente collegato a racconti precedenti, sembra del tutto avulso dal resto della narrazione. Paola: L’idea è interessante e piuttosto ben costruita ma ci sono delle incongruenze: Giorgio non avrebbe potuto avvisare l’amico del pericolo? Come mai lo lascia lì solo? E il protagonista perché aspetta così passivamente e non cerca di contattare Giorgio almeno telefonicamente? Molto efficace invece il titolo che trova il suo contraltare nella conclusione. Avrei evitato il passaggio dell’obitorio che è superfluo. Stilisticamente corretto. Pietro: Molto divertente. L’esperimento di mettere un uomo tranquillo nella storia sbagliata è riuscito quasi alla perfezione. Scrivo «quasi» perché il finale è troppo inaspettato. Se il nostro eroe fosse minimamente più consapevole, sin dall’inizio, della grana in cui è capitato (come un don Abbondio, per intenderci), chi legge si godrebbe molto di più il suo tormento e il finale sembrerebbe meno casuale. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!”
Sbuffai e accelerai il passo. Ci mancava soltanto quella palla al piede di mia sorella. “Betty, torna a casa! Smetti di seguirmi una buona volta!”
Sentii i suoi passi affrettati colpire le pozzanghere alle mie spalle. “Eddai, Giorgio, lo sai com’è fatto papà. Perché ti scaldi tanto? E dove cavolo corri?”
Con la pioggia che mi inzuppava i capelli, attraversai la strada di corsa, sperando che mi lasciasse in pace. “Devo schiarirmi le idee.”
“Mamma non vuole che tu vada alla polizia, lo sai.” La sua voce ansante era sempre più vicina.
Strinsi i pugni tanto da infilarmi le unghie nella carne e continuai a camminare.
Non riuscirai a farmi cambiare idea, Betty. Non questa volta.
“Gio, fermati! Ti ricordi che è successo l’ultima volta che mamma ha parlato con un poliziotto?”
Cammina, non fermarti, non l’ascoltare…
“Te lo ricordo io: l’hanno liquidata per ‘mancanza di segni evidenti di violenza’. Non è servito a niente!”
Un’immagine della palpebra viola di mamma mi invase la mente. Questa volta non le era bastato il doppio strato di trucco per coprirla.
Accelerai il passo.
“Quando papà l’ha saputo, l’ha picchiata senza sosta per una settimana. Vuoi che succeda di nuovo? Eh, Gio? Vuoi questo?”
Mi bloccai di botto sul marciapiede e mi voltai, afferrandola per le spalle.
Le fini rughe di preoccupazione che le increspavano gli occhi la facevano sembrare una trentenne più che un’adolescente. Un altro modo in cui nostro padre l’aveva rovinata, in cui ci aveva rovinati entrambi. “Devi smetterla di chiamarlo papà! Capito?” urlai.
Soltanto quando vidi le lacrime riempirle lo sguardo, mi resi conto che la stavo stringendo troppo forte. Lasciai la presa all’istante.
Indietreggiai, tremante. “Gli ho quasi tirato un pugno in faccia oggi, Betty. Se mamma non mi avesse fermato, questa volta l’avrei fatto davvero. Io…” Non posso diventare come lui… “Lasciami andare. Devo… questa storia deve finire.”
Attraverso il muro di pioggia, vidi la mano di Betty posarsi sul mio braccio. “C’è un altro modo.” Cercò il mio sguardo. “Un modo migliore.”
“E quale, Betty? Mamma non ci sente da quell’orecchio…”
“Le ho parlato io. Possiamo… possiamo scappare.”
“E andare dove?”
“Da zia Daniela.”
Aprii la bocca per dirle che si era bevuta il cervello, ma lei mi precedette. “Lo so cosa stai per dire, ma si è offerta di ospitarci e abita dall’altra parte del mondo, abbastanza lontano perché lui non ci trovi.”
Scossi la testa in automatico. Questa storia deve finire adesso! Feci per voltarmi e riprendere a camminare, ma Betty strinse la presa. “Ti prego, Gio.” La speranza che le lessi negli occhi mi inchiodò sul posto. “Se restiamo qui troverà sempre il modo di farci del male.”
Sapevo che aveva ragione, me lo sentivo in ogni muscolo teso come una corda di violino. “Se facciamo a modo tuo…” l’ammonii, “dobbiamo agire subito.”
Annuì convinta, un sorriso soddisfatto sulle labbra. “Partiamo stasera. Ho già organizzato tutto. Papà ha bevuto così tanto che fra qualche ora collasserà sul divano e le nostre valige sono già pronte sotto il letto – sì, anche la tua – con tre biglietti di sola andata per Sydney.”
Scossi la testa, sorridendo. “Sei sempre la solita… BettyPianiPerfetti.”
Mi sferrò un pugno sulla spalla.
“Ahio.”
“Gne-gne. Andiamo Braccio di Ferro, ti offro una camomilla per calmare i bollenti spiriti.”
Tornammo a casa un paio d’ore dopo, in tempo per vedere nostro padre ammanettato che veniva spinto di forza dentro un’auto della polizia.
Aveva il volto coperto di sangue.
“No, no, no…” La voce di Betty penetrò per un attimo nella fitta nebbia dei miei pensieri. Poi diventò tutto rosso.
Io l’ammazzo! L’ammazzo!
Mi lanciai contro di lui, urlando con tutta la forza che avevo, ma non lo raggiunsi mai. Un paio di mani possenti mi bloccò le braccia dietro la schiena.
Mi divincolai, senza smettere di urlare, finché non sentii le dita fredde di Betty accarezzarmi le guance. “Gio, fermati. Non puoi farti sbattere in galera! Non puoi lasciarmi da sola!”
Sentii la lotta abbandonarmi di colpo. E mentre la abbracciavo stretta sull’erba bagnata del nostro giardino, ringraziai il cielo che la mia sorellina fosse ancora viva, che non ci fosse anche lei, in quella casa. Ringraziai il cielo che, ancora una volta, mi avesse seguito.
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26 – La fine di un incubo – Valutazione: 30 Gaia: Un racconto intenso. Ben scritto, scorrevole, coinvolgente. Il finale, evidentemente, sciocca e colpisce il lettore, ormai fiducioso in un “lieto” fine. Ben descritti i due personaggi e buona la descrizione del loro rapporto, contraddistinto dalla complicità profonda che si crea fra fratelli, soprattutto se uniti nella disgrazia. Un unico appunto: risulta un po’ forzata la tranquillità di Betty quando parla col fratello infuriato invitandolo a non farsi mettere in prigione. Comunque un buon lavoro. Matteo: Racconto che riesce ad affrontare con coraggio un argomento delicato. E’ davvero interessante il fatto che il punto di vista sia spostato interamente sui figli e non sui genitori. Molto bello il personaggio di Betty, che prende l’iniziativa nonostante nessuno se lo aspetti da parte sua. Non mi convince il finale: il racconto era riuscito a spiegare come la violenza possa essere terribile a qualsiasi livello (anche senza arrivare al limite estremo). Il fatto che la madre venga uccisa, a mio parere, appesantisce il messaggio, già molto potente. Avrei preferito uno sviluppo differente. Alcuni passaggi (ad esempio “Sei sempre la solita… BettyPianiPerfetti.”) mi sono sembrati poco riusciti. Un elemento che davvero non mi convince è la frase “Eddai, Giorgio, lo sai com’è fatto papà. Perché ti scaldi tanto? E dove cavolo corri?”: Betty, per come viene caratterizzata in seguito, non direbbe mai una cosa del genere. Potrebbe forse dirlo sua madre, incapace di fuggire da una situazione pericolosa. Paola: Il racconto coinvolge il lettore, grazie anche ad un ritmo narrativo ben costruito. Ci aspetta però il lieto fine: la fuga e la possibilità di ripartire. La fine spiazza e lascia un velo di tristezza. Molto ben descritto il rapporto tra i due fratelli: c’è almeno per loro una speranza di salvezza. Pietro: Il racconto è scritto molto bene. L’unica parte che non mi ha convinto è il finale. Ciò che accade è troppo importante e – in un certo senso – crudele per venire introdotto en passant: si «torna a casa in tempo per» guardare la partita o sedersi a tavola, non per assistere a una tragedia. Gettare via un capitale narrativo così prezioso interrompe bruscamente il ritmo e l’andamento emotivo della narrazione, compromettendo anche le righe successive. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te.”
“Giorgio, diamine, non ce la faccio più… fer.. ferma…ti!!”
Madida di sudore e senza fiato nonostante il trascorso di sportiva -ormai blando ricordo sepolto dalle vicissitudini dei suoi 52 anni- Susi cercò invano di raggiungere il fratello, ormai sparito tra le vie del quartiere. Il telefono squillava a vuoto seguiti dai messaggi che cadevano a loro volta nel vuoto.
Non trovandolo a casa, fece l’ultima cosa che voleva fare: chiamare Alessia. Alessia fece quello che voleva fare: non rispondere.
I rapporti tra loro due erano ormai scemati in semplici convenevoli; la separazione di Giorgio ed Alessia, affievolì e di molto, la sincera amicizia che si instaurò tra le due, nonostante i quasi 10 anni che le separassero.
Giorgio trovò ospitalità dalla sorella, maggiore di 4 anni, con la quale aveva sempre avuto un buon rapporto. Erano ormai quasi due anni che vivevano insieme e a lei pareva che fosse riuscito a superare il trauma, che le vacanze ai Caraibi pagate ai terapisti, avessero dato gli strumenti a Giorgio per voltare pagina, accettare la vita per quel che dona, anche se a volte doni non appaiono.
Questa serenità d’animo non le fece nemmeno sorgere il dubbio, che parlare della foto di Alessia vista su Facebook in un rifugio di montagna ricoperto di neve, insieme a Matteo, potesse rivelarsi innesto per un fuoco di gelosia, imprevisto ed improvviso.
Erano ormai passate quasi 4 ore senza aver notizie di Giorgio.
E’ strano come l’essere umano tenda a ipotizzare sempre le peggiori sciagure, non appena le cose sfuggano dal “controllo”. Quel che non si può governare, ci angoscia, ci fa palpitare. Cuore in gola e mani sudate ne sono la manifestazione fisica, seguiti da respiri in crescendo, a divenir veri e propri sospiri.
Susi non era da meno. Giorgio nelle quattro ore è stato investito, si è impiccato, ha ucciso l’ex moglie e il suo amico, diventerà alcolista, drogato, misogino, brandirà mazze e coltelli, si butterà sotto un treno.
Giorgio aveva preso all’altezza della Cà Grande, la Martesana, ed aveva iniziato il suo pellegrinaggio tra vent’anni di trascorsi insieme ad Alessia.
Tutti quegli anni ripercorsi più volte durante il suo incedere veloce lungo la ciclabile, cozzavano costantemente in quell’episodio di 4 anni prima, quando nel portare l’auto della moglie a cambiare le gomme per la stagione invernale, trovò negli “indirizzi recenti” del navigatore, l’indirizzo della casa di Matteo, suo amico dai tempi del liceo e diventato amico comune col fidanzarsi con Alessia. Fatto che allora le sembrò strano e che archiviò, ricordando che -in verità molte settimane addietro- erano andati a trovarlo usando l’auto di lei. Ricordò che le sembrò già allora comodo consolarsi e concedere assoluzione, piuttosto che alimentare un dubbio che lo avrebbe divorato.
La Martesana è uno dei navigli che collega Milano con il fiume Adda. via strategica per il commercio dei secoli scorsi. E’ lungo 38,7 km.
Lungo il percorso ci sono delle conche, punto di raccolta di canali di irrigazione secondari.
La conca della Concesa è una conca idraulica alimentata con la tecnica del sifone.
Giorgio arrivò a quel punto che erano ormai le 19.30.
Si sporse a guardare l’acqua che impetuosa formava cicloni simili a Gorgoni, spruzzi e vapori irroravano la zona. Ne fu attratto al punto di salire sul muro formato da blocchi di granito, incasellati perpendicolarmente, stabili per la sola forza di gravità e la loro massa.
La vista annebbiata, la testa pesante… è bastato inclinare il capo in avanti, per cadere mollemente tra le Gorgoni e trovar pace al tormento.
Quell’essere umano, Susi, non si sbagliava.
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27 – Gorgoni – Valutazione: 18 Gaia: Il filo degli eventi è un po’ intricato: il tutto inizia con la sorella che insegue Giorgio per le vie della città e poi…non lo trova a casa… Interessante la scelta di raccontare la crisi di Giorgio dal punto di vista della sorella, vera protagonista del racconto. Il suicidio è un buon colpo di scena, considerato che il lettore era stato indotto a pensare che il finale catastrofico fosse solo nella mente esageratamente pessimista della sorella. La forma, purtroppo, presenta diversi errori a livello sintattico e numerose ripetizioni. La punteggiatura è da rivedere. Matteo: E’ davvero complicato seguire il filo degli eventi. Diversi piani temporali risultano sovrapposti e difficilmente districabili. L’idea è interessante, ma la struttura ideata e alcuni errori a livello formale ne hanno minato la realizzazione. Paola: L’idea del racconto è buona e interessante ed efficace è l’impiego di un narratore esterno che accompagna il fratelli nel loro peregrinare disperato, l’uno il presa al dramma, l’altra all’angoscia. Tuttavia il continuo cambio di tempi verbali e un uso non del tutto appropriato della punteggiatura non rendono fluida la lettura e penalizzano il testo. Pietro: La voce beffarda e quasi documentaristica del narratore funziona, perché restituisce una visione dell’umanità preda delle sue paure più grandi. Purtroppo la prosa non è sempre scorrevole, tra incertezze nell’uso dei tempi verbali, espressioni di difficile comprensione e virgole tra soggetto e verbo. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te”
Queste furono le ultime parole che gli rivolsi.
Giorgio. Un amico, un rispettabile cittadino, una persona incredibilmente generosa col prossimo.
Eppure, negli ultimi tempi, era molto strano. La persona solare e attiva che ero abituato a vedere, aveva lasciato spazio ad un uomo silenzioso e solitario.
Non ero certo il solo ad aver notato cambiamento, infatti l’ intera cittadina si interrogava su quale potesse essere la causa di quel declino.
Conoscevo Giorgio dal liceo e, nonostante ci fossero stati momenti duri, non si era mai perso d’animo, ne abbattuto. Aveva sempre avuto la forza di reagire ad ogni avversità a testa alta.
Così, dopo alcune settimane, trovai il coraggio di domandargli quale male lo affliggesse, senza tuttavia ottenere alcuna risposta, se non un “Non è nulla”
I mesi passavano, ma Giorgio ancora non mutava, anzi era sempre più abbattuto.
Tentai di chiedere a sua moglie, ma anche lei sembrava non avere alcuna idea di cosa fosse successo e, come tutti, era totalmente inerme davanti al quella drammatica trasformazione.
Ormai ci avevo perso il sonno, continuavo a pensare ad ogni possibile causa, ma scartai un’ ipotesi dopo l’ altra.
Il lavoro di Giorgio precedeva bene, la moglie pure stava bene, il figlio, il piccolo Luca, era il solito bimbo sorridente e giocherellone di sempre. Ma allora cosa? Forse qualche parente con problemi di salute? No, ne avrebbe parlato. Cosa era successo a Giorgio?
Era trascorso quasi un anno e Giorgio era ridotto all’ ombra di se stesso.
La situazione del mio amico era talmente disperata che ultimamente non usciva più di casa, nemmeno per recarsi al suo negozio.
Non accettava più inviti ad uscire ed evitava ogni contatto co chiunque. Persino la moglie aveva perso la speranza con Giorgio, visti i suoi continui rifiuti di parlare e di accettare l’ aiuto di familiari e amici.
Malgrado tutto, non volevo arrendermi ancora.
Fu un ultimo disperato tentativo: un invito a prendere un caffè al suo bar preferito.
Nessuna risposta.
Stavo gettando la spugna, quando dopo due giorni, Giorgio rispose. Accettava il mio invito.
Sorpreso ed euforico per quello spiraglio di luce, gli diedi subito appuntamento al bar.
Arrivato al locale, lo vidi seduto al tavolino esterno. Da lontano non si notava, ma avvicinandomi notai quanto fosse pallido ed emaciato.
Non feci in tempo a dire nulla che Giorgio iniziò a farfugliare qualcosa di incomprensibile, per poi scoppiare a piangere.
Non sapevo che fare, quel suo comportamento prese in contropiede il mio entusiasmo iniziale, lasciandomi interdetto e spiazzato.
Di colpo si alzò e mi disse “Scusami, Antonio. Devo andare”
Non feci in tempo a realizzare, che già stava correndo di gran fretta.
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te” urlai, tentando di inseguirlo.
Ma fu tutto inutile.
Il giorno dopo tutti noi capimmo infine cosa fosse accaduto.
Io lo appresi dal quotidiano locale.
Giorgio era stato arrestato per l’ omicidio del nostro parroco, a sua volta colpevole di abusi su bambini del catechismo.
Non potevo crederci, ma, più leggevo, più riunivo i tasselli di quel mistero.
Alcune vittime del parroco si erano confidate col piccolo Luca che, non capendo bene la situazione, aveva riferito al padre quei racconti. Giorgio era ateo e perciò Luca non aveva mai frequentato la parrocchia, salvandosi da quell’ inferno.
Il parroco gestiva ogni tipo di volontariato e i fondi per la beneficenza era tutti nelle sue mani, pertanto Giorgio esitò nel denunciarlo, decidendo poi di restarne estraneo. Ma questo suo silenzio, lo logorò sempre più, soprattutto visto che gli abusi proseguirono costantemente.
Alla fine, distrutto dalla vergogna e dai sensi di colpa, Giorgio aveva deciso di agire ed uccise il parroco, nel tentativo di rimediare al suo errore e alla sua vigliaccheria.
Il sangue mi si gelò in corpo e un brivido mi pervase.
Ora avevo capito.
Il giorno precedente si era scusato con me perché mio figlio ha sempre frequentato il catechismo.
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28 – L’ AMICO – Valutazione: 16 Gaia: Una storia poco credibile, con un impianto narrativo che non aiuta. Il peso della descrizione del progressivo malessere di Giorgio è eccessivo, occupando buona parte del testo. La conclusione/spiegazione, di contro, è sbrigativa e poco coerente, oltre a non essere stata preparata da alcun indizio che avrebbe potuto stimolare la curiosità e il coinvolgimento del lettore. C’è un forte squilibrio fra le due parti che sembrano quasi disgiunte; il testo risulta così poco fluente e privo di armonia. La forma, anche se non particolarmente ricca, è corretta. Matteo: Il racconto costituisce in effetti un lungo preambolo, non molto coinvolgente, alla storia vera e propria. Questa a sua volta non riesce a essere molto credibile, almeno per come è strutturata. A mio parere il punto di vista esterno (quello di un amico) non funziona: la narrazione dovrebbe avvenire dal punto di vista di Giorgio. In questo modo il lettore riuscirebbe a capirne i dubbi, le ansie e le motivazioni. Nella parte finale la consecutio temporum è errata. Paola: La storia presenta alcune incongruenze tra cui la principale è l’epilogo: come può il protagonista non essere intervenuto per fermare una simile tragedia solo per il timore di far naufragare i conti della parrocchia per poi arrivare ad uccidere il parroco stesso? Non sarebbe stato molto più facile ricorrere alla polizia? E poi, di una cosa così grave, almeno alla moglie avrebbe potuto parlarne… Sul piano stilistico va posta attenzione all’uso della punteggiatura. Pietro: La storia è tutta negli ultimi paragrafi, col risultato che il lettore è disorientato. Per buona parte del testo non capiamo perché Antonio sia ossessionato da Giorgio a tal punto da perderci il sonno, né abbiamo il minimo indizio sul malessere di Giorgio. Allo stesso modo, le informazioni del finale le apprendiamo senza averle mai desiderate, dunque non come rivelazioni ma come semplici dati di fatto. Mai avremmo potuto immaginare tutto l’affaire del catechismo, che Antonio avesse un figlio, o che Giorgio si fosse scusato con lui. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami vengo con te”
“sto andando al bosco Luca, farò tardi e non è il caso che tu venga”
“al bosco a far cosa?”
“Luca non ho tempo per spiegarti, non capiresti nemmeno”
“dai vengo con te”
“ti ho detto che non è il caso”
“ma perché? Puoi almeno spiegarmi? E poi quest’auto dove l’hai presa?”
“Va bene se proprio vuoi venire sali, fa presto ma non dire ce non ti avevo avvisato”
“avvisato di cosa? Giorgio mi spieghi che succede?”
“Senti non fare più domande, o sali o vado via”
“va bene andiamo!”
Così iniziò tutto, nel tragitto cercavo di capire cosa stesse succedendo ma Giorgio non proferiva parola,
aveva lo stereo a tutto volume e correva come un pazzo.
Arrivati al bosco mi chiese di scendere, avvertivo dei rumori provenire dal cofano:
“Giorgio cosa sono questi rumori?”
Senza darmi risposta scese dall’auto ed iniziò ad accumulare legna e foglie secche che erano sparse nel bosco, prese una tanica dal lato posteriore dell’auto e riversò della benzina sul fogliame e con un fiammifero appiccò il fuoco.
“Ora puoi aprire il cofano” mi disse,
“Giorgio mi spieghi cosa stai combinando?”
“Apri il cofano” ripeteva.
Aprii il cofano e al suo interno c’era una donna imbavagliata e legata mani e piedi, ero stupefatto!
Neanche il tempo di chiedergli chi era e cosa ci facesse lì che mi puntò una pistola alla nuca intimandomi di gettarla nel fuoco.
“Giorgio metti giù quell’arma!”
“Fa ciò che ti ho detto! O tu o lei”.
“Vostro onore non avevo altra scelta, cosa avrei dovuto fare?”
“Veda signor Carloni Luca, il problema è che dai rilievi effettuati sul luogo del delitto non emergono tracce che lascino supporre la presenza di una terza persona piuttosto i rilievi medesimi evidenziano che lei era al volante di un’auto non di sua proprietà e sulla tanica e sulla pistola, rinvenuti sul posto, ci sono solo le sue impronte digitali.”
“Vostro onore Giorgio indossava dei guanti aveva premeditato tutto nei minimi dettagli”
“va bene signor Carloni supponendo che Giorgio avesse dei guanti, come spiega che la vittima, che lei afferma di non conoscere, risulta essere vostra moglie?”
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29 – Il fantasma – Valutazione: 16 Gaia: Tutto un po’ insensato: la vicenda non è chiarissima. Forse Giorgio è “il fantasma” del titolo, e Luca ha veramente ucciso la moglie… ma la conclusione avrebbe dovuto chiarire meglio… Giorgio è una proiezione del disagio psicologico (patologico) di Luca? O Luca è “semplicemente” un assassino che cerca di inventare una scusa (decisamente poco convincente) per evitare la condanna…?? Qualche errore nella forma (il “Veda, signor Carloni Luca”, oltre che avere un tempo verbale scorretto, è anche decisamente poco elegante!). Matteo: Fin dall’inizio la storia risulta poco credibile. Procedendo con la lettura tutto diventa sempre più nebuloso e il finale non aiuta a chiarirci le idee. Credo in ogni caso che l’idea iniziale sia piuttosto interessante. Varrebbe la pena rendere più chiari i vari passaggi. Dovrebbe essere evidente fin da subito che il protagonista stia cercando di convincere un giudice (e con lui il lettore) della sua innocenza. Il finale può anche rimanere aperto (non è obbligatorio che riguardo all’identità dell’assassino la certezza sia assoluta), ma il lettore deve avere degli elementi che quantomeno lo facciano propendere in una direzione piuttosto che in un’altra. Paola: Il racconto non sta in piedi. La storia non convince. E il salto tra il delitto e la deposizione è troppo netto. Anche sul piano stilistico ci sono alcune imprecisioni. Pietro: Trovo che il racconto abbia un problema di fondo: perché, se il giudice non si beve la storia di Luca, noi dovremmo farlo? |
Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te, non me la sento di lasciarti solo proprio stasera – disse Laura cercando di tenere il passo.
– Lasciami stare Laura, stasera proprio no – rispose Giorgio chiudendole la porta in faccia.
-Quella pazza scatenata, non avrei dovuto insegnarle a sparare, prestarle il mio fucile poi… La sua apparenza mi ha ingannato e lo schernire e immaginare l’impossibile aveva addomesticato ogni istinto di difesa. Lo aveva detto mille volte che avrebbe desiderato vederlo morto e che sarebbe stata l’unica via di fuga da quella vita infernale, ma non pensavo potesse arrivare a questo. Ora la polizia troverà le mie impronte, scopriranno il fucile e che essendo il suo amante, ho avuto più di un motivo per ucciderlo mentre lei diventerà proprietaria dei suoi beni e finalmente potrà godere della vita che aveva sempre desiderato fare.
Un piano premeditato come solo Viola saprebbe fare.
– Sig. Giorgio Ostili – disse dopo qualche secondo al telefono una voce maschile, si deve presentare in caserma. Quella frase l’avevo sentita migliaia di volte alla tv e ora appariva quasi ridicola anche se di divertente non c’era quasi nulla. Un interrogatorio di circa un’ora cercando di chiarire il mio inesistente interesse nella scomparsa del dott. Restili. Mi tennero in caserma a lungo, per molti giorni in attesa delle varie perizie.
– Ho capito, ho capito, un capello trovato lì intorno al fucile – rispose al telefono il maresciallo Rossi guardandomi negli occhi proprio nel giorno in cui mi aveva concesso qualche momento di pausa.
Uscirono dalla caserma rientrando poi qualche ora dopo.
Il giorno seguente, da lontano, intravidi la figura di Viola che attraversava la lunga parete grigia. Era sempre più bella e malgrado quello che era successo non riuscivo completamente a odiarla. Era vissuta accanto a lui per anni, maltrattata, umiliata picchiata davanti ai figli e ora, sopravvissuta al Covid, si era sentita in diritto di vivere finalmente la sua vita. Aveva tentato per anni di liberarsene ma ogni volta che lei andava a vivere da qualche altra parte, lui si appostava, la inseguiva e le rendeva una vita di terrore. Si era così lasciata andare negli anni a tal punto da desiderare solo la sua morte.
La lunga malattia chiusa in casa con i figli positivi e il lungo lockdown dei tre mesi precedenti avevano reso ancora più fragili i suoi nervi restando comunque una donna lucida e priva di scrupoli.
In quella vita le sembrava di morire e non mi stupisco se abbia preferito liberarsi di colui che ormai decideva se e come lei dovesse essere felice.
– dott. Ostili, ci sono nuove tracce nelle indagini. E’ stato trovato un capello sul fucile appartenente alla signora Restili. Probabilmente verrà scarcerato e lei accusata di omicidio colposo – .
Una mamma di due bambini, che fine avrebbero fatto? Pensai io toccandomi la testa. Dopo qualche secondo arrivò Viola che mi abbracciò piangendo.
– Perdonami, non ho più la forza di vivere, non ce la facevo più ma l’unica cosa che mi dispiace è averti incolpato – mi disse Viola cercando di non farsi colare il trucco.
In quel momento non sapevo cosa fare, ma la testa mi disse di aiutare quella donna che ormai amavo e per la quale avrei fatto qualsiasi cosa.
– Maresciallo, il capello biondo pur appartenendo alla signora Ostili, non ha nulla a che vedere con l’omicidio. Io e la signora, prima di quel momento, eravamo stati insieme nel pomeriggio a caccia di topi che mangiano il raccolto della mia tenuta, e probabilmente, stando vicino a me, può essere rimasto nel fucile.
Il maresciallo, avvicinandosi a me, cercò di guardarmi negli occhi dicendomi – E’ una follia lo sa? Però le voglio credere –
Il maresciallo uscì dalla stanza fumando la sua solita pipa e senza battere ciglio accompagnò Viola fuori dalla porta. La mia situazione di ricco proprietario terriero e la mia buona condotta avrebbero fatto in modo che quella prigionia sarebbe durata molto meno di quello che lei avrebbe potuto avere.
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30 – GIOVEDI 17 – Valutazione: 16 Gaia: Una storia un po’ “facile”, piuttosto banale e con una conclusione poco verosimile. I fatti sono narrati in modo piatto, senza creare interesse nel lettore. Non ci sono emozioni, i personaggi sono privi di spessore. Il tutto sembra un resoconto, una sorta di verbale … Alcuni errori nella forma (soprattutto farei attenzione all’uso corretto del gerundio!) Matteo: La trama di questo racconto sarebbe più adatta a un romanzo. Nel breve spazio a disposizione le scene tendono a sovrapporsi e le motivazioni dei personaggi non sembrano affatto realistiche e congruenti. Entrambi i personaggi principali attraversano una serie infinita di cambiamenti, che sarebbe più adatta a un testo molto più lungo. A livello formale ci sono inoltre parecchie imprecisioni. Paola: Il gesto finale del protagonista, che si sacrifica per Viola e per il bene dei suoi figli, non trova purtroppo adeguato contraltare nel resto del racconto. La descrizione dei personaggi e delle vicende è piuttosto fredda e poco coinvolgente. Peccato perché l’idea era interessante ma avrebbe richiesto un crescendo di costruzione introspettiva dei personaggi perché il lettore arrivasse pronto alla conclusione. Pietro: La storia è ben concepita e ha un grande potenziale nella miscela di odio e amore di Giorgio nei confronti di Viola. Purtroppo, però, non è raccontata adeguatamente a causa di scene e personaggi di troppo (la prima scena, con la figura di Laura), errori di concordanza dei tempi verbali, informazioni date frettolosamente («Quella pazza scatenata…») e la frequente assenza di coordinate spazio-temporali. |
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te” No! Voglio stare solo” Mi risponde urlano!, mi siedo sul divano ad aspettarlo. Avevo conosciuto Giorgio sul luogo di lavoro, mi aveva invitato ad uscire, tutto era stato perfetto, aveva scelto per me le migliori portate e preso il vino più costoso, aveva sempre un modo gentile di dire le cose e mi amava, lo ripeteva continuamente. Decido per il nostro primo anniversario di comprare la sua torta preferita, quella di mele, entro nel negozio e Mentre aspetto il mio turno noto un ragazzo dietro al bancone, imbarazzata abbasso gli occhi, cerco di non guardarlo; “mi dica” mi distrae la voce del pasticcere, “vorrei una torta di mele”; preso L’ordine esco e vado via portando con me lo sguardo di quello sconosciuto. Tornata a casa Giorgio mi attendeva con una rosa sul porticato, “ti amo“ mi dice. Devo essere Franca, mi ero stufata di tutto quello zucchero, era diventata una vita piatta e monotona dove c’erano i giorni prestabiliti per fare L’amore. Avevo bisogno di altro ma non avevo il coraggio di lasciarlo per non ferire il cuore di un anima così buona. Decido di andare a fare una passeggiata, mi trovo davanti alla vetrina del pasticcere, decido di entrare. Quando i nostri occhi si incontrano qualcosa accade, mi stringe la mano per presentarsi “piacere Stefano”; mi sento prendere fuoco da ogni parte, quella stretta e quel profumo inebriavano la mia mente. “Piacere Sabrina”. Tra una chiacchiera e l’altra in cui ognuno si racconta all’altro totalmente, mi capiva come se avesse sempre fatto parte dei miei sogni. La sera tornata da Giorgio il mio pensiero andava fisso a Stefano, seduti al tavolo in silenzio lui mi guardava con le mani strette sotto le guance, “ti amo” dice, che palle penso tra me e me e mi sento in colpa. Non facevo altro che pensare alla bocca di Stefano che mi sfiorava, quando provavo a distogliere il pensiero tornava a tormentarmi, sentivo le sue mani addosso anche se non mi aveva neppure sfiorato Mi vergognavo di questi pensieri ma non riuscivo ad evitarli. Il giorno dopo avevo voglia di vederlo, entro nel negozio accolta da un bellissimo sorriso, grandi occhi neri e capelli ricci mi facevano arrossire. “Vieni a vedere cosa sto preparando in cucina” mi dice facendomi cenno con la mano, mi sono avvicinata al forno facendomi riflettere in viso la luce che sprigionava, Stefano era dietro di me, il cuore mi batteva forte, sentivo la sensazione della notte precedente che si insinuava e prendeva possesso; mi giro e ad un millimetro dal viso avevo lui, il suo respiro mi faceva muovere i capelli, lo guardavo negli occhi, sempre più vicino, finché i nostri nasi si sono toccati, la sua mano mi ha toccato la schiena e un brivido ha percorso ogni parte del mio corpo, molto lentamente la sua bocca si posa sulla mia, sento il corpo scaldarsi, schiacciata contro un muro sento tutto il desiderio represso che avevo accantonato per anni, le mie mani tra i suoi capelli andavano alla ricerca dell’adrenalina, mi faceva sentire desiderata, le sue mani accarezzavano il mio corpo senza sosta, i nostri occhi si guardavano e le nostre bocche si cercavano freneticamente, sentivo sempre più un esplosione di emozioni, ancora e ancora, con le mani attaccate al bancone cercavo di tenermi in piedi ma quelle emozioni erano forti a dal punto da farmi barcollare, “ancora” sussurravo, non volevo che smettesse, non volevo che quella sensazione di libertà finisse, non volevo tornare ad essere una moglie repressa, il brivido, volevo la passione, volevo sentire ciò che stavo sentendo peccato che.. “Sabrina svegliati”, mi stropiccio gli occhi sconvolta , non potevo credere che fosse stato tutto un sogno, Giorgio mi guarda con gli occhi sbarrati, “sei arrabbiata perché sono andato via cosi?”, come potevo dirgli che un sogno mi aveva aperto gli occhi su una vita intera? sono rientrata in quella maledetta pasticceria e con l’amaro in bocca avevo cercato uno Stefano che non avrei trovato. Eppure avrei giurato che fosse tutto vero. Avrei lasciato Giorgio per quanto nella vita si possa avere tutto a volte non basta, dobbiamo sentirci vivi, passionali, desiderati nel modo più ardente del termine; bisogna fare l’amore con foga, Bisogna farsi togliere l’aria, bisogna abbandonarsi ai brividi. VIVERE
Valutazioni Giuria
31 – Il desiderio – Valutazione: 15 Gaia: Un testo mal scritto con un contenuto povero e non proprio solido. La moglie che va in confusione per un solo accenno di uno sconosciuto (peraltro solo sognoto!) non sembra proprio una persona che vive seriamente il proprio rapporto coniugale e i rapporti in genere; la estrema fragilità della stessa non trova spiegazioni, visto che nulla ci è dato di sapere su una ipotizzabile crisi (dato che il marito, di contro, si mostra innamorato). Non c’è un rapporto in crisi, c’è una donna incapace di stare in rapporto… Le righe finali (che tentano di dare un senso all’agire della donna) risultano posticce e fastidiose. Diversi errori nella forma. Matteo: La narrazione risulta piuttosto confusionaria. Ho fatto molta fatica a non perdere la bussola tra i vari passaggi che di volta in volta riguardano Giorgio o Stefano. Lo svelamento finale del fatto che si tratta di un sogno non riesce a nascondere una struttura piuttosto debole. Non riesco a capire il senso dell’incipit (perchè Giorgio se ne va arrabbiato e lei rimane sul divano ad aspettarlo?); mi sembra inoltre che le motivazioni della protagonista siano piuttosto inconsistenti. Anche a livello formale ci sono molte imprecisioni. Paola: Non è chiara la connessione tra l’incipit e la continuazione del racconto. Perchè Giorgio esce e non vuole essere seguito e poi lo ritroviamo sorridente che accoglie la protagonista con un “Ti amo” poche righe dopo? Anche la conclusione sembra giustapposta e forzata. Più efficace invece, sul piano narrativo, la parentesi sul sogno che rimane tuttavia un elemento isolato dal resto della narrazione. Pietro: Questo modo di raccontare «tutto d’un fiato», con molte virgole e nessun “a capo”, può diventare uno stile interessante, ma non essere usato indiscriminatamente. Come una corsa veloce, è troppo faticoso perché il lettore riesca a sostenerlo per lunghi tratti. A mio avviso è perfetto per descrivere il mondo del sogno (cioè quello dei desideri repressi); non certo per la realtà, la quale, infatti, risulta troppo sfumata: vorremmo conoscere i motivi dell’infelicità della coppia e quelli del litigio che apre il racconto. Le ultime righe di «morale della favola» sono da evitare. Si suppone che il testo comunichi queste verità (tra le altre cose) senza il bisogno di esplicitarle. |
1 – Fuga per l’immortalità
2 – CENERE
3 – LA SFIDA
4 – DIVERTISSEMENT N° 1
5 – Truffatore dimenticato
6 – GOCCIA IN ME (ANAGRAMMA DI SÉ)
7 – Un prestito incauto
8 – Leggere tra le righe
9 – I baci
10 – Il signor Gustavo
11 – Una fuga regale
12 – LA CORSA DI GIORGIO
13 – Il fiocco di Azzurra
14 – Il vestito a fiori
15 – Una fuga
16 – Punto di rottura
17 – La notte di S. Lorenzo
18 – Non è una commedia italiana
19 – 5KM
20 – La scomparsa di Giorgio
21 – In amore vince chi scappa
22 – HO SCELTO ME
23 – Giorgio, il cagnolino e lo gnomo
24 – Il sapone
25 – E ora chi lo dice a mia moglie?
26 – La fine di un incubo
27 – Gorgoni
28 – L’ AMICO
29 – Il fantasma
30 – GIOVEDI 17
31 – Il desiderio
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