Tutta colpa della pastiera.
Tutta colpa della pastiera, quella mattina fu tutta colpa sua. Quella mattina non riuscivo a svegliarmi, le urla strazianti della sveglia mostravano tutta la sua disperazione, mentre cercava di non farmi perdere l’appuntamento col mio Prof di Tecnologie di chimica applicata, nonché relatore della mia tesi.
Esco di casa con ancora il cuscino sugli occhi. Arrivo in facoltà, entro nella stanza del Prof. Davide Zuccatelli, il quale mi guarda con aria stranita e mi chiede: <<Liang ma a che ora dovevi venire>>?
Davide aveva sempre mostrato un certo riguardo nei miei confronti:<< Vabbè, vabbè. Sai che facciamo? Andiamo al bar a prenderci un bel caffè>>.
Andammo al Piccolo Caffè di Maria Catania, finalmente stringevo tra le dita una tazza di caffè: <<Grazie Professore>>.
Ma il prof. Zuccatelli non era dello stesso avviso: <<Liang, è tutta qui la tua colazione? Il cervello va nutrito bene, soprattutto la mattina. Fidati di me, prenditi una spremuta e qualcosa di dolce, poi andiamo a sederci fuori al sole e ci prendiamo mezz’ora per noi, tranquillo>>.
Al solo ascoltare le sue parole avevo già puntato una fetta di pastiera che mi sorrideva al di là della vetrinetta. <<Vi porto tutto, andate pure a sedervi fuori>>, disse la ragazza del bar.
Seduto al tavolino con il relatore della mia tesi a chiacchierare come due vecchi amici, ricorderò sempre con affetto quel professore italiano. Arriva al signorina del bar, porta solo le due spremute, la fetta di pastiera era rimasta rinchiusa nella vetrinetta, sedotta e abbandonata.
Allora mi alzai dal tavolo per rapirla prima che qualcuno me la porti via. Sbadatamente con il lembo della mia giacca trascino il cappuccio del tavolo affianco, rovesciandolo sulla gonna di una ragazza. Diventai blu dalla vergogna, cercai di scusarmi senza avere il coraggio di guardare negli occhi quella ragazza, che con fare tipico delle zone meridionali italiane mi rimproverava in una lingua a me sconosciuta. Gli italiani hanno tantissime particolarità, tra le quali quella di parlare il proprio dialetto quando si arrabbiano. Io ero nel pallone, guardavo Davide, non capivo quello che mi diceva, finalmente Davide intervenne: <<Signorina lo scusi, oggi è un po’ distratto>>.
La ragazza era napoletana come Davide e iniziò difronte a me una sceneggiata teatrale degna di quei teatri di Time Square in cui mi portava mia madre da piccolo.
Ammiravo i gesti della ragazza volteggiare nell’aria, ne ero intimorito ma nello stesso tempo affascinato.
I due finirono di discutere iniziando a ridere e scherzare come vecchi amici, io ormai brancolavo nel buio in cerca di un lumino che potesse farmi capire cosa diavolo stava accadendo tra Davide e quella ragazza. Quella ragazza che non avrebbe mai immaginato che saremmo diventati marito e moglie. Finalmente i due protagonisti tornarono a parlare italiano e io, con gli occhi a cuoricino, mi presentai: <<Mi chiamo Liang e tu>>?
In quell’istante lo sguardo della ragazza mi sorrise: <<Mi chiamo Sabrina>>.
Sabrina però dovette andare via e Davide mi racconta cosa diavolo si fossero detti in napoletano stretto: <<Liang, quella ragazza era già molto tesa di suo, perché tra un po ha un’esame che già ha ripetuto due volte senza riuscire a passarlo e il cappuccino che le hai versato addosso l’aveva stressata ancora di più. Le ho detto che quel cappuccino sulla sua gonna le porterà fortuna. Poi abbiamo fatto una scommessa…>>
Quella favolosa italianità travolse Liang: <<Che scommessa>>?
<<Abbiamo scommesso che se passerà l’esame con trenta, andrete a mangiare una pizza insieme. Però adesso aspetta un attimo devo chiamare subito Settembrini…>>
Liang non capisce più nulla e non può fare altro che domandare:<<E chi è Settembrini >>?
Davide col sorriso in fronte:<< Settembrini è il Prof. con cui tra poco sosterrà l’esame e lui si da il caso che mi deve un favore>>.
La sera dopo mi ritrovai a Napoli con Sabrina mano nella mano. Andammo a mangiare una pizza da Di Matteo che fu il testimone della nascita il nostro grande amore.
Tutta colpa della pastiera…Eh si, facile raccontarsela! Chi é nato con le ossa grosse, chi soffre di diecimila malattie ereditarie diverse, come fosse l’unico al mondo; chi ancora preferisce autoconvincersi di essere semplicemente sfortunato, perché nato troppo basso, troppo di qua, troppo di là. E lei lo sapeva bene, quante ne aveva sentite nell’arco dei momenti trascorsi a frequentare l’ambiente della palestra! Risulta sempre più comodo piangersi addosso ed inventarsi diecimila scuse, piuttosto che armarsi di sana pazienza, tenacia e sacrificio. Per non parlare di quella simpatica categoria di persone che in balia di frustrazione personale punta il dito contro quella fetta di individui che in effetti rispecchierebbe il fine tanto ambito, screditandolo nel tentativo di appagare così la propria insoddisfazione. C’é da dire che si tratta di un discorso ben complesso, che meriterebbe svariate parentesi ed approfondimenti su vari fronti. L’autoaccettazione é un concetto piuttosto delicato, ma la sostanza rimane sempre una sola: se si vuole ottenere qualcosa, bisogna agire ed andarselo a prendere! Non esistono formule magiche, non esistono scorciatoie, tantomeno se si rientra in quel gruppo di individui citati sopra che, afflitti da un qualsivoglia scompenso metabolico o patologia congenita, si ritrova svantaggiato ed a dover far fronte ad una fatica ancora maggiore rispetto agli altri. E lei sapeva molto bene anche questo, rientrando appieno nella categoria di “sfortunati”. Eppure ciò non le aveva impedito di rivoluzionare la propria vita, partendo per quel viaggio che l’avrebbe aiutata pian piano a migliorarsi ed approciarsi ad uno stile di vita diverso rispetto a quello che negli anni precedenti, presa anche da vari dispiaceri emotivi, era stato un suo rifugio ma al tempo stesso anche una gabbia buia, che non le permetteva neanche di guardarsi allo specchio senza provare un senso di totale disgusto. La strada era ancora molto lunga, ma se prima la guardava dal fondo di una pozzanghera fangosa, adesso per lo meno si trovava lungo il cammino; talvolta inciampava in qualche antipatico rampicante selvatico che le piombava inaspettatamente davanti, altre volte si feriva con i rovi che sbucavano da ogni dove, ma che soddisfazione era poi, si diceva lei,poter mangiare quelle fantastiche more dolci e succose al fiorire della stagione? Quale sensazione più bella, se non quella di raccogliere i frutti dell’estenuante lavoro, sudato e raggiunto con tanta risolutezza?
Ma per lei tutto questo era molto di più; non si trattava, in effetti, di un obiettivo puramente estetico e fine a se stesso. Il percorso che stava compiendo partiva dall’esterno, fino a raggiungere i meandri più nascosti del suo essere, passo dopo passo, conquista dopo conquista, caduta dopo caduta. Si trattava di un processo di rinascita e guarigione, di abbattimento dei proprio abiti malsani in favore di una visione più fresca e positiva, che portava un eco di speranza per un futuro quantomeno più colorato rispetto ai fiumi di inchiostro nero che, per un motivo o per un altro, le avevano da sempre macchiato i vestiti.
Come si ripeteva sempre, e come amava ribadire a chiunque le facesse un appunto rispetto al suo nuovo stile di vita, non lo faceva per piacere agli altri, bensì per arrivare ad apprezzare se stessa, cosa che purtroppo non aveva mai fatto abbastanza.
E si, la strada era davvero ancora lunga, ma come detto pocanzi, per lo meno ora il tepore del sole cominciava a sfiorarle la pelle e a farle capire quanto fosse bella quella sensazione di calore che da sempre ricercava e a cui forse, al contrario di quanto si era ormai convinta, non era poi del tutto impossibile ambire.
Non era per nulla facile, per una come lei che da sempre aveva posto su di un piedistallo gli altri, che aveva sempre pensato di essere e di avere qualcosa di meno; non si cambia da un giorno all’altro, e combattere con una testa tanto dura quanto la sua era un terno al lotto C’erano tanti alti e bassi, spesso più bassi che alti, ma quanto le piacevano le sfide, soprattutto se apparentemente estenuanti ed impossibili! E quale sfida più dura, se non una lotta all’ultimo sangue contro se stessa?!
“Tutta colpa della pastiera…”
“Non capisco…”
Era rimasto assorto per una decina di minuti, stava ripensando a quel giorno di aprile di tanti anni prima.
“Scusi ingegnere, che faccio, mando all’ufficio commerciale o vuole rileggerlo meglio?”
“Che cosa? Ah sì, ha ragione, lo mandi subito all’ufficio commerciale.” Imbarazzato passa il plico all’impiegata, che saluta cordialmente ed esce.
Musica romantica. Angela, occhi scuri e profondi, labbra sensuali. Ricorda il giorno che l’aveva incontrata la prima volta, le aveva offerto un gelato e le aveva dato appuntamento in spiaggia.
Apre il cassetto della scrivania, tira fuori una pastiera napoletana. Prende un pezzetto del dolce, tenendolo tra il pollice e l’indice e comincia ad assaporare lentamente. Ancora rimane assorto con gli occhi chiusi. La musica si fa più languida. Un pomeriggio d’estate, vent’anni prima, la spiaggia, Posillipo, il cielo azzurro e l’acqua turchese, una ragazza che esce dal mare e corre verso l’asciugamano…una voce: Angela, il sapore del sale sulle labbra. Una fetta di pastiera napoletana. Altro che Proust, un intero mondo…
“Stop!” Fermo immagine.
“Chi è che ha cambiato i testi della voce fuoricampo? Vi sembra il caso di metterci dentro Proust? Nello spot di un’impastatrice da cucina? Perché secondo voi la maggior parte delle massaie italiane ha letto la Recherche?”
“Io sono solo l’addetto al montaggio, deve chiedere allo sceneggiatore.” Nello studio cala il silenzio.
Abituati al brutto carattere del regista tutti temono di dover passare un’altra settimana di passione. Adesso che avevano quasi finito.
“Riprendiamo – continua brusco il regista- vediamo come va avanti.”
…un intero mondo di ricordi, di profumi e sapori si sprigiona da una fetta di pastiera napoletana, come da una petit madeleine…
“Questa è buona!”, sghignazza, mentre la voce continua sull’immagine dell’uomo che assapora voluttuosamente il boccone di pastiera… ma Marcel non aveva mai provato una pastiera fatta con un’impastatrice elettronica La Favolosa. Stacco. Immagine di una donna procace non più giovanissima, indossa un grembiulino a fiori che le fascia i fianchi e manovra l’impastatrice sorridendo. Dietro compare l’uomo della prima scena, l’ingegnere, che l’abbraccia da dietro e dice, facendo l’occhiolino alla camera: “Tutta colpa della pastiera”. Infine, nella dissolvenza che chiude lo spot, compaiono cinque bambini tra i tre e i sei anni che tenendosi per mano fanno il girotondo intorno al tavolo della cucina.
“Ma chi ha scritto questa schifezza?”
Qualcuno in piedi in fondo allo studio azzarda: “Ma come, aveva detto lei che il materiale girato andava bene, e che potevamo procedere per la voce fuoricampo.”
“Certo ma non credevo che avreste aggiunto altro. Doveva finire con: una fetta di pastiera napoletana, stacco e immagine della donna in cucina che manovra l’aggeggio, il marito e i bambini. Punto.
“Ascolti -interviene un altro che era rimasto sulla porta- probabilmente è il soggetto che non andava fin dall’inizio, a proposito chi è l’autore? Sembra una pubblicità anni sessanta, fatta eccezione per la rêverie del protagonista, che secondo me è l’unica cosa interessante. Ma, andiamo, i bambini che prillano intorno al tavolo…sembra la pubblicità del brodo Knorr”
“Non prillano, fanno un girotondo”.
“Era per dire, lei chi è?”
“Lo sceneggiatore che ha trattato il soggetto. Ero qui fin dall’inizio. Sentite, può darsi che il soggetto non sia un granché, ve lo concedo, ma con l’aggiunta della voce fuori campo, finalmente entra qualcosa di nuovo, Proust, la madeleine, un tocco di cultura e originalità, che importa se il target è più basso, non ha diritto anche la casalinga ad acculturarsi? Magari poi le viene voglia di leggere i classici”
L’uomo in fondo allo studio: “Sì, proprio anni sessanta, il brodo Knorr e Pasolini.” Risate generali.
“Basta, urla il regista, me ne vado, montatelo voi lo spot!”
“Un momento, prima che vada devo dire una cosa, sono l’autore. Forse il soggetto non è all’altezza, ma mi lasci dire che come è stato sceneggiato e girato…” Nella gazzarra finale entra un impiegato che con le mani a megafono davanti alla bocca urla: “chi sta lavorando per lo spot sull’impastatrice? Vogliono subito qualcuno al telefono, dicono che se non arriva entro domani, non se ne fa più niente!”
Tutta colpa della pastiera. Questo si sarebbe ripetuto Marta negli anni a venire.
Quel giorno erano le undici passate quando piombò nello studio di Roberto, preceduta dal pancione.
«Devo fare la pastiera, è una cosa…»
Roberto le fece cenno di aspettare, finì di scrivere la frase che aveva iniziato e salvò il file.
Intanto Marta gli era arrivata alle spalle per sbirciare il suo lavoro. Si muoveva lenta, ancheggiando, quindi lui fece in tempo a cambiare schermata: sul monitor il proverbio ”Il mattino ha l’oro in bocca” si ripeteva all’infinito.
«Ma che scemo! Dai, fammi leggere quello che è scaturito dalla tua mente malata.»
«Wendy, quante volte ti ho detto che se senti battere sulla macchina da scrivere…» Girò la testa e, dato che li aveva a tiro, diede un bacione ai gemelli che se ne stavano tranquilli a sguazzare nel loro liquido. Almeno per un altro paio di mesi.
«Stasera» rispose alla richiesta della compagna «Finisco il capitolo e te lo do in pasto per farmi massacrare. Ma che dicevi della pastiera?»
«Devo farla! Mi serve qualche ingrediente.» Tirò fuori dalla tasca una lista e gliela diede. Roberto la scorse velocemente: una ventina di voci, tra cui due tipi di ricotta, due di canditi, grano, uova…
«Arrivo da ”Pasticciaccio” e la prendo già fatta, no?» Cercava di mettere le mani avanti, ben sapendo che sarebbe toccato a lui fare la spesa.
«Assolutamente! E dove sta il divertimento? Voglio farla io… Non vorrai mica che Romolo e Remo escano con una voglia di voglia.»
«E come sarebbe una ”voglia di voglia”?»
Marta fece un gesto confuso davanti al viso: «Così.»
«Poi lo scemo sarei io. Se scendo al Conad qua davanti pensi che troverò tutto?»
«Ma sì.»
«Sappi comunque che non lo faccio per te, ma per Gianni e Pinotto. Non voglio certo che nascano con quella cosa sulla faccia.» Imitò il gesto che prima aveva fatto Marta.
«Ti amo, scioccone.»
«Già, come si ama uno schiavetto. Voi che dite, Dioscuri?» Appoggiò l’orecchio sulla rotondità della compagna e sentenziò: «Sono d’accordo con me.»
«Perché ancora non ti conoscono» rispose Marta coprendogli il collo di piccoli morsi.
«So un modo per farmi conoscere a fondo» disse Roberto toccandole un seno.
Lei ansimava leggermente, ma riuscì a contenersi: «Non ora, stasera. Il Conad chiude.»
Sul pianerottolo Roberto incontrò la signora Passa: piccola, bianca, curva sul bastone col pomolo d’argento.
«Dove se ne va, signora?» le chiese aprendo la porta dell’ascensore.
«Al Conad.»
«Devo andarci anch’io, se vuole le prendo quello che le serve.»
Lei lo fulminò con lo sguardo, pigiando il pulsante T.
Il messaggio gli arrivò forte e chiaro: Che credi, che sia troppo vecchia per fare qualsiasi cosa?
Le sorrise, cercando di farsi perdonare l’inaudita sgarbatezza.
Uscirono dall’ascensore.
«Almeno lasci che l’aiuti ad attraversare.»
Di nuovo quello sguardo, ma in compenso gli porse il braccio.
Si avviarono verso le strisce che tagliavano il vialone.
Peppe, sul furgone della DHL, pensava a Elisa e a come si erano lasciati quella mattina.
Certo, lui aveva esagerato, a mente fredda se ne rendeva conto, ma anche lei non era stata per niente tenera. Ad ogni modo, e questo lei avrebbe dovuto riconoscerlo, era stato lui per primo a fare ”mea culpa” mandandole un messaggio con una faccina triste e il testo che diceva soltanto ‘Parliamone, ti va?’
Non si aspettava una risposta veloce, di sicuro Elisa l’avrebbe tenuto sulle spine per tutta la giornata, orgogliosa com’era. Invece la risposta arrivò verso mezzogiorno. Al suono della notifica Peppe prese il telefono e lesse ‘Ok, stasera’. Perfetto, il primo passo era fatto.
Quando rialzò gli occhi dal cellulare era troppo tardi, frenò ma non servì, andava troppo veloce: prese in pieno le due persone che lentamente stavano attraversando sulle strisce, uccidendole sul colpo. L’impatto fece aprire l’airbag, mentre un bastone col pomolo d’argento volava in aria.
Marta, spaparanzata a lisciarsi il pancione, stava dicendo ai gemelli quanto fossero fortunati ad avere un padre meraviglioso. Allo stridio della frenata un brivido freddo le percorse la schiena.
FINE
Tutta colpa della Pastiera. Tutta colpa di Dio.
Ansimava, colta dall’ebbrezza del capolavoro che stava ultimando.
Un Piatto ricco e complesso, perfezionato per tutta la vita.
In quella Ricetta c’era il suo amore e tutta la sua anima. Ricordava ancora l’esplosione di sapori che l’avevano convinta a raggiungere San Giovanni Armeno e votarsi completamente all’alchimia perfetta del gusto, divenendo depositaria di uno dei Segreti più ambiti in città, un arcano che gli Dei stessi avevano svelato agli uomini.
Quanti anni di preghiere… dove sudore colava tanto dalla fronte, coperta dall’austero copricapo, quanto dall’anima, mortificata dalla vita di rinunce. La stessa umidità appiccicaticcia sembrava ora ricoprire le sue mani, portando la mente a scartabellare nello scrigno dei ricordi.
Era confusa dall’emozione, dall’Amore che sprigiona la vicinanza a qualcosa di Sublime, tanto che tutto il resto assumeva contorni fatui.
Lei sapeva quanti sacrifici erano necessari per avvicinarsi a Dio, di cui quel ghiotto elaborato era un preannuncio alle gioie che avrebbe gustato in paradiso. Lei amava assaporarlo, ma ciò che la faceva sentire veramente importante era l’effetto che la Pastiera aveva sugli altri: trasfigurava volti, una volta corrucciati, in delicati sorrisi e rughe di anzianità nei lisci ricordi del primo assaggio in giovinezza. Lei sapeva il perché: la Pastiera, nella sua superlativa essenza, ricordava alle persone tutto il meraviglioso di cui avevano fatto esperienza nella loro vita.
Amava distillare gioia e non esisteva fatica troppo grande se quello era il risultato. Anche lo sforzo di quella notte era a maggior gloria di Dio. Dio stesso l’aveva chiamata per questo.
Era leggermente disturbata dall’odore acre presente nella sala, ma sapeva che presto si sarebbe trasformato in fragranza irresistibile.
Le mani si muovevano agili tra molle materia che sarebbe stata resa immortale.
Si, fin dal suo ingresso era stato chiaro a tutti che lei fosse la predestinata a proteggere la Ricetta. Aveva ricevuto anni di formazione a quel fine, anni di compiti frustranti e all’apparenza inutili.
Come grattare le scorze di arance e limoni… quante ne aveva grattate? Forse tante quanto una distesa di alberi enorme, grande come da… Napoli a Caserta! Qualcosa di inimmaginabile! E lei, con la forza della determinazione, aveva resistito.
Così ora doveva resistere e continuare a grattare, prendendo forza dal passato.
Quanta forza dal passato… anche quella per tenere testa a Suor Paola, precedente depositaria del Segreto, che occultava in ogni modo possibile le proprie conoscenze per non rischiare di essere spodestata.
Suor Paola, era il suo primo pensiero alle lodi e l’ultimo a compieta: “Dio, allontanala da me! … e da Te!”.
Ma era notte fonda, compieta da lungo passata, e non doveva più pensare a lei.
Impossibile, avevano già iniziato a sfilare davanti agli occhi tutte le volte che l’aveva sminuita in pubblico, quando l’aveva trovata a guastarle le composizioni,… Era guerra. All’ultimo sangue.
“Basta distrarsi! Non pensare a niente, libera la mente per essere pronta ad effondere nel tuo Capolavoro l’Amore. Il Cuore era l’ingrediente segreto del successo.”
Era quasi pronta: come l’uovo, simbolo di rinascita, anche quell’ingrediente speciale andava sgusciato, il guscio inciso e spezzato. Sembrava brutale, ma non si doveva dimenticare l’origine pagana della Pastiera, legata alle offerte votive a Cerere. Il sacrificio era stato ereditato anche nella Cristianità, con addirittura un richiamo al cannibalismo nella Mensa: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo”. Che frase meravigliosa e densa all’infinito: tutte loro sognavano di poterla dire un giorno. Suor Paola sarebbe stata accontentata, la solita fortunata.
I rumori aleggiavano sospesi tra il sonno delle sorelle. I passaggi dovevano essere svolti con calma e precisione.
Ecco, finalmente tra le mani quel vermiglio ingrediente, mistico e pulsante, pronto per essere tritato e rendere Immortale la Pietanza.
Non si poteva dire che Suor Paola non avesse finito per metterci il Cuore in quella Pastiera!
Tutta colpa della pastiera pensava Ylenia.
Nel tempo aveva imparato a cucinare molti piatti italiani, ma la pastiera era davvero complicata e le veniva sempre male.
Ma stavolta era decisa a fare un lavoro perfetto, o sarebbero stati guai.
All’ inizio Ylenia non diede peso alla cosa, i litigi avvengono in ogni famiglia, anche se spintoni e scappellotti non erano proprio “normali”, ma lei ci passava sopra.
Il vero inferno lo viveva quando Luca, il marito, chiedeva la pastiera. Ogni volta trovava qualche difetto, regolarmente punito.
Luca riusciva a diventare tanto metodico quanto violento, non colpiva mai il viso o le braccia, per non lasciare tracce e sapeva come giustificare ogni livido, ogni frattura, ogni taglio.
Ylenia sarebbe andata via da tempo, aveva vissuto per strada per tutta l’infanzia, ritornarci non la spaventava; ma ciò che la fermava era Mattia, suo figlio.
Per dargli le possibilità che lei non aveva avuto, avrebbe sopportato qualsiasi cosa.
D’ un tratto Ylenia, si accorse che non aveva lo strutto. Sentì il sangue gelarsi e fu costretta ad usare l’ olio, sperando che non si notasse.
Seguì ogni passo della ricetta, sperando di non sbagliare di nuovo.
A lavoro finito, il dolce era una vera opera culinaria. Ma sarebbe bastato?
Ormai era ora di cena e Mattia si presentò puntuale per preparare la tavola assieme alla madre.
Ylenia era orgogliosa di suo figlio, ma anche preoccupata, ormai aveva dodici anni e iniziava a criticarla per le violenze che sopportava. Da bambino era più facile convincerlo, ma ora diventava più insistente.
La serratura scattò e Ylenia iniziò a sudare freddo.
La cena trascorse tranquilla, con Luca che parlò di lavoro e dei colleghi, finché arrivò il momento del dolce.
Luca la osservò, poi ne prese una fetta e la mangiò.
Guardò la moglie, e si congratulò. Ylenia sentì di colpo un fuoco scaldarle il cuore. Ci era riuscita allora, ce l’ aveva fatta.
Col sorriso in volto, iniziò a lavare i piatti.
“Con cosa hai cucinato la pastiera, tesoro?”
Ylenia non si era accorta che Luca era alle sue spalle, e fece appena in tempo a sentire quel sussurro che un calcio sul ginocchio la fece piombare a terra.
“Con cosa hai cucinato la pastiera, tesoro?” chiese di nuovo Luca che, senza attendere una risposta, iniziò a sferrare altri calci alle gambe della moglie.
Iniziava sempre dalle gambe, così che lei non potesse scappare.
“Ho una sola gioia nella vita: quel maledetto dolce e tu lo rovini ogni fottuta volta” tuonò Luca.
Ylenia tentò di strisciare via, ma una pioggia di pugni si abbatté sulla sua schiena, facendo scricchiolare costole e vertebre.
“Evidentemente ci provi gusto, o non mi costringeresti a farlo” Luca si preparava a ultimare il suo lavoro e dispose alcuni coltelli a terra, in modo che Ylenia potesse vedere cosa l’ attendeva.
“Smettila, o chiamo la polizia”
Era Mattia, che ormai non poteva più assistere in silenzio. La madre gli aveva sempre detto che se denunciavano la cosa, poi li avrebbero divisi, che lui doveva solo pensare allo studio e costruirsi un futuro, ma questo non lo tratteneva più.
Luca lo guardò, ma non gli diede peso, afferrò un coltello e si preparò a colpire.
Ylenia era pronta, ma invece di sentire la lama sentì il marito urlare.
Mattia lo aveva pugnalato al braccio con una forchetta, subito però fu scaraventato a terra .
Luca aveva una rabbia demoniaca in volto e sferrò un pugno in pieno volto al figlio.
In quell’ istante Ylenia sentì che il dolore scomparve, la paura era sparita, le preoccupazioni svanite, ogni cosa in lei fu sostituita da una rabbia accecante e forte di quel furore, urlò “Fammi quello che vuoi, ma non toccare mio figlio”
Prese un coltello e lo affondò nell’ occhio di Luca, fino al manico.
Il mostro crollo in un secondo. Era finita.
Mattia si avvicinò alla madre, che lo abbracciò forte, piangendo.
Ylenia vide che vicino al corpo del marito c’erano i pezzi del dolce da lui tanto amato; nella lotta doveva essere caduta a terra.
“Tutta colpa della pastiera” mormorò.
“No, mamma” disse Mattia “Non pensarci più. Ora siamo liberi e non importa cosa accadrà. Possono allontanarci, ma non separarci. Staremo sempre insieme”
Ylenia era davvero orgogliosa del figlio. Era vero. Ora erano liberi e nient’ altro importava.
Tutta colpa della pastiera!
Lo sapevo che non avremmo dovuto provarci!
Ma noi no, testardi fino in fondo comunque ci abbiamo tentato.
Volevamo riuscirci a tutti i costi, non potevamo sfigurare, era una questione di orgoglio!
Comunque non poteva essere così complicato!
Quindi forza, cominciamo!
Siamo partiti con slancio ed entusiasmo
Ci siamo procurati tutto il necessario, abbiamo scelto giorno e luogo.
Ci siamo trovati e abbiamo cominciato.
Ma presto ci siamo persi.
Troppe indicazioni da seguire. Troppe procedure da controllare.
Ci siamo comunque trascinati fino alla fine.
Questi sono i risultati.
Una leggera coltre bianca ricopre il tutto, nascondendo alla vista ciò che c’è al di sotto.
A tratti soffice, amorfa, opaca; si agita al minimo movimento dell’aria, spandendosi ovunque, cercando di conquistare altro territorio.
A tratti cristallina e brillante, riflette la luce e tende ad affondare nella coltre più soffice, radunandosi in basse collinette.
Piccole, appiccicose pozze giallo-arancione tendono ad impastarsi con la coltre opaca, bloccandone la libertà di volo, diventando sempre più dense, perdendo lentamente la propria brillantezza man mano che vengono ricoperte.
Forme geometriche gialle e arancioni, sparse ovunque, colorano il tutto e profumano l’aria con il loro intenso aroma.
Risplendono a contatto con la luce rallegrando l’atmosfera.
Altre forme, di un giallo intenso, isolate dalle altre, radunate insieme in un piccolo territorio, sembrano delimitare un caldo e silenzioso deserto.
Pochi puntolini verdi a stento visibili, richiamano alla mente piccoli steli d’erba che, a fatica ma con tenacia, ricrescono al di sotto della neve.
Macchie rosso ruggine, sparse qua e la, appaiono come polvere di Marte che, caduta sulla Terra per qualche scherzo cosmico, si è depositata in piccole isole.
Piccoli laghetti di un bianco opalescente, aiutati dal piano irregolare, si radunano nascondendosi in avvallamenti poco profondi
Un rigagnolo di liquido profumato ruscella tra il tutto, cadendo oltre il bordo formando una piccola cascata gocciolante.
Una montagna bianca, con la cima piatta e ampia, svetta imperiosa, quasi a sfidare tutti sul chi sia la vera regina di quel mondo fantastico ed impossibile.
Lo sapevo! Non avremmo dovuto prepararla.
Ci abbiamo provato, ma non credo che lo rifaremo.
Ora è tutto da riordinare!
I protagonisti:
Coltre bianca opalescente: farina
Coltre cristallina e brillante: zucchero
Pozze giallo-arancione: tuorlo d’uovo
Forme geometriche giallo-arancione: scorza di buccia di limone e arancia
Atre forme gialle: grano
Puntolini verdi: canditi
Macchie rosso ruggine: cannella
Laghetti bianchi: latte
Liquido profumato: aroma di fiori d’arancio
Montagna bianca: ricotta
Fossimo almeno riusciti a mangiarla la pastiera napoletana!
“Tutta colpa della pastiera”
Alzo gli occhi dalla tastiera dell’ecografo.
“Mi hai chiesto perché sto con te da più di trent’anni, invece di divertirmi come le altre porte, e io ti rispondo: tutta colpa della pastiera”
Guardo mia moglie (che strano, usare quel termine, parlando di una creatura che il simbionte annidato nell’utero ha reso immortale, di bellezza sovrumana…eppure sì, moglie, e addirittura sposata in chiesa), cercando una spiegazione.
Lei ride (e attraverso la maschera dorata che indossa per non soggiogare con il suo fascino gli uomini ha il suono di risata di bimba)
“Avevi i capelli ricci e folti, avevi 27 anni. Non so perché, risaltavi, tra a gente, a quella festa. Ti volli. Mi avvicinai a te, mentre un silenzio carico di tensione calò sulla sala. Ti bloccasti, mentre incedevo. Sentivo il tuo cuore battere nel silenzio, il tuo odore farsi più intenso; mi avvicinai a te, feci per togliere la maschera…
“Perché?”, sentii alle spalle
Mi voltai, totalmente sconvolta. Risposi con alterigia sovrana: “Quest’uomo mi piace, prete. Lo voglio. Mi guarderà, vedrà il brillio delle nano sulla mia pelle, ne sarà soggiogato, sarà mio”
Lui non fece una piega
“Come uno schiavo? Come questa pastiera, così perfetta, così desiderabile con quel suo profumo di fiori d’arancio? Fatta solo per essere mangiata, così?”
E si mise un enorme pezzo in bocca, lo assaporò lentamente, voluttuosamente…Mostrandomi alla fine il piatto vuoto. Vuoto, capisci? Sto con te perché non sei una pastiera squisita che quando finisco di mangiarla non ce n’è più…e poi tra una quarantina d’anni finalmente schiatterai e allora…ahi, piantala di tirarmi i cuscini, essere inferiore! Sono immortale, non invulnerabile!”
La guardo sdraiarsi sul letto, alzare la veste amplissima che ne nasconde le forme.
Il robot si avvicina cigolando, alza con decisione la sonda, la poggia con sorprendente delicatezza sul ventre pregno di lei…
Le porte, di solito, non rimangono incinte.
Sono porte, appunto. Strumenti per teleportare il frutto del concepimento.
Se rimangono gravide, è perché un’altra porta è morta: un incidente, il più delle volte, o qualcosa di peggio.
“Andrea, piantala di stringermi la mano in quel modo e di guardarmi come un cane bastonato So a cosa stai pensando. Sì, so che se sono incinta è perché una porta è crepata, magari uccisa. No, non me ne frega niente. Non la conosco. Se la conoscessi, allora… ma non la conosco. Sai, invece, cosa è strano?”
“Cosa?”
“Tutti gli uomini che ho avuto prima di te, han sempre vissuto come una perdita non vedere il frutto del proprio seme svilupparsi nel grembo della loro donna, nascere, crescere. Tu dopo la prima volta che ci siamo amati hai aperto la finestra, hai guardato la notte, hai esclamato: ma ci pensi? Nostro figlio andrà lassù!”
Guardo l’immagine sul monitor, non lo giro verso di lei.
Che ovviamente capisce
Altre, avrebbero chiesto con voce strozzata “Cosa c’è? Fammi vedere!”
Lei no. E’ una porta, e soprattutto è Rosalia.
Le carezzo la mano destra, lentamente…
“Dovevamo capirlo, fin da subito, Rosi. Da quel primo messaggio degli Altri, quando ci spiegarono come fabbricare il simbionte, impiantarlo nel corpo delle donne, a cosa servisse…Ricordi?
(Buon Dio, sto chiedendo alla mia donna se si ricorda qualcosa avvenuto più di 1200 anni fa e lei fa cenno di sì, e piange…)
Giro il monitor verso di lei, mentre il gracchio degli allarmi comincia a perforarci i timpani…
“Dissero che sareste diventate porte, porte verso le stelle…”
“Cosa, cosa diavolo…”
“…e le porte fanno passare in entrambe le direzioni…”
Sullo schermo, l’immagine di una creatura.
Sembra volare, nell’amnios.
Ha un dito infilato in bocca, ma la testa è allungata, troppo.
Niente gambe, in compenso dietro la schiena quelle che, forse, sono ali sottili.
Lei alza la mano sinistra, accarezza lo schermo…
“Mio…figlio?”
“No, Rosi. Nostro figlio”
Tutta colpa della pastiera… pensò Franca, con una mano sugli occhi quasi a voler nascondere le lacrime. Le lacrime non c’erano. Non si ricordava di aver pianto da adulta. Secondo lei ci stava proprio bene un bel pianto dirotto, con tanto di singhiozzi. Era sola, ma il pianto poteva essere liberatorio. Ma non ci fu. Tolse la mano dagli occhi e guardò la porta. Luigi era appena uscito e aveva rotto la promessa di matrimonio. Certo, ma anche quella di stare insieme come compagni. Più niente insomma, dopo il sogno di passare una vita insieme.
Franca aveva invitato Luigi a pranzo. Aveva preparato, come primo, la pasta con i broccoli seguita dal vitello tonnato, acquistato già fatto come pure la pastiera che aveva concluso il pranzo.
Era un giorno lavorativo e quindi non bisognava strafare. Il pranzo, e soprattutto la pastiera, invece che predisporre Luigi al dialogo, lo avevano allontanato. Avevano parlato delle notizie di attualità e avevano condiviso pareri. Si erano trovati d’accordo anche su come deve essere arredata una casa. Arrivati alla pastiera il primo contrasto: “ E’ pesante” aveva detto Luigi, “Ne prendo un po’ per assaggiare. Sai che ho problemi di digestione e dovevi evitarla “ “Scusa” Aveva detto brevemente Franca. Si preparava a fare l’affermazione per cui aveva invitato Luigi. Era certa che Luigi non avrebbe apprezzato. Luigi studiava Ingegneria e sognava di far una brillante e solida carriera. Tutto in un botto, Franca sputò il rospo.” Ho deciso di abbandonare gli studi di Farmacia per iscrivermi alla facoltà di Lettere. Mi sento più portata per quegli argomenti. Luigi si alzò in piedi, scostando bruscamente la sedia: “Figlia unica, viziata. Non sai che cosa sia la miseria. Non pensi a trovare un lavoro, pensi solo a cosa ti piace fare. Io non voglio certo ritrovarmi ai tempi della mia infanzia, quando mia madre faticava a trovare i soldi per il nostro pranzo e la nostra cena”. “Potrei insegnare o dare lezioni private” disse con un filo di voce Franca dopo la sua sfuriata. Rispose subito, scuotendo il capo: “Dare lezioni private non ha mercato e l’insegnamento presso lo Stato neppure: non ci sono più posti. Cosa pretendi?” gridò “Che ti mantenga io?” “Capisco: hai paura che economicamente non ce la…” tentò di dire Franca “Me ne vado. Ripeto: non mi piacciono le bambine capricciose. Io ho sofferto e non voglio soffrire più”. Ed uscì, sbattendo la porta d’ingresso dell’appartamento.
Franca e Luigi si erano conosciuti ai tempi del Liceo: erano in classe insieme: uscivano, a volte soli, a volte con una compagnia di coetanei: andavano al cinema, a ballare, prima il sabato o la domenica pomeriggio poi, più grandi, anche la sera dopo cena. C’era anche qualche pizza.
Si era sviluppato un sentimento basato su un comune modo di intendere la vita e si distinguevano entrambi per il rapporto con gli altri: incoraggiavano o sconsigliavano, comunicavano notizie, invitavano per passare un pomeriggio o una serata insieme, erano, insomma la coppia leader .
Pian piano la compagnia si era diradata e il loro rapporto si era rafforzato. Ma adesso? Pensò Franca guardando la porta . Più niente disse a se stessa, continuando a fissare la porta. E la porta si aprì ”Parliamo con calma” disse Luigi sedendosi.
Tutta colpa della pastiera. Alessia e Giacomo non erano abituati a quella torta così pesante da digerire. Erano andati a trovare un loro amico, che abitava nei pressi di Napoli, e la madre aveva omaggiato gli ospiti, venuti dal Nord, con una pastiera fatta in casa. Per non offendere le tante ore di lavoro della donna, ne mangiarono così tanta da non sentirsi in grado di affrontare il viaggio di ritorno. Quella notte, quindi, restarono a dormire li. Entusiasti del contrattempo, consumarono la notte selvaggiamente tra le lenzuola. Al mattino si sentivano più uniti che mai. Dentro di loro sapevano che non avrebbero mai dimenticato quel week end. E avevano ragione. Trascorsi un paio di mesi, Alessia si accorse che non le era arrivato il ciclo. Improvvisamente un atroce dubbio l’attanagliò. In quella magica notte di passione, scaldati dalla calorosa ospitalità del Sud, non avevano usato alcuna precauzione. Era incinta. I ragazzi si sentirono soprafatti, da questa situazione, ma i genitori di entrambi li rassicurarono, garantendo loro sostegno e aiuto. Rincuorati, la coppia visse serenamente tutta la gravidanza, trovando anche un appartamento dove poter convivere. Non avrebbero mai immaginato cosa li attendeva. Il primo, scioccante, cambiamento, fu, per Alessia, a livello lavorativo. Si presentò dal suo capo per comunicare il suo stato interessante. Non voleva congedi di maternità anticipati, data la mancanza di rischi sul lavoro per lei e il suo bambino, ma il suo boss la pensava diversamente. «Ma cosa credi che resterai qui a lavorare?» Hai sbagliato i conti- le rispose – il contratto a tempo determinato si conclude tra una settimana e per quanto mi riguarda anche tutto il resto. Non ho soldi da investire su una persona che ti sostituisca» «Ma non è giusto-imprecò Alessia- E’ immorale, discriminatorio, è…» ma mentre cercava le parole il capo la interruppe «E’ legale. Puoi andartene anche oggi.» Non riusciva a credere che stesse vivendo una tale situazione. Nessun corso pre parto, ai quali la coppia aveva diligentemente partecipato, li aveva preparati all’inversione totale che si ha, nella vita, quando si mette al mondo un figlio. Le pareva di essere tornata indietro nel tempo, quando alle donne non era concesso avere un lavoro e una famiglia contemporaneamente. E invece eccola lì, immutata, la Storia si ripeteva senza possibilità di replica. Lui aveva il potere di lasciarla a casa grazie all’inganno che le aveva perpetuato per mesi con il rinnovo costante di un contratto a tempo. E così fece. Alessia provò sulla sua pelle quanto l’Italia fosse ancora legata a retaggi mentali passati. Succede. O si viene lasciate direttamente a casa, come era successo a lei, o, al rientro dalla maternità, magari con la voglia di rimettersi a lavorare su grandi progetti o con l’intenzione di continuare in quella carriera che faticosamente si era fatta fino a quel momento, si diventa improvvisamente trasparenti. E si scopre che, soprattutto in posti scarsamente tutelati, il proprio ruolo non c’è più. Che gli altri ti considerano come una persona rientrata dopo una malattia, inabile a fare ciò che facevi prima con qualcuno che si è piazzato al tuo posto e non intende cederlo. Passarono anni di grandi sacrifici economici, compromessi morali e assordanti silenzi ma la coppia resse a tutto, consolidata dall’amore per il bambino e il loro. Al decimo compleanno del figlio, Alessia comprò una pastiera napoletana, per festeggiare l’artefice del repentino cambio delle loro vite e della sua scelta di rientrare nel mondo del lavoro, consapevole che, ricominciare la scalata, si sarebbe accavallata con le incombenze familiari atrocemente stancanti, anche con l’ausilio di aiuti esterni come i nonni. Ma non gliela avrebbero data vinta. Quella pastiera li aveva benedetti non solo con la nascita di un figlio ma anche con il raggiungimento di un’invidiabile responsabilità che pochi possono vantare.
Tutta colpa della pastiera.
Cara Maria, ricordate?
Eravamo sposati da poco, il matrimonio si era svolto con tutto lo sfarzo che il nostro rango richiedeva, mentre i sudditi acclamavano i loro nuovi sovrani.
Voi eravate radiosa come non mai, mentre passavamo fra due ali di soldati venuti a omaggiarci; poi, però, quando ci ritirammo nelle nostre stanze, la favola si affievolì.
I matrimoni combinati non lasciano mai molto scampo, in tutti i sensi.
Mentre il tempo passava, le giornate ci vedevano quasi sempre distanti l’uno dall’altro. Le vostre compagne di vita sembravano essere le vostre dame di compagnia, non io, vostro marito e vostro sire.
Voi avevate un’innata predisposizione al ruolo di consigliere reale e mi ponevate parecchie domande. Io condividevo con voi quello che volevo condividere, lasciando, però, una zona grigia fra di noi, cose non dette e segreti che si accumulavano e incancrenivano sotto la dicitura “roba da uomini”.
Ve ne accorgevate, lo sentivate, come io sentivo il vostro notare queste tradizionaliste omissioni.
Soffrivate, anche se non lo davate a vedere.
Ma nel regno tutti cominciarono a chiamarvi “la regina che non sorride mai”.
Era vero. E me ne sentivo in parte colpevolmente complice.
Eravate una fanciulla di rara bellezza e delicatezza, eravate e siete, nonostante il tempo abbia posato su di voi un po’ della sua cenere. I ritrattisti di corte non perdevano occasione d’immortalarvi nelle loro opere e io ne ero orgoglioso e insieme sottilmente geloso, anche per il fatto che, in quei frangenti, vi dipingevano sulle labbra un piccolo sorriso che rimaneva, nonostante tutto, immaginato, perché continuava a non specchiarsi sulle vostre labbra, un poco umide, di una sensualità innocente che accendeva sotto la mia pelle un fuoco divampante.
Dentro di me si cominciò a fare strada il desiderio potente e insopprimibile di vedervi sul viso quel sorriso, anche solo per un attimo, sapevo che sarebbe stato indimenticabile, che mi avrebbe ustionato di bellezza l’anima, come un marchio a fuoco.
Tentai, allora, di fare appello a tutto il mio umorismo e, in separata sede, quando eravamo da soli, vi facevo scherzi, battute, piccoli calembour improvvisati, tanto che fra i sudditi corse la voce sul mio essere un “buontempone”.
Nonostante tutti i miei sforzi, però, il vostro sorriso rimaneva sepolto dentro di voi, senza luce, ad avvizzire.
Per me era diventata un’ossessione, una brama spasmodica, un’ardente voluttà.
Dovevo, a ogni costo, vedervi sorridere.
Mi giunse all’orecchio, allora, che nel regno si usava mangiare un dolce, una torta particolare, nominata “pastiera”, che si diceva avesse origini persino magiche (sembrava c’entrasse la sirena Partenope) e che desse a chiunque ne assaporasse una fetta una gioia incontenibile, tanta era la paradisiaca bontà che quel manicaretto donava alla bocca e al cuore di chi se ne nutriva.
Chiamai, allora, il cuoco di corte commissionandogli questa leccornia.
Avevo, forse, trovato il modo di giungere al mio scopo?
Un giorno vi trovai nelle vostre stanze, mi presentai con una fetta di torta su un piatto riccamente ornato. Gli effluvi di cannella e arancia che emanavano dal dolce effettivamente raccontavano di una bontà sopraffina.
Vi porsi il piatto invitandovi ad assaggiarne il contenuto. Il vostro viso si colorò di un’espressione dubbiosa, ma vi rassicurai: il cuoco desiderava sapere se questo nuovo dolce incontrava il vostro favore, in vista della preparazione del banchetto per la Pasqua imminente.
Infilaste la posata d’argento nella fetta fragrante, staccandone delicatamente un piccolo pezzo e portandolo alla bocca.
Non stavo più nella pelle. Vi fissai, mentre voi non ve ne accorgevate, per non perdere neanche un secondo del miracolo.
E… i vostri occhi si posarono su di me, le guance si mossero assecondando i denti che si chiudevano e… sì!, le labbra si aprirono, prima timide, poi sempre più distese, fino a regalarmi ciò che tanto bramavo e che ancora bramo, ogni volta che accade, come fosse la prima.
Tutta colpa della pastiera, se quel giorno mi sono perdutamente innamorato di voi, dopo avervi sposato, e ancora vi amo, e vi amerò, per sempre.
Sia benedetta la pastiera.
Con eterno amore,
Vostro,
Ferdinando
(Maria è Maria Teresa Isabella D’Asburgo
Ferdinando è Ferdinando II di Borbone)
Tutta colpa della pastiera! O forse tutta colpa della mia invidia? Preparo la torta seguendo, passo passo, la ricetta che mia nonna anni fa scrisse su un foglietto insieme a una raccomandazione: “Ricorda di dosare bene ricotta e affetto sincero, altrimenti saranno guai!”. Ho a disposizione della ricotta fresca e, in quanto ad affetto sincero, direi che quello che provo per me stessa sia abbastanza! Porterò la pastiera in ufficio e tutti sapranno quanto anch’io sia brava a preparare dolci. Mica solo Marilena sa cucinare! E, diciamola tutta, finalmente dimostrerò di essere migliore di Gaia, la bellona che riesce a far credere di essere perfetta. Il suo lavoro è sempre apprezzato e, se porta un dolce, tutti dicono che è buonissimo, anche quando non lo è. Il suo lavoro poi è pieno di pecche, ma lei riesce a nasconderle dietro a un paio di occhioni ammiccanti. Sarà anche bella ma dovrebbe andare a lavorare allo zoo come Gatta Morta, aveva detto una volta Valerio. Valerio è l’unico collega con il quale mi trovo davvero bene. Tra di noi scherziamo parecchio e spesso definiamo il CDA Consiglio Degli Anziani invece che Consiglio D’Amministrazione. Per ringraziarlo della sua amicizia ho preparato anche una pastiera più piccola da regalare solo a lui. Gliela porterò stasera quando, come ogni domenica, ci vedremo per l’aperitivo. In attesa della serata decido di fare un giro in bicicletta. Prima di uscire però metto la pastiera piccola nel frigo mentre lascio l’altra sul tavolo. Torno a casa un paio d’ore più tardi ma i benefici della mia pedalata nel verde scompaiono appena apro la porta. Vi sono briciole dappertutto e, purtroppo, non solo quelle. Il pavimento è pieno di macchie di vernice bianca. Sono spaventata. Forse, dalla finestra che ho lasciato aperta, è entrato un ladro con qualche strana mania oppure un serial killer che, come segno distintivo, lascia in giro macchie di vernice. Avverto un rumore insolito, ho paura e corro via. Ogni tanto mi volto a guardare indietro e, con sollievo, non vedo nessuno che mi insegua. Arrivo sotto casa di Valerio, a pochi isolati dalla mia, e lo chiamo.
“Non preoccuparti! Ci sono io!” dice rassicurandomi in quel modo in cui solo lui è capace.
Mi accompagna a casa, mi prende per mano e insieme saliamo le scale. Valerio entra lentamente nell’appartamento e, poco dopo, inizia a ridere. Forse il killer ha spruzzato qualcosa di strano. Forse dovrei chiamare la polizia. Mi faccio coraggio e decido di entrare. In quel momento vedo Valerio catapultarsi contro l’intruso. Non è un killer ma, a suo modo, è un ladro: è un piccione che sguazza felice nella mia pastiera. Viene da ridere anche a me. Il piccione, nonostante abbia le ali ricoperte di ricotta, riesce a scappare dalla presa di Valerio e urta contro un piccolo vaso di fiori. Il vaso si ribalta e il pavimento si riempie d’acqua. Non rido più. Mi innervosisco e cerco di acchiappare il piccione. Purtroppo scivolo sull’acqua e cado a terra dando una forte botta col sedere. Mi fa parecchio male ma il dolore è sovrastato da una sensazione di schifo: quelle intorno a me non sono macchie di vernice ma tante, tantissime cacche. Mi rialzo velocemente, nel limite di quanto ci si possa alzare velocemente con le chiappe piene di lividi. Valerio mi chiede come sto e intanto il piccione sbatte più volte contro al vetro di una finestra chiusa fino a che, finalmente, non riesce a trovare una finestra aperta e scappare. Io e Valerio ora ridiamo come pazzi e, seppur con imbarazzo, lui mi fa sdraiare sul divano a pancia in giù. Indosso dei pantaloni strettissimi e mi sento a disagio a mettere il sedere in mostra, proprio lo stesso sedere su cui lui sistema del ghiaccio cercando di non guardare. Resto immobile mentre lui si accinge a sistemare il disastro introno a noi. Lo guardo e mi rendo conto che solo la pastiera destinata all’ufficio ha fatto una brutta fine. Quella preparata per Valerio è al sicuro nel frigorifero. Ora sì che mi sono chiare le istruzioni della nonna: “Ricorda di dosare bene ricotta e affetto sincero, altrimenti saranno guai!”.
“Tutta colpa della pastiera se sono qui a lamentarmi. Ahia, ohi!”. Mi tastavo alla cieca; percepii la sensazione ruvida di una fasciatura. Il mio guaito attirò l’attenzione dell’infermiera che cercava di rassicurarmi. Risposi con un mugolio sordo e imbronciato. “Suvvia, non ha nulla di grave…” sussurrava, tamburellando la penna sulla cartella clinica. “Ah!” sentenziai, tra lo sparuto e il sorpreso. Quindi non ero ancora morto, ma il terrore mi era rimasto addosso, ne sentivo l’odore. Il pensiero paralizzato si esprimeva a monosillabi. “Signor Gilberto, pazienza, la sua signora sta per arrivare”. Mi sentivo troppo debole per inveire, ma la rabbia montò comunque. Se languivo in un letto di ospedale, la colpa era solo sua e di quella mania di ficcare il naso dappertutto con la scusa di mettere in ordine. Proprio una settimana fa, in fondo a un baule in soffitta, aveva rinvenuto un vecchio ricettario, avuto in eredità. Avrei dovuto mordermi la lingua prima, ma Belzebù stava già tessendo la sua tela. “Caro, qual è il piatto che ti ricorda la nonna?” Ed io improvvido risposi: “La pastiera. Ummmh …” Lei con slancio si offerse di prepararmela. Non avevo molta fiducia nelle sue doti culinarie. Timidamente suggerii: “Non è il caso! La compriamo”. Lei offesa, chiuse il ricettario. Il sabato successivo la trovai sulla porta, tutta scarmigliata in mia attesa:” Tesoruccio…-iniziai a tremare- sto preparando la pastiera napoletana. Manca l’ingrediente principale: il grano cotto. Silvia mi ha detto che lo vendono pronto dal pasticciere in piazza Marconi. Per favore, vacci tu”. Risalii in auto, mi immersi nel traffico cittadino imprecando contro i semafori e i pedoni troppo lenti. Sostai in seconda fila con la freccia lampeggiante, il tempo di entrare e di uscire a mani vuote e con in mente un indirizzo al centro storico. Mi infilai come un bolide in un parcheggio appena liberato, rischiando di essere linciato da due signore che accampavano diritti di precedenza. A testa bassa mi infilai nel dedalo di viuzze strette e maleodoranti. Giunsi al “Laboratorio” simile all’antro di una caverna. All’interno il proprietario dall’aspetto pingue e trasandato trafficava sotto il bancone… intravvidi il grano cotto dentro delle vaschette di plastica. Preparò una busta di carta, pagai ma… mentre stava per porgermelo squillò il cellulare. Quello si appartò nel retrobottega. Aspettai per qualche minuto ma, poiché la faccenda andava per le lunghe, afferrai un sacchetto e me ne andai. Arrivato a un incrocio, mi voltai e notai uno strano tipo in fondo alla viuzza che gesticolava, ma era troppo distante per udirlo. Temendo una rapina affrettai il passo. Con la coda dell’occhio lo vidi correre verso di me, allora anch’io mi diedi alla fuga. Quello più agile e più giovane ben presto mi raggiunse e tentò di portarmi via il sacchetto, farfugliando con un accento dell’est. Feci resistenza. Lo sconosciuto con il viso furente e deformato dall’ira estrasse una pistola e me la lanciò addosso. Questa mi colpì in piena fronte, caddi di pesantemente di fianco battendolo contro il cordolo del marciapiede. Svenni, ma ebbi il tempo di vederlo estrarre dal mio sacchetto una mazzetta da migliaia di euro e infilarci qualcos’altro. Ripresi i sensi, iniziai a lagnarmi ma i radi passanti mi scansavano schifati come un appestato. Allora, mi rialzai a fatica con il maledetto sacchetto in tasca e camminando rasente al muro arrivai all’auto, dove m’accorsi della camicia insanguinata. Mi recai subito al Pronto Soccorso e lì dopo aver dato le mie generalità, svenni di nuovo e fui prontamente ricoverato. “Ahia, ohi!” smisi solo quando vidi comparire mia moglie che mi guardava con fare compassionevole e visibilmente preoccupata. La mandai subito a prendere il portafoglio in auto, pericolosamente in vista sul cruscotto. Quando rientrò sfoggiava un sorriso raggiante: -”Oh, caro, hai trovato il grano cotto! Domani assaggerai la mia pastiera!”. Non risposi. Chiusi gli occhi e finsi di dormire. Sentii solo l’infermiera che invitava gentilmente Clara, mia moglie, a lasciarmi riposare. La porta si chiuse con un soffio ed io soffocai una risata sul cuscino.
Tutta colpa della pastiera…è sempre stato uno dei miei dolci preferiti e trovandomi a Napoli nel periodo pasquale avrei trovato questa prelibatezza in qualsiasi angolo della città, sua patria di creazione. Avevo già una meta precisa: la pasticceria Poppella nel quartiere Sanità. Era una bella e calda giornata di sole ma l’aria resa frizzante dalla brezza marina mi invogliò ad incamminarmi per scoprire la città nel suo vivere quotidiano. Nel mio procedere però qualcosa mi turbò, qualcosa che nella sua normalità era ormai insolito: nessuno portava la mascherina.
Anche se, a ben vedere, non era l’unico fatto inconsueto. Le strade erano gremite di persone, ammassate gli uni contro gli altri, tutti parlavano, taluni urlavano, c’era chi si abbracciava, chi si baciava e si teneva per mano. Era incredibile! Di singolare c’erano anche l’abbigliamento e le acconciature delle persone che incontravo, sembrava di essere tornati indietro nel tempo e di essere finiti nel mezzo di un film in bianco e nero del secondo dopoguerra. I ragazzi poi ridevano e scherzavano e chiacchieravano o giocavano a pallone e nessuno teneva in mano uno smartphone o un tablet: assurdo! Ero perso in queste considerazioni quando giunsi alla mia destinazione.
Come tanti negozi che avevo visto sul mio percorso aveva le insegne di latta e le vetrine allestite in modo essenziale come se visual merchandising e marketing non esistessero. Stavo osservando l’interno del negozio quando per colpa di un mio brusco arretramento andai a sbattere contro qualcuno. Quando mi girai per chiedere scusa le parole mi morirono in bocca. Chi avevo di fronte mi stava guardando con severità, la faccia storta a dimostrare contrarietà. Mi ricordai di avere letto che non voleva essere chiamato col nome del personaggio che lo aveva reso celebre in tutta Italia e allora <<Le chiedo umilmente scusa, Principe.>>. I suoi occhi furono attraversati da un lampo di sorpresa, non saprei dire se per il mio accento lombardo o per come lo avevo appellato. Socchiuse gli occhi per studiarmi per un tempo che mi sembrò infinito, il suo sguardo era diffidente ma da persona intelligente qual era anche curioso. <<Cosa La porta nella mia bella Napoli? >> mi chiese infine. <<La città, i suoi monumenti, il suo mare, il suo cibo e i suoi dolci…>> risposi prontamente e con sguardo allusivo alla vetrina. <<I suoi dolci…>> ripetè, quasi più a sé stesso che a me e seguendo il mio sguardo. <<Sì, Principe. I vostri dolci sono eccezionali. Sfogliatelle, babà, zeppole ma per me il meglio è la vostra pastiera. >> dissi con entusiasmo. Entusiasmo che doveva averlo colpito perché un sorriso compiaciuto gli stirò un angolo della bocca. <<Allora venga con me. >> spalancò la porta della pasticceria e deciso entrò nel negozio. Tutti i presenti, dai commessi ai clienti, si girarono per guardare, e salutare, l’illustre cliente appena giunto.
Il proprietario del negozio si fece subito incontro per omaggiarlo e dette disposizioni per preparare immediatamente il miglior tavolo per il Principe e il suo ospite (cioè io!). <<Si dice che l’appetito vien mangiando, ma secondo me viene di più a stare digiuni. >> disse appena ci fummo seduti, lanciandomi un’ occhiata per vedere la mia reazione. Sorrisi cercando una frase sagace per ribattere ma tutto quello che riuscii a dire fu <<Io ho sempre avuto appetito ma non ho mai sofferto la fame. >>. Mi fissò, sorrise e ordinò una fetta (doppia) di pastiera e ‘na tazzulella ‘e café a testa perché a Napoli senza caffè non si può stare. Parlammo poco durante quella piccola merenda perché per Totó il cibo era sacro e bisognava trattarlo con rispetto. Improvvisamente mi venne una indicibile stanchezza, sentii le palpebre pesanti e crollai in un profondo sonno. Mi risvegliai nel mio letto, confuso e frastornato. Mi ritrovavo ancora nel mezzo di una pandemia mondiale, nel 2020. Era stato solamente un sogno. Ma il ricordo di quel sogno mi avrebbe aiutato ad affrontare le difficoltà.
“Tutta colpa della pastiera” esordì il Dott. Carson leggendo la cartella clinica di John. Sembrava ironica l’affermazione, infatti fece sorridere i presenti. Quando vennero letti i risultati del tossicologico però nessuno rise più.
“Talvolta, l’intossicazione avviene a scopo criminale da parte di qualcuno che intende uccidere o debilitare le sue vittime. I preparati usati per indebolire un individuo possiedono proprietà sedative o amnesiche oppure entrambe, addirittura letali. La sintomatologia dell’avvelenamento varia in base al tipo di sostanza e come avrà potuto constatare, inizia subito dopo l’ingestione, per farla breve, Mr. Ford le è andata bene. Il cianuro è, indubbiamente, il veleno che ha ucciso più persone al mondo…basti solo pensare alle vittime del nazismo…questa però è altra storia… ringrazi i suoi amici”
John trascorse la convalescenza nella sua casa di New York, accudito da Maria la domestica di origine Napoletana. Dalla sua camera si vedeva Central Park, a dicembre il Wollman Rink era affollato dai pattinatori e lui si sentiva coccolato dalle luci natalizie. Quella sera si assopì presto davanti alla tv, riaprì gli occhi svegliato dall’urlo di Joan Fontaine in Rebecca la prima moglie. Con la coda dell’occhio percepì un movimento in direzione della sala da pranzo. “Maria! Sei tu?”. Il silenzio. Si ricordò che il venerdì Maria aveva la serata libera.
Nonostante la spossatezza, raggiunse la sala, accendendo una dopo l’altra le luci che incontrava lungo il suo spostamento. Non c’era nessuno. Senti però un vento gelido provenire dalla finestra della cucina. La trovò spalancata. Udì un rumore metallico provenire dalla scala antincendio. Lo stesso delle monete che cadono dai jeans mentre li appoggi sulla poltrona della camera. L’aria fredda gli tolse il respiro, chiuse.
Il mattino dopo passando davanti alla cucina, guardò con diffidenza il bagel sul tavolo che avrebbe giurato di non aver visto la sera prima. Prese il cappotto sotto il braccio, era in ritardo all’appuntamento con l’ispettore Cooper, fu in quel momento che notò una lettera spuntare dalla tasca. Conteneva un ritaglio della piantina di Manhattan, evidenziato un reticolato di vie, in particolare spiccava 129 Mulberry St – Da Gennaro – Little Italy.
Al dipartimento rimase giusto il tempo pe sentirsi dire che non avevano indizi riguardanti il suo avvelenamento.
Il quartiere italiano non era distante, la cucina di Gennaro era già aperta.
Mentre attendeva di essere servito, gli cadde l’occhio sulle confezioni del take away. La pastiera proveniva da li. Intanto vide Maria attraversare il cortile esterno del ristorante. Si domandò perché fosse li. Con la scusa della toilette, cautamente la seguì in quello che appariva il deposito delle derrate alimentari. Sugli scaffali pacchi di pasta, olio, scatolame. L’ambiente era rumoroso, dalla centrale termica provenivano voci di donna, qualcuno disse “Joe mi ha fatto avere altro cianuro, ho farcito il bagel. Non temere lo avrà mangiato a colazione”.
John rabbrividì. Si insinuò nella sua mente un solo pensiero: scappare. Purtroppo qualcosa glielo stava per impedire. Dapprima senti un ruggito, un ruggito di un leone che gli fece perdere contatto con la realtà poi arrivò un colpo ben assestato alla schiena, cadde rovinosamente su un bancale di farina. Non si rialzò.
Si risvegliò nel medesimo ospedale che l’aveva curato dal tentato veneficio, davanti al dott. Carson. “Giudice Ford quanti santi conosce in paradiso?”
Entrò in stanza Morgan. “John alla prossima domestica, almeno chiedi la carta d’identità. Ti sei portato in casa la sorella di Joe Gallo1 della famiglia Profaci. Ti dice niente? Immagino di si, considerato che proprio tu l’hai condannato. Sei finito in quello che viene chiamato The dormitory, quartier generale della mafia, sorvegliato da Cleo, il leone. Da tempo stavamo investigando sui traffici illeciti gestiti dal carcere da Gallo. John essere riusciti a salvarti è stato un colpo di fortuna. Quando hai lasciato il commissariato ti è caduta la lettera, a quel punto è stato facile…”.
1 Personaggio realmente esistito, così come è esistito Cleo, il leone ed il “the dormitory”.
Napoli, 7 Marzo 1570
“Tutta colpa della pastiera …”
Sorella Marta stava pasteggiando nervosamente intorno al chiostro e borbottava frasi incomprensibili che si concludevano sempre con quelle parole detta a voce alta: “Tutta colpa della pastiera!”. Le consorelle la guardavano stupite e divertite mentre recitavano le lodi.
Sorella Marta era la cuoca del convento di San Gregorio Armeno e due volte l’anno aveva anche il compito di confessare i forestieri, in genere pastori, che giungevano in città per la Pasqua. Era un momento molto particolare per il convento: l’autunno dell’anno precedente i vescovi radunati a Trento per il santo consiglio avevano decretato che le suore di San Gregorio si sarebbero dovute chiudere in stretta clausura. Sorella Marta non aveva accolto la notizia con favore. Per lei uscire due volte alla settimana per andare al mercato, scegliere con cura gli ingredienti più freschi e percepire la soddisfazione a tavola delle consorelle era la soddisfazione più grande.
La Badessa, Giulia Caracciolo, le si avvicinò con dolcezza, perché sapeva come prenderla.
“Che cosa vi angustia, sorella Marta?”
“Oh Badessa, ieri ho assolto al mio compito e ho confessato due pastori. E sapete cosa mi hanno detto?
No, non posso! Violerei il vincolo della confessione!” disse facendosi il segno della croce e abbassando il capo.
“Parlate, non temete. Sono certa che troverete le parole giuste”.
Sorella Marta, sollevata, disse: “Durante la confessione ho sentito un profumo delizioso uscire da un cesto. Ho chiesto al pastore che cosa portasse e lui mi ha detto che era ricotta fresca!”
“E dunque?” chiese la badessa incuriosita.
“Sa dove la stava portando? In spiaggia! Questa notte porteranno in dono alla Sirena Partenope i doni della terra, li abbandoneranno sugli scogli e al mattino dicono che troveranno la pastiera pronta! Ma si rende conto? Nel XVI ancora questi riti pagani? Tutta colpa della pastiera!”
“Marta, sorella mia! Anche la nostra chiesa di San Gregorio dicono che sia stata edificata su un tempio dedicato alla Dea Cerere. Dobbiamo pregare, pregare e ancora pregare perché il Signore venga ad illuminare le menti. A Dicembre di quest’anno farò i voti solenni e noi entreremo in clausura. E allora sarà ancora più importante fidarci dell’opera del Signore!”
Sorella Marta ascoltò con attenzione le parole della badessa.
“Grazie Madre, come sempre lei mi ha illuminata!”.
Quindi in modo un po’ goffo e tenendosi la gonna tra le mani corse via verso le cucine.
“Non saprò parlare o fare bei discorsi ma so cucinare. Ed è quello che farò!”, disse bofonchiando.
Per tutto il giorno non uscì dalle cucine e lasciò che a preparare i pranzi fossero le sorelle che la aiutavano in cucina. Sembrava infervorata.
Quella sera, dopo i vespri, si recò dalla badessa con in mano un vassoio coperto da un panno di cotone bianco.
“Sorella Marta, è tutto il giorno che non vi vediamo! Cosa mi portate?”
“Badessa, le sue parole mi hanno illuminata. Lei mi ha rivelato che la nostra chiesa è costruita con le pietre e le colonne del tempio di quella antica Dea pagana non è vero?”
“Certamente, ma …”
Sorella Marta sollevò il panno e mostrò la pastiera ancora calda.
“Ecco, ho usato gli stessi ingredienti di quella ricetta pagana e ne ho fatto un simbolo della Pasqua: le uova, simbolo della Rinascita di nostro Signore, la farina è il pane spezzato nell’ultima cena, i fiori d’arancio del matrimonio di Gesù con la Chiesa, il burro è dei pastori che furono i primi ad onorare nostro Signore …”
“Sorella Marta, anche se non tutte le simbologie sono corrette dal punto di vista teologico, devo ammettere che avete avuto un’idea magnifica. Durante le prossime due settimane di quaresima voglio che prepariate quante più pastiere potete!”
Il giorno di Pasqua le sorelle del convento uscirono tutte insieme per le strade di Napoli, regalando a tutti fette del ‘nuovo’ dolce e illustrando uno a uno gli ingredienti cristiani che lo rendevano sacro. Non tutte le sorelle seppero spiegare cosa ci fosse di così diverso dalla antica pastiera che conoscevano tutti. Ma il loro fervore, il giorno di Pasqua e il fatto che fosse l’ultima volta che tutte insieme uscirono dal convento resero l’evento memorabile e scolpito per sempre nella memoria della città.
Sorella Marta ora sentiva di poter accettare la clausura.
(in atto unico)
PERSONAGGI:
FELICE padrone
ANTONIA sua moglie
ELIA capraio ed ex professore
MEDICO
OTTAVIA governante
PODESTÁ
GIULIA sua moglie
CUOCO
SERVITORE
SCENA I Sala da pranzo
Felice e il medico
Entra Felice malfermo e lamentoso
F: Tutta colpa della pastiera, che un improperio di mia moglie sul ginocchio buono, mi pareggiò quello fesso, così che nacqui claudicante e mi trovo dinoccolato
M: Che succede signor Felice?
F: Quest’oggi riceviamo sindaco e consorte
M: … all’ora del tè
F: Appunto.
Antonia, mia moglie, s’è fitta in capo che per ben figurare
M: … si faccia la pastiera
F: Predite?
M: Desumo
F: Dianzi la notizia, diedi ordine di portar a vender tutte le uova, imperciocché
M: … s’infuriò, è chiaro.
Ma una cosa da medico non comprendo: un improperio offende l’animo, non un ginocchio
F: Antonia lo sapete è tanto minuta, da dover saltellare per arrivarvi al mento,
M: Appunto.
F: Ma assunse una governante che le fa da fodero e da ombra.
Ora succede che quando la piccoletta insceni un colpo, l’altra lo traduca in compimento
M: Ma no!
F: Proprio così vi dico! E quando Antonia fece il gesto calciando l’aria, Ottavia mi aggiustò il ginocchio
M: La faccenda è seria, grave, insomma critica
F: Uccidetemi!
M: Ippocrate lo vieta
F: Anche di rimanere?
M: No certo
F: Dunque è deciso, rimarrete.
Escono
Un servitore aggiunge due sedie
SCENA II Pollaio
Felice, Elia, Antonia e Ottavia
Ondeggiando come un vascello in tempesta, Felice prese verso il pollaio e sì che mai le sventure vengan sole, Elia gli si unisce in spedizione
F: Non ho mai capito perché abbiate voluto lasciar la cattedra
E: “Il vantaggio della vecchiaia è di fare un uso più ardito della vita1”
F: Fatico a comprendere il vostro senso di ardimento, ma spiegatemi piuttosto come muovere a covar una gallina, quando ha appena deposto?
E: “La sottrazione di benevolenza è un castigo che eccita l’emulazione2“
F: …sarebbe a dire?
E: Battetela ed avuto il suo timore, farà quanto le mostrerete di fare. Vedete, per ricoverare le capre, prima uso il bastone, poi entro primo nell’ovile
F: Quindi… dovrei mettermi a covare?
E: Precisamente
F: Giammai!
Silenzio e gioco di sguardi
F: Vi giuro che se lo dite a qualcuno…
E: Quello che accade nel pollaio, rimane nel pollaio
Antonia entra nel pollaio con Ottavia: vede Felice in atto di covare
A: Priamo Dardanide!
Almeno gallo, non gallina!
Antonia simula un ceffone, Ottavia lo assesta crollando Felice dalla cova
SCENA III Cucina
Gli stessi più cuoco e servitore
Felice entra barcollante e lamentoso, una mano all’orecchio. Il cuoco è disperato
F: Avete tutti gli ingredienti!
C: Si, ma non si può
F: Ssh per l’amor del cielo, trovate una soluzione!
C: Non è la soluzione che manca, ma il tempo
F: (Ad Elia che misura la cucina a grandi passi) di grazia, fermatevi!
E: UNO – DUE – QUATTRO lasciate fare a me che son professore
F: Lo eravate… e di lettere non di geometria
Elia svuota la credenza di ogni recipiente ed esce
Antonia entra con Ottavia al seguito
A: Ettore massacratore!
Bricchi, ciotole, terrine, barattoli, vasetti, speziali. Tutto m’avete tirato per aria!
Elia rientra con un lungo asse, Antonia s’infuria e fa per tirare un pugno a Felice, che evita Ottavia e chinatosi sulla moglie, le fa una linguaccia. Antonia gli infila un dito nell’occhio.
Trambusto.
C: Basta me ne vado!
A: Guai a te se non vedo la pastiera in tavola!
O: (Grugnisce)
F: Uccidetemi!
Escono
Rimane Elia che confabula col servitore
SCENA IV Sala da pranzo
Tutti
P: (Al pubblico) Carissimi elettori, il ciel vi riservi quanto meritate!
F: (Sottovoce) Appunto…
A: Che magnifico oratore
F: Che ruffiano ciarlatore…
S: Il signor Ippocrate non è arrivato
Felice gli tira uno scappellotto. Vien tolta una sedia
F: Entrino tè e pastiera!
Elia ed il servitore escono e rientrano col lungo asse, su cui son riposti tutti gli ingredienti disgiunti
Il servitore prende a comporre ogni piatto con piccole dosi da ogni recipiente
Antonia si sente mancare e Ottavia tituba se cadere
Nel trambusto, assaggiano.
P: Divino, magnifico!
G: Incomparabile!
M: Per Ippocrate!
S: Non temete, ne avanza…
Antonia si riprende, Ottavia s’ingozza
E: Amor ordinem nescit3
A: Che significa?
F: Che la somma farà il totale, ma gli addendi la differenza
Antonia abbraccia Felice, Ottavia Elia
– Fine –
1Seneca
2Don Bosco
3San Gerolamo: l’amore non conosce ordine
Tutta colpa della pastiera. Questo pensiero mi isola da ciò che mi sta attorno. Sono in una bolla, i rumori e le voci delle persone non arrivano qui dentro. E le immagini scorrono dall’inizio.
Avevo venticinque anni e Claudia ventitré; lei era davvero bella, una ragazza campana, capelli neri, carnagione scura, fisico agile. Fisicamente il mio ideale.
Eravamo usciti quattro volte, poi, a Pasqua, mi aveva invitato ad andare a casa sua. Un salto nel pomeriggio per il dolce, niente di formale. In effetti, quando arrivai non mi sentii a disagio; il padre e la sorella erano davvero simpatici e alla mano. La cosa che mi turbò un po’ fu lo sguardo della madre. Mi guardava come Willy Coyote quando si immagina il road runner già cucinato come un pollo arrosto. E il suo sguardo raggiunse il culmine dell’intensità quando mi offrì una fetta di pastiera. Per me, ragazzo del nord, quella era la prima esperienza con questo dolce. Mi approcciai diffidente. Ricordo la sensazione di quel primo incontro come se fosse ora. Persi ogni contatto con la realtà. Le urla di piacere delle mie papille gustative avevano sovrastato gli altri sensi. La mamma di Claudia parlava e sorrideva, ma io ero fuori dal mio corpo. In estasi. Finita la prima fetta, ne accettai una seconda. La signora mi aveva in pugno.
In effetti continuai ad uscire con Claudia. E mi resi conto che era insopportabile.
Le conversazioni erano molto noiose; aveva due risate: una unta e l’altra di plastica, e poi si lagnava di tutto. Del posto al cinema, del tempo, dei regali, delle giornate lavorative, dei week-end… I miei amici iniziarono ad evitarmi quando ero con lei. Avevo raccontato loro com’era andata e, naturalmente, non erano mancati gli sfottò:
«Ti sei innamorato di lei o della pastiera?»
E giù a ridere. Iniziarono a chiamare Claudia “la pastiera” in sua assenza.
E io non ero capace di lasciarla. È una cosa che non so fare; sono un ignavo del sentimento. Le possibili reazioni di una persona ferita mi spaventano fino a perdere la ragione. A volte mi dicevo che ce l’avrei fatta, che l’avrei mollata, ma niente. Una volta ci ero quasi riuscito, avevo iniziato la frase, ma lei aveva intuito qualcosa e si era messa a parlarmi di sua madre…niente. Uscii con lei per quattro anni, ma poi finalmente riuscii a lasciarla. Da quel momento feci di tutto per evitarla.
Continuavo però a vedere il padre, perché cantavamo insieme nel coro della chiesa. E questo fu fatale.
Non stavo più con Claudia da due anni. Il mercoledì prima di Pasqua, il padre invitò tutto il coro a casa sua per una fetta di dolce…Io accettai perché, ovviamente, non fui in grado di fare altrimenti. E così, in men che non si dica, mi trovai con una fetta di pastiera in mano. Quando, terminato il dolce, i miei sensi uscirono dal torpore, ero seduto sul divano e Claudia mi parlava mostrando tutti i denti. Io sorridevo inebetito dall’effetto della pastiera, e così ricominciammo a frequentarci.
Come la volta precedente, non ero in grado di rompere con lei. Mi ci vollero due anni per prendere la decisione di ubriacarmi e tradirla. Lo venne a sapere e si sentì costretta a lasciarmi.
Tornai a respirare. Uscire con gli amici, frequentare feste, andare a concerti…mai mi era sembrato tanto piacevole. Avevo trentatré anni ed ero felice.
Eppure ci cascai di nuovo.
Bastò incontrare la madre di Claudia in piazza pochi giorni prima di Pasqua, l’anno dopo. Bastò che lei mi dicesse «sali per una fetta di pastiera?»
Sentii un fremito sotto pelle. Non sono neanche certo di aver risposto. Mi rivedo salire le scale dietro la signora; vedo la porta che si apre e lei è lì, irresistibile, radiosa. La mia condanna è posata sul tavolo. Ancora da tagliare. Il ricordo successivo sono io che esco di casa con Claudia; saliamo in macchina e andiamo a cena in un ristorante del centro.
Ed ora eccomi qui. Non posso voltarmi per guardare le facce dietro di me; non posso dire niente. Da qualche parte dentro di me c’è la speranza che ci sia ancora tempo, che non finisca tutto qui. Ma sta per succedere…non posso evitarlo.
La bolla si dissolve, e le parole di Claudia mi giungono nitide dalla sua bocca e dall’impianto di amplificazione:
«Io, Claudia, accolgo te, Ettore, come mio sposo. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre…»
“Tutta colpa della pastiera!, maledetta pastiera! si muova”, mi dice una donna stizzita; la guardo in silenzio e vado avanti a muovermi molto lentamente mentre lei mi guarda con impazienza.
“deve avere pazienza signora, certi dolci hanno bisogno di tempo”, “non voglio sentire ragioni, ho bisogno di questo dolce immediatamente”; “perché tutta questa fretta?” mi azzardo a chiedere, “perché mi manca il tempo” mi zittisce lei.
Con molta calma continuo la preparazione di questo dolce, un ingrediente alla volta, ogni tanto alzavo la sguardo, lei guardava insistentemente l’orologio mettendomi fretta.
Una lunga pelliccia avvolgeva il suo corpo, folti capelli rossi riempivano le linee di quel viso sottile e il rossore delle sue guance fredde facevano risaltare i suoi occhi azzurri come il cielo, era entrata portando con se un profumo molto forte, forte come faceva intendere fosse il suo carattere.
Sono solito osservare le persone, mi chiedo perché una persona possa avere tanta frustrazione sulle spalle, cosa spingesse una persona la notte di Natale, ad un passo dal cenone con la propria famiglia a premere tanto per un dolce. “ci vorrà ancora mezz’ora, se vuole passare tra un po’ faccia pure “, sbatte i pugni sul bancone “lei è un incompetente, mi faccia parlare con il suo responsabile“ urla ; “sono io il mio responsabile “rispondo con molta calma, strizza gli occhi ed esce dal negozio, mi sento rincuorato.
Era la sera di Natale, stavo per chiudere il negozio quando questa signora era arrivata portandosi dietro tutta la sua ansia e la sua premura, mi aveva chiesto in modo molto sgarbato di farle questa pastiera e avevo acconsentito perché volevo fare un ultimo gesto buono prima di ritirarmi con la mia famiglia, ma lei era stata eccessivamente scortese e non si era neanche resa conto degli orari appesi sulla vetrina in cui era chiaro che il negozio era già chiuso gia da dieci minuti.
La guardo camminare avanti e indietro dalla vetrina, parlava freneticamente al telefono urlando “dovete aspettarmi!”, chissà, pensavo io, immaginando una tavolata di gente come lei, che aveva sbattuto i piedi per questo dolce adesso avevano magari la presunzione di non aspettarla per cena.
La pastiera era pronta, le faccio un cenno con la mano per avvertila, entra nel negozio sbattendo i soldi sul tavolo, prende il sacchetto ed esce dalla porta di corsa portandosi via la scia del suo profumo e il rumore dei suoi tacchi.
La guardo uscire ma la neve sciolta sul marciapiede le gioca un brutto scherzo e cade; rimane seduta lì, senza muoversi, esco velocemente e mi avvicino a lei, piangeva, le lacrime rigavano il suo viso truccato mandando via quella cera da persona cattiva che si era messa in faccia, aveva gli occhi di una bambina adesso, apro le braccia e la stringo, singhiozzava sulla mia spalla, la aiuto a rialzarsi e la accompagno dentro al caldo per farla asciugare; “perdonami” mi dice con una voce che non sembrava più neanche la sua, “la mia mamma è in un ospizio e dopo una certa ora non mi fanno più entrare, è malata di Alzheimer e non riconosce più nessuno, l’unica cosa che riconosce è la sua pastiera che per ogni Natale la sua mamma le faceva mangiare e io ogni anno vado a passare con lei il Natale, non mi riconosce, pensa che io sia una infermiera gentile, ma quando mangia questo dolce riesce a capire chi sono e tutti gli anni mi prende la mano urlando il mio nome come se mi rivedesse dopo anni”, il cuore mi si stringe. Decido di regalarle tutta la teglia di pastiera, le stringo forte la mano e le auguro un buon natale.
Spengo la luce del negozio, abbasso la serranda, non sarei tornato a casa uguale a come sono uscito.
Non bisogna mai giudicare una persona senza avere ascoltato la sua storia, bisogna sempre guardare con il cuore, bisogna vivere con la sensibilità di andare oltre, lo dobbiamo a questo mondo arido di amore.
Ho visto Clara per i tre Natali successivi, finché un giorno non l’ho più vista. Con il dolore nel cuore avevo capito e con la testa alzata al cielo una lacrima mi era scesa, ero grato che la mia pastiera aveva fatto ritrovare in qualche modo una madre ed una figlia.
Sono queste le cose che dovrebbero contare durane le feste, il cuore.
“Tutta colpa della pastiera…” disse Sveva mentre guardava con gli occhi che ridevano l’amica Lucia.
Un’immagine da fotografia, di pace, di unione.
Loro, due amiche, due donne, due storie, due complici nascoste dal tempo che le aveva allontanate.
Eccole, finalmente si erano ritrovate, dopo tanti anni di distanza, di silenzi naturali, ma non voluti.
Erano passati ben dieci anni dal loro ultimo incontro, ma l’empatia che le legava era tale come se quel lasso temporale si fosse improvvisamente annullato.
Erano lì, vicine, ancora. Finalmente dopo troppo, tanto tempo.
Ridevano, sorridevano e non riuscivano a trattenere l’emozione che provavano nel rammentare i momenti passati, come se gli eventi che le avevano divise fossero magicamente evaporati.
Eccole li, di nuovo.
Insieme.
Sedevano in un angolo di quella caffetteria in fondo alla via principale del paese.
Avevano scelto di occupare una posizione appartata, vicino alla luminosa vetrata da cui entrava un piacevole e timido raggio di sole.
Una posizione amena che si affacciava sul vasto e rigoglioso giardino all’italiana, donando loro la sensazione di essere nel parco, immerse nella natura circostante.
Si raccontavano, ponevano l’attenzione sul loro legame dimenticando improvvisamente tutti gli eventi che si erano delineati nel corso del periodo in cui erano state distanti.
Si erano ritrovate apparentemente più unite di prima con sogni e desideri inespressi, soffocati, esteriormente nuovi, ma terribilmente vividi.
I loro sessant’anni sembravano non limitarle, non si ponevano come quel fattore disincentivante che generalmente porta le persone a fermarsi, a sedersi, ad accantonare le vere ambizioni.
Loro due.
Solo loro.
Due donne con due matrimoni conclusi senza figli.
Due donne apparentemente sole.
Sveva e Lucia si guardavano mentre con la forchetta rompevano in modo disordinato, ma armonioso, la fetta di pastiera napoletana che avevano al centro del piatto, decorato con panna montata.
Tutta colpa di quel dolce, era stato, il loro ritrovarsi.
Il loro incontro era stato casuale, inatteso. Incalcolabile.
Era stato dettato dalla sola volontà di entrambe di gustare quel dolce napoletano che veniva realizzato nella Caffetteria Deliù tutto l’anno, non solo per la festività pasquale così come soleva la tradizione.
Sono naturalmente e inconsciamente attratte dal progetto non realizzato, ma sognato che avevano delineato dieci anni fa.
Ora però erano qui, le cose erano cambiate.
Il talento non le aveva abbandonate e le possibilità economiche, verosimilmente, erano tali da permettere loro la concretizzazione del desiderato atelier.
Sì, Sveva e Lucia avevano una forte attenzione verso l’artigianato artistico, quello Made in Italy, quello fatto dalle mani vere delle persone che toccano la materia e la plasmano trasformandola in qualcosa di nuovo, unico, regalandogli una nuova vita.
Passione per la ceramica.
Questo le legava ed era stato anche il motivo del loro primo e casuale incontro molti anni fa. Entrambe frequentavano un corso di artigianato in una piccola bottega di un anziano signore che mostrava loro come tramutare la terra in arte.
Avevano talento. Entrambe.
Una spiccata dedizione artistica al punto che partecipano ai un contest e lo vinsero.
La giuria riconobbe loro anche un premio, oltre che il talento.
In quel periodo alle donne venne anche proposto di iniziare a sviluppare un progetto proprio in quel campo, ma nonostante il loro interesse e desiderio di provare si ritrovarono a rinunciare.
Mariti padroni.
Avevano questa realtà schiacciante a cui dovevano sottomettersi, incapaci di reagire.
Oggi era diverso.
Entrambe avevano portato timidamente avanti l’attenzione verso questa produzione artistica e oggi erano pronte e libere per spiccare insieme il volo.
Dopo aver massacrato la pastiera con la forchettina d’argento, impreziosita dall’incisione riportante un angioletto, si alzano in modo sincronizzato e non programmato. Si diedero la mano, si guardano negli occhi e insieme affermarono “Se non ora quando?!”.
Sembravano due ragazzine con la concretezza che stavano iniziando a percorrere i primi passi verso la loro avventura imprenditoriale.
Tutta colpa della pastiera! Ciro O’Taccuino non entrava nelle case per arricchirsi o per necessità. Lo faceva per quei piccoli lussi che lo stipendio della ferramenta non gli poteva concedere. Una chiave la duplicava per il cliente, una la duplicava per sè. Lo chiamavano così perchè teneva un taccuino dove segnava nome e indirizzo di ogni chiave duplicata. Di fianco le note importanti: “formaggio buono”, “sigari ottimi”, “non entrare”. I carabinieri l’avevano trovato addormentato sulla poltrona nello studio di un avvocato, il lusso ed un buon bicchiere lo avevano tradito.
Danny l’inglese invece faceva il mimo, saltuariamente il borseggiatore. La sera del 14 marzo 2012 perse la testa e poco ci mancò che ammazzasse la moglie. Maria aveva trovato il coraggio di dirgli che lo aveva tradito mille volte e che non poteva più stare con un borseggiatore che faceva il mimo. A lui interessava poco della moglie, ma quella sera il Napoli perse 4 a 1 in casa degli inglesi con un gol all’ultimo minuto. Al goal degli inglesi perse la testa, la presenza della moglie fu una sfortunata coincidenza. Tornato in se chiamò i carabinieri spiegando il disguido, certo della comprensione per la qualificazione sfumata. Gli diedero 3 anni. Quella sera decise che da quel giorno avrebbe rapinato solo turisti inglesi.
Il terzo in cella coi noi era Mimmo Marzapane. La sua famiglia gestisce una storica pasticceria al Vomero. Si faceva chiamare Marzapane perchè amava quel dolce più di tutto. Una mattina con una fucilata aveva quasi staccato un braccio a suo fratello. Fin da piccolo non si era mai sentito figlio di suo padre, lui biondo e un pò bassino. Quei poster di Nino d’Angelo in casa, lei che andava a tutti i suoi concerti. Il tarlo si era fatto certezza, sua madre aveva tradito il marito. Il fratello conosceva la sua ossessione ed all’ennesimo “Nino facci una cantata” gli aveva sparato con la doppietta del nonno. Sono 2 anni che tutti i mesi chiede, invano, il test del DNA con il cantante.
Poi ci sono io. Innocente. Il classico errore giudiziario che a breve si risolverà.
Il piano per la fuga fu presto fatto. Saremmo usciti dalla finestra dopo aver tagliato le sbarre. Dovevamo solo tenere conto del fatto che ogni 12 settimane dovevamo, per regole carcerarie, cambiare cella.
Ciro O’Taccuino diceva di conoscere una lima che tagliava qualsiasi cosa, lunga come un cannolo e fina come uno stuzzicadenti! Aveva calcolato che ne servivano 12 per segare tutte le sbarre. Mimmo Marzapane l’avrebbe fatta nascondere nei cesti di marzapane che ci saremmo fatti portare ogni settimana. Danny l’Inglese a sua volta aveva rubato una mano finta dal laboratorio di tessuti. La mano finta teneva le sbarre, quella vera lavorava.
Arrivavano cesti di marzapane bellissimi. Una volta la lima era il tronco di un albero, un’altra uno spiedino. Faticavamo quasi a trovarla. Mimmo mangiava, Ciro faceva il palo e Danny alla finestra. Guardarlo mentre tagliava era magia.
Le settimane passavano, ma Mimmo stava cedendo. La quantità di marzapane era troppo anche per lui. C’era marzapane ovunque. Gli altri carcerati non ne potevano più, le guardie ne erano esauste. Avevamo intasato due volte gli scarichi cercando di buttarlo.
Arrivammo alla dodicesima settimana sfiniti. L’ultimo giorno però arrivarono due pacchi. Il primo conteneva il solito cesto di marzapane, il secondo una enorme pastiera ancora calda. Il papà di Mimmo voleva festeggiassimo l’evasione ormai prossima. Il profumo della pastiera invase tutto il corridoio. L’intero piano era in fermento, finalmente non c’era solo marzapane.
In quell’istante il guardiano capo si presenta alla porta: “finalmente non solo marzapane…e guarda che bella pastiera!”.
Lo guardammo impietriti come le statuine del presepe.
Facendosi largo, il guardiano capo afferrò uno sgabello e si sedette proprio sotto la finestra.
“Che, me ne offrite un pò?”; “Mimmo mi pari un pò pallido, che non stai bene?”. Danny non respirava più, Ciro barcollava.
Alla terza fetta di pastiera si alzò soddisfatto, sembrava alto 6 metri. Si girò verso la finestra per respirare a pieni polmoni, le mani ai fianchi per sollevare meglio i pantaloni. Impercettibilmente si sporse in avanti, la mano si allunga verso le sbarre…la finestra cede.
Tutta colpa della pastiera!
Tutta colpa della pastiera…
Se solo lui non avesse insistito così tanto per preparare quel dolce da portare a casa dei suoi per la cena di quella sera non ci saremmo ritrovati in quella situazione.
La batteria dell’auto morta. La neve che cadeva copiosa, oscurando la visuale. La strada semi deserta. Noi che attendevamo il carro attrezzi seduti in macchina, tremando per il freddo.
“Avremmo potuto fare un salame dolce,” mormorai sottovoce, con tutta l’intenzione di rigirare il coltello nella piaga. Dopotutto era colpa sua e di quella maledetta torta che aveva deciso di dover portare a tutti i costi, perchè sua madre la adorava. Era colpa sua, perchè anzichè accettare di preparare un altro dessert con ciò che avevamo in cucina aveva ripetuto che sarebbe bastato fare un salto al supermarket più vicino per comprare gli ingredienti necessari per la pastiera, e ovviamente quello schifo di auto che già funzionava a malapena aveva scelto quel pomeriggio per morire definitivamente.
“Sono sicuro che il carro attrezzi sarà qui a momenti…”
“Non è quello il punto.”
“E allora qual è?”
“Non mi ascolti mai!”
Lui si girò a guardarmi, serio come gli capitava raramente. “Non è vero. E non è colpa mia se la batteria ha smesso di funzionare. Meglio oggi che stasera al ritorno a casa, comunque.”
Certo. Comodo sviare sempre le proprie responsabilità. “Come no.”
“Non è colpa mia…” ripetè, sbuffando. “Credi che a me piaccia stare qui al gelo?”
Tacqui. Ero stufa. Di quella situazione, di lui. Di tutto.
Sputai fuori le parole con rabbia e acredine. “Credo che dovremmo separarci.”
La nostra convivenza era durata un anno e mezzo, anche troppo per i miei gusti. Avevo tentato di ignorare quello che era ovvio a tutti quelli che non fossero ciechi: lui ed io semplicemente non eravamo compatibili. Ci avevo provato davvero, con tutta me stessa, ma non puoi certo forzarti e costringerti ad amare qualcuno, o no? Forse una volta non avevamo scelta. Una volta le donne non potevano fare altro. Dovevano sposarsi e guai perfino a pensare alla parola divorzio.
Ma nel 2020 ragionare così non era più tollerabile.
Se non fosse successo quel giorno sarebbe stata la settimana seguente. O il mese dopo. Ma prima o poi sarebbe successo e ormai nemmeno i bei ricordi potevano sviarmi dalla mia decisione.
Lui mi pregò di ripensarci, sostenne che eravamo entrambi semplicemente stanchi, oberati e stressati dal lavoro, che avevamo solo bisogno di staccare la spina o fare una vacanza insieme.
Ma era ovvio che non fosse così. Era lampante che ciò che c’era stato tra noi era morto e sepolto da tempo. E francamente non mi importava più. Ero esausta. Volevo scrollarmi di dosso quelle catene che percepivo sempre più pesanti e vincolanti ogni giorno, volevo respirare a pieni polmoni, volevo provare di nuovo quella sensazione di libertà che ormai ricordavo a malapena.
Tutta colpa della pastiera?
O forse tutto merito della pastiera.
“Tutta colpa della pastiera… si nun pòzzo vverè eccriatur“
Due marmocchi di 5 e 7 anni, capelli ricci e arrugginiti, lentiggini ammonticchiate sulle gote, vestiti come gemelli: calzoni alla zuawa, camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, aderente sul grande, non per moda, ma per i kili di troppo, abbondante sul minore, perché precocemente ereditata. Giacca di velluto dalla maniche lise e gomiti rattoppati in tinta coi pantaloni, papillon nero a pois bianchi, reduci da chissà quale altra precedente cerimonia.
Picchiettando nervosamente la punta della scarpe luride sull’inginocchiatoio della panca che ospitava oltre loro il cugino e la cugina, attirarono più di uno sguardo indispettito.
Pasquale o’ cecat , seduto alle loro spalle, cadde sulle ginocchia come folgorato sulla via di Damasco, incurvò la schiena appoggiando gli avambracci sulla panca dei monelli, guardò in alto quasi a cercar approvazione o più probabilmente portandosi avanti nel chieder perdono, prese tra il pollice e l’indice l’orecchio sinistro del piccolo Mimì e quello destro di Ciro, li avvicinò alla propria bocca, fiatandogli due sole parole, non prima di avergli fatto fare un quarto di giro dell’orologio: “A firnimm?”
Gli orecchi de ccriatur, -come amava chiamarli lui- divennero anche più rossi dei capelli. Due grosse lacrime silenziose bagnarono le guance di Totò, mentre Ciro gli stringeva la mano a cercar di consolarlo, rimanendo con lo sguardo fisso al tabernacolo.
Alla fine della funzione, le mani di Pasquale brancavano questa volta la destra e sinistra dei due fiammiferi ambulanti. Dimenticato il bruciore gli uni, e ottenuto il perdono l’altro, si incamminarono sulla piccola via laterale dai mille rivoli ancor più piccoli. Un budello dal ciottolo antico e sconquassato, che ospitava i banchi vecchi: piccole botteghe con mezza vetrina, per lo più corrispondente alla parte fissa della porta d’ingresso, ancora in legno massello, verniciate e riverniciate dozzine di volte nell’arco della loro vita, ora verdi, ora ocra, ora caffelatte, dal crepitio croccante all’apertura, che vien da chiedersi come fanno a starsene ancora in piedi.
Telai di biciclette mutilate recluse forse per l’eternità da una catena al lampione, vecchie comare col fazzoletto in testa su sedili di paglia a vender sigarette di contrabbando, motorini promossi a minipullman, Fiat Ritmo a gas, elevate alla più blasonata motorizzazione Abarth.
O’ cecat amava perdersi tra quei rivoli la domenica mattina, dopo la messa.
Figlio di poveri contadini del casertano richiamati sotto il Vesuvio dai segnali di fumo delle ciminiere delle industrie, lo era diventato anche più, quando a vent’anni ingravidò Gerardina, figlia di Maria a’ castagnar e toton o’pescatore, occupanti altre due stanze, nella corte do Scuppulid, dove era cresciuto.
Svoltato l’angolo si ritrovarono aderenti alla porta a vetri di una bottega nella quale si poteva vedere frontalmente, un banco straripante di sfogliatelle, babà, zeppole e su tutta una grossa pastiera. Fu proprio quella che inchiodò le scarpe di Mimì alla vetrina.
Due occhi di cerbiatto, lucidi e gonfi, scintillanti quanto i capelli, incrociarono quelli di Pasquale.
Complice la terza elementare, capì subito che fitto, bullett e cambiali non gradivano la pastiera.
Il volto si rabbuiò, gli occhi si iniettarono di sangue. Strattonò nervosamente Totò e riprese a passo ben più sostenuto il ciottolo che si faceva in salita, perso in chissà quali pensieri.
Saranno trascorsi 15 minuti, quando si accovacciò, appoggiò le braccia sulle spalle dei due a formare una combriccola, bisbigliò qualcosa velocemente, si rialzò e tornò sui suoi passi a grandi falcate, a rischio di scapicollare sul selciato impervio, lasciando i ragazzini in mezzo alla strada.
Dopo quasi un’ora eccolo riapparire. Trafelato, madido di sudore, correre in salita con un la pastiera in mano, senza incarto, senza confezione, rimasta miracolosamente in equilibrio nonostante i tranelli nascosti tra i ciottoli.
Confidava di dileguarsi nei mille rivoli, confidava di far nascere un sorriso ai ccriatur, ma queste, lasciate sole in mezzo alla strada, erano già in compagnia di due Carabinieri ai quali non dovette nemmeno dar risposte, perché già raggiunti dal commesso della pasticceria.
24: e’ gguardie
Tutta colpa della pastiera..e non era Pasqua. A Napoli la pastiera la facciamo tutto l’anno, ma principalmente nel periodo pasquale, non so perché, non so quale sia la relazione, so che a casa mia le pastiere nel forno a legna venivano fatte il venerdì santo, tutti insieme, la nonna, mia mamma, mia zia.
Segnavano l’inizio delle feste, che poi le feste pasquali, non sono come quelle natalizie, durano molto meno, ma di solito è primavera, e il sole, l’inizio del caldo, le danno quel sapore di leggerezza, anche se tutto potrei dire, tranne che la pastiera sia un dolce leggero, anzi.
Non era Pasqua, però, e non era neanche Natale, se ci voglia una festività per fare un dolce tradizionale, io non lo so, so solo che era il 1 dicembre di un anno qualunque, un anno pesante, malinconico ed incasinato, un anno che avremmo ricordato per molto tempo.
Aveva piovuto tutto il santo giorno, faceva un freddo cane e tutto preannunciava che di lì a poco, sarebbe nevicato.
La mia giornata era passata tra la lettura di mail di lavoro e qualche puntata di una nuova serie su Netflix, innumerevoli caffè, qualche telefonata, insomma, niente di speciale, la noia piano piano si stava impossessando di me, non avevo neanche voglia di leggere, forse, l’unica soluzione sarebbe potuta essere, andare a dormire e sperare che in questo modo, quel giorno finisse molto prima.
C’era un’irrequietezza che mi aveva accompagnato per tutta la giornata, quella sensazione che stava per accadere qualcosa, non so spiegare, una sorta di agitazione mista ad attesa, qualcosa che sembrava non arrivare mai, forse, volevo solo che quel giorno finisse, forse, era quella l’attesa, la fine di questa insulsa, monotona giornata.
Erano circa le sette di sera, poca voglia di cucinare, poca voglia di mangiare.
Ad un tratto, nel silenzio generale, quel silenzio che accompagna l’arrivo della neve, sentii il rumore del citofono, qualcuno aveva bussato e non aspettavo l’arrivo di nessuno.
Tirai su la cornetta del citofono prima di aprire, chiesi più volte chi era, ma dall’altro lato, nessuna voce, solo il rumore di qualche auto che passava. Riagganciai la cornetta, pensai che fosse passato qualcuno a fare uno scherzo o magari qualcuno che non stava cercando me, diedi poco peso alla cosa, avranno sbagliato, non avevo la minima intenzione di andare a controllare di sotto, col freddo che c’era, poi.
Alla fine decisi che era il momento di cucinare o almeno di riempire lo stomaco.
Aprii il frigo e tirai fuori le prime due cose che i miei occhi videro, frigo vuoto come la mia vita, pensai. Vuoto, dopo tanto riempire, mi ci ero messa io in quella situazione, avevo cominciato a togliere per fare spazio, eliminare impegni, eliminare appuntamenti, eliminare persone e così piano piano, lì dove non c’era spazio, si era creato un vuoto, quello stesso vuoto che vedevo nel mio frigo.
I pensieri cominciavano ad affollarsi ed una sensazione di malinconia aveva fatto ingresso nella mia testa e nel mio cuore, senza chiedere permesso, ovviamente.
Decisi che dovevo trovare un modo per distrarmi, accesi la radio e c’era una canzone napoletana, una di quelle che in quel momento proprio non ci stava. La spensi e, nonostante il freddo pungente, pensai di nuovo al suono del citofono, chissà chi era.
Non aveva molto senso andare a controllare, visto che era passata più di un’ora, ma lo feci lo stesso, infilai il cappotto, scesi le scale e andai giù.
Magari c’era qualche traccia, era un pensiero stupido, ma il bisogno di non pensare mi spinse ad aprire il portone e lì, in mezzo al deserto della strada ed al primo manto di neve, c’era un pacco, un pacco con carta colorata.
Non avevo ordinato nulla, ma sul pacco c’era il mio nome. Che strano, era il corriere e non aveva bussato. Nell’ultimo periodo avevo ordinato tantissime cose, cose che forse mi servivano, o forse, no, forse servivano solo a riempire il vuoto che io stessa avevo creato ed ormai avevo una sorta di confidenza con i ragazzi che mi portavano le cose; tutto ciò mi sembrò ancora più strano.
Non era un pacco pesante, dalla forma provai a capire cosa potesse esserci dentro, ma mi mancava l’immaginazione, non era stata una bella giornata.
Lo appoggiai sul tavolo e dentro c’era qualcosa di buono, da mangiare. Era una pastiera e sul bigliettino c’era scritto : “Torna a casa! Mamma”
Tutta colpa della pastiera di Ester. Nessuno sapeva dove avesse imparato a farla, visto che era nata e vissuta in un paesino dei Colli Euganei. Nessuno dei suoi concittadini ne aveva mai assaggiata una oltre la sua, ma tutti erano pronti a giurare che quella di Ester fosse la migliore del mondo. Ne cuoceva una dozzina al giorno che poi rivendeva al negozio di dolci del paese. Arrivavano da tutte le città vicine per comprare la sua pastiera.
Si narrava che fosse grazie alle torte di Ester che il pasticcere manteneva il figlio all’università.
Anche in quella notte di dicembre ne aveva preparate una decina per salutare i suoi compaesani.
Una settimana prima infatti Ester aveva ricevuto una lettera da Padova in cui le veniva intimato, in quanto ebrea, di presentarsi in Questura. C’era sempre stata una piccola ma solida comunità di ebrei che viveva sui colli. Alla proclamazione delle leggi razziali la maggior parte era fuggita all’estero, alcuni erano scomparsi. Solo lei era rimasta. Non si era mai sposata e non aveva altri parenti. Il suo paese era la sua famiglia. Uno ad uno quella notte bussarono alla sua porta il medico, il farmacista, la maestra, il parroco e tutti gli abitanti. Entravano, prendevano una fetta di pastiera e la salutavano abbracciandola. Il medico, tra un boccone e l’altro, malediva il governo fascista. La giovane maestra non riusciva a smettere di singhiozzare.
“Dobbiamo fare qualcosa” gridò il dottore all’improvviso, battendo i pugni sul tavolo.
“E cosa vorreste fare?” chiese il Podestà, comparso alle sue spalle.
Tutte le voci si placarono di colpo.
Ester gli sorrise, porgendogli una fetta di pastiera.
L’uomo aspirò il profumo di canditi che usciva dal dolce ancora caldo. “Tutto questo mi mancherà.”
“Allora fai qualcosa” gridò il medico.
Il Podestà lo guardò di sbieco, masticando lentamente. “È la legge” disse.
“Io ci sputo sulla vostra legge!”
“Farò finta di non aver sentito” sussurrò “solo perché hai fatto nascere i miei figli.”
“Ester” sibilò il dottore indicandola “teneva ferma tua moglie mentre io tiravo fuori i tuoi figli. Ricordalo!”
“Ora basta” sussurrò lei. “Siamo qui per salutarci. Domani me ne andrò e non so quando o se tornerò. Quindi questa potrebbe essere l’ultima pastiera che mangiamo assieme. Non avvelenatela, per favore.”
Il via vai a casa di Ester continuò fino quasi all’alba. Alla fine delle pastiere non rimasero nemmeno le briciole.
La mattina successiva tutto il paese si riunì per accompagnarla in stazione, ma di lei non c’erano tracce. Se n’è andata da sola, pensarono. Dopo un paio di giorni però un gruppo di fascisti comparve in paese chiedendo di Ester. Non si era presentata a Padova e nessuno aveva più avuto sue notizie. Il Podestà li accompagnò casa per casa. Perquisirono ogni singola abitazione, convinti che qualcuno nascondesse la donna ebrea, ma non trovarono nulla.
Alla fine radunarono tutti i cittadini nel piazzale della chiesa. Erano decisi a trovare Ester e non si sarebbero fermati.
“Tutto questo per una vecchia?” chiese la maestra “Non avete una guerra da combattere o l’avete già persa?”
Un soldato fece un passo verso di lei, ma fu fermato dal Podestà. “Ora basta. Non vediamo Ester dal giorno in cui ha ricevuto la lettera” mentì.
Il medico e il farmacista si guardarono increduli.
“Sono quasi due settimane che nessuno sa niente di lei. Si è certamente rifugiata da qualche suo parente ebreo” continuò.
Alla fine i soldati si arresero e abbandonarono il paese.
La vigilia di Natale il pasticcere, non riuscendo a dormire, se ne stava alla finestra guardando la neve che cadeva.
All’improvviso vide un’ombra che attraversava la piazza in direzione della pasticceria. Si mise una coperta sulle spalle e uscì di corsa. Quando arrivò davanti al negozio trovò solo una grande scatola da cui proveniva un profumo di ricotta e canditi. Fece il giro della piazza, giusto in tempo per vedere la piccola figura scura che sgattaiolava nel capanno affianco al municipio.
Entrò. Una luce fioca illuminava la stanza. In un angolo Ester e il Podestà sgranavano pannocchie. “Sei sempre stata qui?” sussurrò.
“È colpa della sua pastiera” sorrise il Podestà, porgendogli una fetta di torta. “Davvero pensavi che ci avrei rinunciato?”
Tutta colpa della pastiera…ancora ci penso…era il 1988, mancava una settimana a Pasqua.
Io avevo anticipato la chiusura delle lezioni universitarie ed ero giù in Calabria dai miei.
Belle giornate quell’Aprile! Da godersele al mare. In casa fervevano i preparativi, soprattutto culinari. Mamma, insegnante ormai in pensione, si dava da fare in cucina come se avesse dovuto sfamare un esercito e non quattro persone. L’abbondanza non aveva limiti quando si trattava di festeggiare. La fantasia di mamma, che da giovane avrebbe voluto recitare in teatro, si esaltava trovando sfogo tra i fornelli, dopo una vita avvolta fra le nebbie scolastiche e tra le radici di casa!…
Da buona meridionale, mia madre, ci teneva ad evidenziare con il cibo la sacralità della festa religiosa. Da altrettanto buona tradizionalista, non poteva a Pasqua far mancare, a tavola, il dolce tipico del sud, la pastiera!
Gli ingredienti per la pastiera c’erano quasi tutti, mancava solo la ricotta che mamma avrebbe acquistato il giorno prima della preparazione. Io avrei voluto essere presente alla messa in forno della pastiera, non foss’altro per rifarla per conto mio, una volta rientrato a Pisa, così avrei dato sfoggio davanti ai miei amici di una conoscenza culinaria unica. Venerdì, primo Aprile, mi alzo presto. La giornata è calda e serena, mi sento eccitato e volenteroso di darmi da fare…manca la ricotta…mi propongo di andare io a comprarla ed esorto mia madre ad aspettarmi, di non iniziare senza di me. Quattro/cinquecento grammi di ricotta? Decido di prenderla il più vicino possibile, preoccupandomi di fare al più presto. Non avevo previsto però, che quel giorno, in tanti avrebbero deciso di fare la spesa. Il negozio era intasato. Vado da un’altra parte. Stessa confusione. Mi metto l’animo in pace e aspetto il mio turno. La ricotta era l’ingrediente più richiesto, tanto che inizia a preoccuparmi che non ne rimanesse per me. Sbuffavo ed ero insofferente. Mi agitavo. Ma mi armai di pazienza ed ebbi la forza di aspettare. Arrivò il mio turno: di ricotta ne avrei potuto comprare quanta ne volevo. Mi limitai ad un chilo. Avevo calcolato la dose per due pastiere e mezzo. E, poi, era festa! Ero contento! Non immaginavo nemmeno lontanamente quello che sarebbe accaduto rientrato a casa. Perché a casa venne fuori che per fare la pastiera bisognava far benedire la casa e il prete quell’anno, come era solito fare, non l’aveva fatto. Ero in crisi? Ed io per colpa di una mancanza ecclesiastica non dovrei potuto gustare la pastiera? No, non ci pensavo nemmeno! Ebbi l’approvazione di papà ma non quella di mamma, che si rifiutava di preparare la pastiera senza la benedizione del prete. Un meridionale, quando si impunta, soprattutto per principio, è irremovibile e mia madre era una fervente meridionale!
“Vidi nu pocu tu se pè nu preti cà s’incrinsciu u vena u benedici a casa, eu non mi pozzu mangiari a pastiera?!”
Se mia madre non avesse fatto i capricci e avesse fatto la pastiera avrebbe fatto di me l’essere più felice.
“E cunnu chilo e ricotta, mò chi ni facimu? U iettamu?” dico a mamma. Lei mi risponde: “ Ni facimu i pruppetti è ricotta, ca su puru boni!…” Ebbi un gesto di stizza, un moto di ira mi aveva preso e non mi lasciò finché non maledii la ricotta, che buttai, e la pastiera, che mi ripromisi di non mangiare.
Tutta colpa della pastiera o del prete?
“Tutta colpa della pastiera…”
Seduto fradicio. I muscoli del collo si contraggono flebilmente. Si solleva la testa. Fra gli zigomi, ciocche di cappelli bagnate. Le spalle leggermente inarcate.
“Cristo!”. La mano sinistra si schiaccia all’occhio destro, sul naso. Semanticamente potremmo definire questa situazione come: Il momento in cui ti rendi conto di aver fatto una enorme cazzata.
Ma torniamo indietro di qualche ora.
Giorgio come pattuito sale sull’autobus per Piazza Berlinguer. Indossa un paio di occhiali scuri ed una giacca di poliestere beige. Fra le sue mani un pacco. Scende alla terza fermata, via Venezia. Si dirige verso il tribunale.
Intorno a lui, poche sagome sfuocate si riversano, nella piazza, nascosti dalla notte. Fra il tacito assenso di enormi palazzi, circondanti l’ovale, costruzioni di un gigantesco flipper operativo. Giorgio si asciuga leggermente il sudore dalla fronte col suo fazzoletto azzurro. Un sorriso impercettibile si delinea fra le labbra di lui mentre, costante, avanza.
“Anna…” pensa.
Fra i rami delle conifere lungo la scalinata. Fra le giacche di fluidi corpi e scale corrose. Fra le pareti levigate e glaciali. Giorgio si ritrova davanti alla porta del tribunale. Il pacco ancora fra le sue mani.
Si piega retto, flettendo le gambe. Un ultimo sguardo ai rumori strabordanti dai muri. Giorgio posa il pacco vicino alla porta principale. Velocemente, senza voltarsi indietro, circospetto, scende giù per la scalinata, via per qualche vicolo. Dimenticato per sempre.
“Perfetto, il più dovrebbe essere fatto…” il suo sguardo si rivolge istantaneamente all’orologio sul polso destro “…non resta che aspettare, quindici minuti e tutto sarà risolto.”
Giorgio continua a camminare, rimbalzando di marciapiede in striscia pedonale, fra gli occhi di vetro di case curiose e urlanti portoni logori. Giorgio continua a camminare finché, finalmente, una panchina libera in mezzo ad un piccolo parco appare ai suoi occhi. Cinque minuti. Fra le sue mani una fotografia sbiadita di una donna dagli occhi azzurri e ciocche ramate; la stringono forte, piegandola.
“Altri due minuti alle dodici. Cristo perché non chiama?!”
Le sue gambe oscillano come rintocchi di un orologio. Un frullo d’ali si staglia fra i fitti rami. Respira profondamente. Fra poco avrà chiuso. Chiuso con Priamo, col Mattatore e con tutta quella maledettissima banda di strozzini.
Un tintinnio squillante scuote Giorgio. E’ l’ora. Freme. Le falangi spremono bramose le ginocchia cinte dal morbido abbraccio del pantalone, stirato e contorto dall’imminente risoluzione. Stridono i denti costretti dai muscoli mandibolari. Ogni sua fibra muscolare tesa. Pronto a scattare. Appena sentirà l’esplosione.
FrushCipCipiricipFrushChiòChiò
“Non dovrebbe già essere esplosa? Che cazz…”
TRIING TRIIING. Risponde. Una voce profonda nelle sue orecchie. “Sei morto stronzo.” Era il Matta “Lo sai vero?! Hai fatto un bordello. Tutto a puttane!”
Fottuto. Come cristo è potuto succedere? Pensa, che cazzo gli dico..
Matta riprende “Dove l’hai messa la bomba al tritolo deficiente?”
“L-lì, porca puttana Matta! Davanti al portone del tribunale, all’orario prestabilito. Ho fatto come mi avete detto!!”
“E la scatola? Coglione, Priamo sta arrivando, sei fottuto.”
Giorgio impassibile, cicatrizzato in quell’ultimo scandito Click momento. Scatola? Priamo? A prendermi? Inizia a camminare lentamente lungo il marciapiede, intorno a lui scorrono edifici anonimi. La scatola. Nera. La confezione della pastiera della nonna. Nera. Impossibile. La scatola col tritolo sul tavolo. Vicino la confezione della nonna. “Mi sono girato per prendere il caffè…ho visto l’ora, sì…era tardi…Porca puttana no!”
Giorgio si ferma di colpo. Boccheggia. Le mani arrancano verso le spalle di pietra della panchina vicina.
“Tutta colpa…”
Seduto fradicio. I muscoli del collo si contraggono flebilmente. Si solleva la testa. Fra gli zigomi ciocche di capelli bagnate. Nelle orecchie un rumore di freni. Fra le sue pupille l’immagine confusa di scarpe di coccodrillo e jeans attillati e scossoni sul petto. Un sordo colpo prorompe. Giorgio cade a terra inerte accolto fra le braccia ematiche della sua essenza.
Un ultimo pensiero scuote la coscienza di Giorgio, sbucciandosi la testa sul gradino sottostante, fra la gabbia toracica fracassata di calci. “Tutta colpa della pastier…”
Tutta colpa della pastiera o di Maradona?
All’indomani della morte del campione argentino nel contesto napoletano si susseguirono numerose manifestazioni d’affetto tese ad omaggiarlo: intitolazione dello stadio, di una piazza sino all’apertura di un museo.
In prossimità delle feste pasquali, venne attivata un’ulteriore iniziativa in suo onore, ad opera del comitato dei quartieri spagnoli, nacque il torneo rionale della “pastiera de oro” in ossequio all’appellativo di Pibe de oro che storicamente lo contraddistingueva.
Il regolamento era alquanto semplice: si poteva partecipare esclusivamente con una pastiera fatta in casa, la stessa doveva essere consegnata entro le ore dieci del giorno di Pasqua, votazione ad opera di una giuria tecnica composta da quattro pasticcieri, primo premio: una statua di Maradona realizzata a mano.
L’iniziativa creò molto entusiasmo, si respirava un’aria gioiosa, tuttavia era ben noto nel quartiere che la signora Lina avesse quel tocco in più, tutti ma proprio tutti la davano per favorita, era una vera istituzione oltre ad essere molto stimata per la sua generosità.
Venne il giorno!
Alle cinque del mattino la signora Lina era già alle prese con i preparativi, solita dedizione nell’impasto e via ad infornare, attesa la cottura era suo solito lasciar raffreddare la pastiera sul davanzale della finestra e così fece, nel frattempo s’accingeva a prepararsi, pronta per la consegna ritorna in cucina ma sul davanzale la pastiera non c’era più!
Non ci credeva, pensava fosse uno scherzo, erano le nove e trenta mancava mezz’ora alla consegna e non v’era più il tempo materiale per prepararne un’altra, presa dall’ira per quel gesto beffardo scese in strada e chiese a chiunque del vicinato se avessero visto qualcosa ma nessuno sapeva nulla, incredula ed affranta si diresse comunque nel luogo della competizione ma con alcunché tra le mani, la gente al suo arrivo iniziò a mormorare, non capiva perché la signora Lina non avesse presentato la sua pastiera, lo stupore era tale come se Maradona avesse sbagliato un rigore.
Lina non accettava affatto quanto gli era accaduto, in lei si scatenò un desiderio di vendetta e a coloro che le chiedevano del motivo della mancata partecipazione iniziò a rispondere che la gara era falsata, tutto era già deciso, la voce si diffuse a macchia d’olio in tutta la piazzetta e la gente iniziò ad inveire contro gli organizzatori: fischi, urla di disapprovazione fino ad arrivare al lancio delle pastiere, da parte dei concorrenti, verso il palchetto allestito per l’occasione.
La situazione era fuori controllo, i giurati, inconsapevoli di quanto stesse accadendo, invocavano alla calma ma la reazione della gente era sempre più veemente sino al punto che furono costretti a scappare ma uno di questi scivolando su di una pastiera urtò la statua di Maradona che cadde e andò in mille pezzi.
“Sacrilegio!” il grido che dalla folla s’aizzò.
Alcuni dei concorrenti salirono sul palchetto, che era ormai divenuto un campo di pastafrolla, nel tentativo di braccare il colpevole rimasto a terra, altri salirono nel tentativo di dirimere la contesa ma a loro volta scivolarono sulla fanghiglia che s’era creata, si scatenò un parapiglia generale placato dal solo intervento delle forze dell’ordine.
Il torneo culminò con sette fermi e quattro ricoveri per lesioni, fortunatamente, lievi e nessun vincitore ciò che doveva essere un momento di festa e sana competizione scaturì nell’impensabile, la stessa signora Lina rimase sbalordita da quanto aveva provocato non pensava potesse scatenarsi un simile putiferio!
Rammaricata per l’accaduto scoppiò in lacrime ma non ebbe mai il coraggio di confessare la verità tuttavia rivolse lo sguardo al cielo e sospirò: “scusa Diego spero tu possa perdonarmi”.
Tutta colpa della pastiera, quella maledetta pastiera…
A causa della mia professione: il vulcanologo, mi ero trasferito da un’annetto a Napoli, città in cui non ero mai stato.
Mi trovavo lì per monitorare il Vesuvio, impresa ardua che richiedeva molto tempo, perciò mi affittai una casetta abbastanza grande per poter posizionare tutti gli strumenti utili così da creare un piccolo laboratorio dove cominciare a lavorare.
Tutti giorni li trascorrevo tra il Vesuvio e “casa” non facendo nient’altro oltre comprarmi da mangiare al supermercato.
Mi impegnavo tantissimo perchè se avessi fatto nuove scoperte sarei stato proclamato miglior vulcanologo d’Italia.
Difatti non mi ero nemmeno accorto di avere dei vicini. A pochi metri da me sorgeva una casetta verde simile alla mia, quando ad un tratto sentì bussare alla porta insistentemente.
Mi accorsi a controllare e vidi dallo spioncino una signora anzianotta con le gote rosate che continuava ad urlare:”Guagliò, aprimi”.
Infastidito aprì e la signora si precipitò a dirmi: Piacere sono Rosetta, abito lì” indicandomi le mura poste a poca distanza.
Continuò: ”Non ti ho mai visto da queste parti perciò vorrei poterti porgere, come da usanza, questo piccolo manicaretto fatto da me”.
Incredulo accettai e la ringraziai, quando ad un trattò udì: ”Mamma, ma che cazz!”
La donna si voltò e vedemmo un giovane uomo barbuto correre nella nostra direzione.
Ancora con il fiatone si scusò con me poi si crucciò e sgridò lei: ”Mamma non puoi importunare le persone in questo modo!”
L’anziana non repplicò ma io la difesi dicendogli che anziché importunarmi aveva fatto una gentilezza portandomi quella leccornia e ne ero riconoscente.
In mezzo a quella folta barba notai un accenno di un sorriso mentre porgendomi la mano si presentò: ”Io sono Ciro”.
La strinsì dicendole il mio nome:Carlo.
Li invitai ad entrare in casa per poter offrirgli il caffè ma la signora rifiutò perchè doveva finire le faccende domestiche e se ne andò.
Rimasimo io e lui a chiacchierare davanti alla tazza di caffè.
Io gli raccontai del mio lavoro e lui mi confidò di essere appassionato di vulcani e che ,anche per per questo motivo, si era trasferito dalla mamma.
Dopo questa sua dichiarazione gli proposi: ”Ti andrebbe di venire con me a visitare, per quanto è possibile, il Vesuvio?”
Entusiasta mi rispose: ”Certo, così potrei apprendere qualcosina del tuo lavoro in modo da potermi rendere utile.
Sai un “aiutante” non ti farebbe male, ti scioglierebbe un po’di stress!”
Sorrisi e ribattei: ”Hai proprio ragione inoltre, vista la tua passione, non saresti proprio alle prime armi in fatto di vulcani”.
Ciro sprizzando di gioia mi disse: ”Ne sarei onorato e mi aiuterebbe a non pensare troppo al fatto che sono disoccupato”
Continuò raccontandomi di come si era ritrovato dopo il fallimento della sua azienda, a ritornare da sua mamma sentendosi, perciò, inutile.
Da quella lunga sera colma di chiacchiere diventammo amici.
Passavamo le intere giornate insieme, gli insegnai cose basilari e semplici del mio lavoro, ci incamminavamo sulle pareti del vulcano e lui mi invitava ogni sera a casa sua per poter gustare le prelibate pietanze cucinate da Rosetta.
Dopo otto lunghi mesi avevo messo insieme tutti i miei risultati, stavo per pubblicarli quando bussò alla porta Ciro.
Andai ad aprirgli e lui mi porse un piatto con dentro uno strano torta: la pastiera.
Non l’avevo mai né vista né assaggiata ma lui continuò dicendomi: ”Mangia, amico mio. Oggi è Pasqua e questo è il dolce tipico di questa festività. L’ho preparato con le mie mani”
Non era da lui né cucinare né presentarsi così improvvisamente ma ne addentai comunque un pezzo.
Mangiando boccone per boccone iniziò a girarmi la testa e crollai per terra.
Prima di perdere completamente i sensi vidi sul volto di Ciro spuntare un gigno malvagio, che non avevo mai visto e mi sussurrò: ”Stai morendo avvelenato mio caro ed io potrò finalmente rubarti tutti i documenti sul Vesuvio così da diventare il miglior vulcanologo d’Italia”
Mentre sentivo che il mio corpo mi stava completamente abbandonando pensai:”Tutta colpa della pastiera,non avrei dovuto mangiarla.
Dovevo intuire che era tutto un imbroglio”
<Tutta colpa della pastiera>
<Ma smettila!>
<È così>
<Se non te la senti vado io, non inventare scuse!>
Ciro e Antonio stavano lì, in cima alla scogliera, guardando il vuoto che li separava dal refrigerio dell’acqua in quella giornata di agosto.
Quanto abbiamo letto all’inizio è però una traduzione della conversazione che i due ebbero quel giorno.
Ciro e Antonio, mai stati a scuola, parlavano solo in dialetto stretto. Ma uno era napoletano, l’altro veneto, e dire che si capissero completamente sarebbe menzogna.
Avevano entrambi 12 anni e la scogliera che li sosteneva nell’attesa del tuffo era in Grecia, in una Santorini degli anni 70, quando era ancora meta appropriata per chi cercava una vacanza selvaggia.
Vi chiederete ora, cosa ci fanno un veneto e un napoletano in cima a una scogliera di Imerovigli nell’agosto del 1972, cercando di incolpare un dolce partenopeo per il ritardo nel salto?
Vedranno i lettori che questa storia è quanto successo, anni prima e anni dopo a chi preadolescente si è trovato in vacanza così lontano da casa.
I nostri giovani intrepidi (o almeno così vorrebbero essere ricordati), si erano conosciuti in spiaggia quando a uno dei due parve di sentire un idioma simile al proprio, anche se non totalmente comprensibile. Appurato che fosse più facile parlare fra loro che con i locali, iniziarono le loro scorribande estive, finché un giorno arrivarono a un locale che sull’insegna riportava un’inaspettata proposta dolce: pastiera.
Ciro voleva assolutamente che il suo nuovo amico l’assaggiasse, per fargli scoprire un po’ della propria terra.
Entrarono e la videro. La ragazza al bancone, occhi verdi e capelli neri. Un po’ più grande di loro, ma non importava, perché era bellissima e loro se ne erano accorti. Entrambi.
Si guardarono e decisero di prendere un pezzo di pastiera, poi sul marciapiede la mangiarono. Non era per niente buona e Ciro lo sapeva, ma voleva una scusa per tornare dalla ragazza. Quello che non sapeva, era che nemmeno ad Antonio era piaciuta la pastiera, ma ahimè, anche lui aveva notato gli occhi di lei.
Quindi Antonio finse, e rientrò per primo a prendere un’altra fetta.
Una volta dentro, l’unica conversazione che ebbero fu: <<Ciao, pastiera>>, ma tanto bastò per uscire dal negozio e dire a Ciro che la ragazza gli aveva sorriso. “Secondo me le piaccio!”.
Mangiarono la seconda, mediocre fetta, che Ciro sentì anche peggiore della prima, perché il sapore era mischiato ai pensieri che ruminava mentre cercava il modo di rivederla.
E cari lettori, Ciro entrò a prendere la terza porzione di pastiera, con la scusa di spiegare nel dettaglio al suo amico Antonio, perché quella che fa sua nonna è più buona, la più buona.
Ciro entrò, Antonio sbirciava da fuori.
Il tentativo della ragazza di trattenere la risata che le suscitava il siparietto, ebbe come risultato un sorriso ancora più bello di quello che aveva accolto i nostri al primo ingresso.
Parlò lei, disse “Ciao, pastiera”, prendendo in giro i due ormai perdutamente innamorati.
La terza fetta fu la fine di una inaspettatamente abbondante merenda, e l’inizio di una discussione che rischiava di interrompere la neonata amicizia fra i due.
L’oggetto del contendere, immaginerete, fu di chi dei due fosse lei innamorata.
Fecero quindi quello che fanno i maschi dall’alba dei tempi: si sfidarono a duello.
Chi faceva il tuffo più bello, sarebbe tornato a chiederle di diventare la sua ragazza.
Trovarono scuse, ognuno la usa (fra le quali anche quella della pastiera, che abbiamo sentito quando siamo tornati insieme a rivedere quel giorno), finché si fece appena appena buio e, per la prima volta quel giorno, furono d’accordo su qualcosa. Rimandare la sfida, troppo importante per rischiare che la poca luce non mostrasse l’estrema tecnica e sopraffina abilità che, ovviamente, avrebbero espresso.
Tornarono in bici nel tramonto, mentre ognuno dei due pensava a un particolare diverso del suo viso, al suo sorriso e ai suoi occhi che aspettavano di rivedere lui e soltanto lui.
La ragazza nel frattempo chiuse il negozio e, tornando a casa, pensò alla nonna che l’aspettava a casa, al piccolo fratello con cui avrebbe giocato, al libro che aveva iniziato a leggere e a quanto era bello quella sera il colore del cielo.
Tutta colpa della pastiera che Valentina mi aveva lasciato davanti alla porta. Guardai il cellulare e lessi: – E’ arrivata?- – No, ancora no, per lo meno non l’ho vista – risposi io cercando di aprire la porta della mia auto.
La pioggia continuava battendo ignorante i vetri mentre la città deserta dal lockdown sembrava quella di un film distopico. Squillò il telefono mentre stavo cercando di parcheggiare l’auto che malgrado la desertificazione, sarebbe stato più facile vincere al lotto che trovare un posto.
– Allora è arrivata? – mi chiese ancora una volta al telefono Claudio. – Non credo sia arrivata Claudio ma ora basta con questa insistenza, io direi che te la devi piantare – risposi io stranita dalla pioggia e da una giornata che non voleva terminare.
– Ti ho fatto una domanda ma tu come al solito perdi subito la pazienza – mi scrisse dopo avergli attaccato in faccia.
In quel momento chiamai Paola per sfogarmi un po’: – Paola, Claudio sta insistendo per vedere Valentina, non so che cosa gli prenda. Mi ha stancato è da stamattina che mi sta chiedendo se è arrivata – le dissi.
– Veramente? E’ proprio sfacciato, gli è sempre piaciuta e su questo non ci sono dubbi, però arrivare fino a questo punto… ti stai riprendendo lentamente dal Covid-19 potrebbe avere pensieri per te non per quella … –
– Siamo amici, lo capisco però non mi va di fare sempre la ruffiana – risposi io
Attraversai la strada con la borsa sotto il braccio e l’affanno che, malgrado la mia negatività, stentava ad abbandonarmi. Mentre tenevo l’ombrello e il computer per leggere il messaggio mi cadde in terra il telefono.
– Maledetto telefono, prima o poi dovrò farlo nuovo magari a rate – pensai camminando sul bordo per non farmi schizzare dalle auto che attraversavano le pozzanghere.
Imboccando il vicolo centrale adiacente alla mia abitazione vidi Valentina che usciva dal cancello di corsa.
– Vale!- gridai ma lei niente, andava troppo di fretta come suo solito.
– Maledetto telefono, riprenditi, riprenditi – dicevo spingendo il lato destro insistentemente. Niente da fare, sembrava morto. Sarei dovuta correre a casa ma le scarpe bagnate e il computer pesante non mi permettevano di andare veloce.
– Silvia! – udii gridare alle mie spalle. Era Claudio che in lontananza stava parcheggiando l’auto. Girai le spalle per cercare di arrivare a casa ed asciugarmi quando sentii prendermi le spalle.
-Silvia, mi puoi dire che ti prende?- mi chiese lui a un palmo da me.
– Mi prende che sono molto stanca, affannata, sono uscita ora da una malattia mortale, non mi reggo in piedi e tu se interessato solo a sedurre le mie amiche, ecco ch mi succede – risposi io cercando di reggere l’ombrello.
– Cosa stai dicendo, sei impazzita? Dammi il computer ti accompagno a casa – disse Claudio prendendomi la mano.
– Non sono impazzita sono stanca ecco tutto, lasciami andare a casa – insistetti io.
Cercando di accelerare il passo mi avvicinai al cancello e glielo chiusi in faccia. Claudio sapeva benissimo che avrebbe potuto aprirlo ma non entrò e rimase li a guardarmi con aria di chi vede andare via qualcosa senza capirne il perché.
Accelerai il passo arrivando davanti alla porta di casa dove trovai un pacco incartato e un biglietto. Infilai le chiavi e con due mandate aprii la porta. Lasciai il cappotto sul divano e sedendomi lessi il biglietto: – Rimettiti in forze amica mia ti voglio bene. Questa è arrivata direttamente dalla Sicilia ed è meglio di qualsiasi medicina. Ti voglio bene. Claudio. –
Aprii il pacco: c’era una pastiera profumata. Andai subito alla porta per vedere se Claudio fosse rimasto ancora ad aspettarmi dietro il cancello. Stava tornando indietro e io corsi verso di lui abbracciandolo e dicendogli: – Scusa, perdonami Claudio, è stato tutto un malinteso, avevo capito… insomma, Valentina, arrivata… perdonami –
– Lo so che sei un po’ pazza Silvia e anche gelosa ma ti voglio bene lo stesso – mi disse abbracciandomi stretta.
– Tutta colpa della pastiera – risposi io.
“E’ tutta colpa della pastiera!” scrissi su un cartone della pizza trovato rovistando nel cassonetto vicino alla mia casa fatta di coperte e vecchi legni.
Sì, se ve lo state chiedendo sono una clochard, mi chiamo Tino e vivo su una panchina di viale Trastevere da ormai una ventina d’anni, o meglio ci vivevo fino a questa mattina.
Era molto presto, non saprei dirvi l’ora, ma penso tra le 7 e le 7.30 perchè la signora Rossini che abita al 4° piano del palazzo rosa dall’altro lato della strada era da poco uscita per andare al lavoro, improvvisamente sono stato disturbato da una voce baritonale: “Lei se ne deve andare da qui”.
Quando ho aperto gli occhi, un uomo sulla trentina era in piedi davanti a me, indossava un elegante completo blu e delle scarpe appena lucidate, mi fissava, stava parlando veramente con me.
Io? Ma che disurbo può arrecare un vecchio senzatetto che passa le sue giornate a dipingere gli angoli più belli di Roma e a tenere in ordine la sua casetta?
Conosco tutti nel quartiere e tutti conoscono me, ho visto persone arrivare e poi trasferirsi, innamorarsi e poi piangere, bambini nascere e crescere, negozi aprire e poi chiudere, sono parte del quartiere.
Poi mi balenò un ricordo, da qualche giorno avevo notato un gran trambusto davanti alla vecchia Latteria, era di proprietà del Gigio, un uomo molto robusto e con uno humor nero che non tutti apprezzano. Era solito passare a trovarmi una volta che chiudeva il negozio, non voleva mai tornare a casa dalla moglie, ogni giorno mi ripeteva che sognava di lasciare tutto e scappare alle Canarie, forse ci è riuscito.
Così, improvvisamente, una saracinesca ruppe il silenzio e scoprii che la vecchia Latteria di Gigio aveva lasciato il posto ad uno sfavillante nuovo locale con le vetrine tirate a lucido, all’interno si intravedeva una cameriera di bella presenza in completo color panna e un intero bancone di sfiziosità: “La Pastiera”.
Che poi io, non so neanche che sapore abbia la pastiera, non l’ho mai provata e sicuramente ora saprebbe di rabbia e delusione.
Così decisi di prendere il cartone della pizza di cui vi parlavo prima e di scriverci sopra un chiaro messaggio di ribellione, la mia casa non la lascio, per nessun motivo al mondo.
Entrai in casa a cercare una corda piuttosto lunga e resistente, delle coperte e qualche provvista, attraversai la strada e mi incatenai al lampione antistante il locale, avevo sempre sognato di farlo, l’avevo visto in qualche tg che veniva trasmesso nelle vetrine dei centri commerciali.
Così ora sono qui, al freddo, incatenato a questo lampione e osservo la gente che passa sul marciapiede, alcuni mi salutano pure perchè mi conoscono bene, devo ammetterlo: mi sento un po’ un imbecille.
All’interno del locale vedo la commessa bionda che parla con l’uomo di blu vestito che questa mattina mi ha chiesto di sloggiare, punta il dito verso di me e ride, forse crede che resisterò poco.
Lui non sa che io sono abituato a lottare, non sono diventato sensatetto da un giorno all’altro, è stato un percorso lento, costante e deprimente che porta al fondo. Il sentirsi emarginati è tremendo, essere senzatetto significa essere trasparenti. Molte persone passandomi davanti mi calpestano, danno calci al bicchiere con i miei soldi, passano con i piedi sopra ai miei disegni distesi a terra, urtano i cartoni che compongono la mia casa facendola crollare, la maggior parte delle persone sembra non vedermi. Eppure io ci sono, sono qui, sono sempre stato qui, sorrido a tutti quelli che mi passano davanti, lascio dei disegni a tutti quelli che ricambiano il mio sguardo, non chiedo soldi, chiedo sempre “come stai?” e sono attento al cambio di look di tutte le donne del quartiere.
Cos’è questa sensazione? Sembra una mano calda che stringe la mia, apro gli occhi, devo essermi addormentato.
Attorno a me ci sono tutte le persone del quartiere, con i cartelli di protesta tra le mani, la signora Rossini ha preparato il caffè caldo e arriva un profumo inebriante di biscotti appena sfornati.
Ci sono tutti, non ne manca neanche uno, sono tutti seduti attorno a me e sorridono, sembra quasi che mi vedano come una persona, ora la pastiera non mi sembra più così amara.
Tutta colpa della pastiera. Pensò Helen mentre osservava la sua creazione ancora fumante sul marmo chiaro della cucina.
Si chiese per l’ennesima volta cosa diavolo l’avesse spinta a offrirsi di preparare la torta per il pranzo di Pasqua. Non l’aveva mai fatta prima e ci aveva messo quasi quattro ore. Stupid! So, so stupid!
Sentì Antonio avvicinarsi dietro di lei e cingerle la vita con le braccia. “Amó, è venuta bene!”
Helen osservò i rombi asimmetrici di pasta frolla e il colore troppo scuro della superficie. “È storta. E bruciata.”
“Non è bruciata. È abbronzata, come me!”
Helen non riuscì a trattenere un sorriso. “C’è un motivo se ho scelto un cuoco napoletano come fidanzato, honey. Io so solo usare bene la lingua.”
“Quella la usi bene assai!” Antonio le soffocò una risatina sul collo.
“Voglio dire che parlo bene l’italiano e mi piace mangiare. Ma fare questa torta… Jesus!“
“Scusa, Amó, ma perché non l’hai fatta fare a me?”
Lo guardò da sopra la spalla. “Hai preparato tutto tu! E poi… viene tua madre, oggi.”
“E allora?”
“È la prima volta che mi vede. Voglio fare una buona impressione.”
Da quando si erano conosciuti, sei mesi prima, Antonio non aveva mai visto la sua Ellie così preoccupata. Il fatto che fosse sua madre a renderla nervosa, gli pareva a dir poco ironico.
La fece girare fra le sue braccia e la baciò sulla fronte corrucciata. “Di che hai paura? È trenta centimetri più bassa di te.”
Le lanciò un sorriso complice, ma vide le sue sopracciglia dorate arricciarsi ancora di più. “Ellie, è impossibile non innamorarsi di te! Nun te devi preoccupà.”
Ma Helen non riusciva a levarsi di dosso la sensazione che, se aveva sentito il bisogno di cucinare un dolce per ingraziarsi il favore della futura suocera, le cose non potevano mettersi bene.
Assunta Fortunato bussò alla porta di casa di suo figlio alle 12:15 in punto di quella Santa domenica, attenta a mostrare sul volto soltanto una maschera di altezzosa indifferenza.
“Mammà!”
“Antò! Nun te fai verè da nu po’!” Gli pinzò la guancia fra le dita. “Te si ‘nchiattat?”
“No, mammà. Sto sempre uguale.”
“E chista guaglióna americana? Aro’ sta?”
“Entra, te la presento.”
“T’ha sequestrat’ pe’ sei mesi, dev’esse speciale!”
Ad Antonio non sfuggì il tono velatamente ironico della madre. “Helen è speciale, mammà. Fai la brava. E parla in italiano che sennò non ti capisce.”
Assunta lo guardò di sottecchi. Sembrava fare sul serio con questa Elèn.
Ma un’americana! Quanto ci avrebbe messo a portarlo via dall’altra parte del mondo?
Non poteva sopportare l’idea di perdere anche lui.
Col ricordo dell’amato marito che le scavava un doloroso vuoto nel petto, Assunta seguì suo figlio in sala da pranzo, dove trovò una bionda tutta gambe ad aspettarla.
Si posò un palmo sul petto. “Figlia mia, quanto sei alta!”
Helen le strinse la mano con una risatina nervosa. “Piacere di conoscerla, Assunta.”
“Miii, come parli bene! Che lavoro fai, Elèn?”
“Insegno inglese ai bambini.”
“Ah” fece Assunta, che l’aveva già immaginata a farsi fotografare con addosso poco più del reggiseno. “E quant’è che sei in Italia?”
Helen si asciugò le mani sui jeans. “Da quasi dieci anni, ormai. Sono a Napoli da poco più di un anno. Ma me piace assai!” Le sfuggì un’altra risatina acuta. Calmati Helen, damn it!
Si sedettero a tavola e mangiarono il pranzo squisito preparato da Antonio, mentre Assunta non smetteva di osservare la futura nuora nel tentativo di decifrarla. “Non dev’essere facile stare così tanto lontano da casa.”
Helen lanciò uno sguardo ad Antonio e sorrise raggiante. “In realtà, amo così tanto questo posto che la nostalgia ho smesso di sentirla tanto tempo fa.”
Assunta si fece silenziosa. La ragazza sembrava sincera. Ma una donna navigata come lei lo sapeva: mai abbassare la guardia di fronte al nemico.
E mentre guardava la pastiera bruciacchiata che Helen aveva appena portato a tavola, si chiese come avesse fatto a sfornarla così brutta.
Ma la sua intima esultanza ebbe vita breve. Appena le diede il primo morso, un tripudio di morbida dolcezza le esplose in bocca. E Assunta capì: se questa americana era riuscita a fare la torta preferita di Antonio meglio di come sapeva farla lei, era davvero spacciata. Gliel’avrebbe portato via di sicuro.
Tutta corpa di chista maledetta pastiera!
Tutta colpa della pastiera. E così era morto. Morto, morto. Definitivamente. Non che fosse poi tanto male…
Si era risvegliato il giorno X con una fame insostenibile. Un buco allo stomaco che poi si era accorto esserci per davvero. La pelle e le carni erano consumate proprio lì, appena sotto lo sterno. Aveva teso le braccia in su e con uno sforzo si era messo a sedere. Le braccia erano rimaste tese, le mani ricadevano a penzoloni così come la testa. Emise un grugnito incomprensibile. Era diventato uno zombie.
Intorno a lui l’atmosfera era freddina, non che ci si potesse aspettare qualcosa di diverso da un obitorio. Vide una luce provenire da sotto la porta e decise di seguirla: cadde rovinosamente dal lettino metallico sul quale fino a poco prima giaceva senza vita, battendo a terra prima la spalla, che si incrinò all’insù, e poi il ginocchio sinistro, che si spostò verso l’interno in una posizione davvero poco naturale; in qualche modo si rimise in piedi e si diresse zoppicando verso la porta che si spalancò davanti a lui, non per magia ma perché si era scontrato con il maniglione antipanico.
Il corridoio era illuminato da una luce asettica ed era completamente deserto, sia a destra che a sinistra. Scelse una direzione a caso e barcollò fino a raggiungerne il fondo dove una finestra aperta si affacciava sulla notte, illuminata solo da qualche lampione, e sigillava la fine del percorso. Per un essere umano vivente e ragionante. Per lui non sigillò proprio nulla: continuò il suo percorso ma in caduta libera, arrestandosi con un rumore di ossa rotte poco più in basso. Fortunatamente l’obitorio era solo al primo piano.
Si raddrizzò di colpo, la mandibola ruotata di una trentina di gradi e un nasino all’insù, degno del miglior chirurgo plastico. Lo stomaco ululò, ma forse fu solo il rumore del vento freddo che attraversava il buco che aveva nella pancia. Lo interpretò comunque come fame. Fame di qualcosa di buono. No, non di cervello umano che, falsamente, si crede essere il cibo preferito dagli zombie. Fame di qualcosa di cui era sempre andato ghiotto. E si diresse, con quella sua andatura davvero curiosa, verso la sua pasticceria preferita (di quando era in vita).
Era notte fonda: poche erano le auto ancora in circolazione e pochissimi i passanti, che si limitavano a lanciargli occhiatacce scambiandolo per un ubriacone da evitare. Arrivò alla sua meta tre ore dopo, sebbene distasse solo qualche chilometro dall’obitorio. Lungo la strada era caduto molte volte e ora il suo piede destro era girato “en dehors” come quello di una ballerina; non si poteva certo pretendere dal poveretto una grande velocità negli spostamenti.
Non era stato facile nemmeno entrare in pasticceria, perché non poteva certamente aprire la porta d’ingresso girando la maniglia: era uno zombie e gli zombie non aprono porte, le sfondano. In gruppo, di solito, e lui era solo. Allora aveva sbattuto ripetutamente contro il vetro della vetrina che solo verso mattina aveva finalmente ceduto. A quel punto era entrato nel negozio, non prima di aver inciampato nell’intelaiatura metallica della vetrina, caracollando rovinosamente a terra dove si era tagliato con i vetri infranti, mentre avanzava sul pavimento strisciando e cercando di rialzarsi, le mani e il viso come puntaspilli di vetri appuntiti. Non era esattamente un bel vedere, ma nemmeno in vita era mai stato poi tanto bello.
Ed eccola là: esposta sul bancone, la sua tanto agognata pastiera napoletana. Con la bava che colava dalla mandibola storta, dei suoni gutturali di eccitazione e le mani tese (ma quelle fanno parte del pacchetto “zombie”), si avventò sul dolce e cominciò ad ingurgitare, facendo schizzare pezzi di frolla e ricotta tutto intorno a lui e attraverso il buco allo stomaco. Ah, il profumo di fiori d’arancio! Quante volte era andato al supermercato ad acquistare l’aroma per sua moglie. E mentre si abbandonava ai suoi confusi ricordi di zombie, era completamente ignaro di ciò che invece tra poco noi sapremo: che la pastiera sta agli zombie come l’aglio ai vampiri.
Pensavate bastasse colpirli alla testa, eh?
E, invece, ecco: una fitta lancinante alla pancia forata e si accasciò a terra, morto. Non più non-morto ma morto. Morto, morto. Definitivamente. Tutta colpa della pastiera.
1 – Il Professore italiano
2 – Tutta colpa della pastiera
3 – Lo spot
4 – STASERA
5 – Divina Pastiera
6 – LIBERI
7- Non credo che lo rifaremo
8 – LA PORTA DEL CIELO
9 – FRANCA
10 – “SACRIFICIO E DOLORE UNISCONO IL CUORE”
11 – REGINA DEI DOLCI
12 – Ricorda di dosare bene ricotta e affetto sincero.
13 – Tutta colpa della pastiera
14 – Il Principe e la pastiera…
15 – The dormitory
16 – Una dolce conversione
17 – PICCOLA COMMEDIA DESTRUTTURATA
18 – Claudia
19 – Il potere dell’amore
20 – Se non ora, quando?!
21 – Le 12 settimane
22 – Tutta colpa della pastiera…
23 – VENTIQUATTRO
24 – Tutta colpa della pastiera..
25 – LA PASTIERA DELLA VECCHIA EBREA
26 – Biografia in fieri III
27 – Giorgio
28 – La pastiera de oro
29 – Tutta colpa della pastiera
30 – Dolcezza
31 – UNA GIORNATA DI PIOGGIA
32 – LA PASTIERA
33 – Una pastiera per due
34 – Pastiere & zombie
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