29 – Made in Italy
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
Perché chi ha deciso di cedere alle proposte dei francesi -duole constatarlo- è stato proprio Ballarò. Quel Ballarò che cinquant’anni prima era stato deriso e dileggiato per aver venduto di punto in bianco il negozio preso in conduzione nemmeno ventenne, complice la precoce dipartita di entrambi i genitori.
Una rivendita alimentare, non tanto grande è vero, ma abbastanza da permettere a tutto la famiglia una vita serena a confronto di tante altre persone costrette in quell’epoca a farsi in quattro per mettere insieme pranzo e cena.
Gli anziani in piazza che se lo ricordano, parlano di un giovanotto dal fisico asciutto, una pertica d’un metro e novantadue, sempre trafelato, sempre di corsa tra garage di casa -dove nessuno sapeva in cosa si arrabattasse- e bottega, ma nonostante la furia, sempre disponibile a regalare un sorriso a chiunque. Animo dolce che emergeva anche quando qualche madre accompagnata dal figlioletto coi calzoni corti, arrivava al banco coi soldi contati e lui, leggendo tra quei quattro occhi l’imbarazzo e il desiderio, tirava fuori dal grande vaso di vetro lavorato posto in bella vista a fianco della cassa, un paio di caramelle confezionate singolarmente, regalando oltre lo zuccherino, cinque minuti di spensieratezza ad entrambi.
La leggenda vuole che tutto sia nato, come spesso accade, per caso.
La bicicletta con la ruota mezza sgonfia, il binario del tram che arriva allo scambio, lo pneumatico che non vince il disassamento tra uno e l’altro e voilà, il capitombolo è servito.
Giovanni Ballarò, bici in spalla e cerchio in mano, livido sul volto e con le mani sgraffignate, attraversa con lo sguardo basso via Bistolfi, si lascia l’istituto dei Martinitt alle spalle, entra nella corte della Boja e si infila in garage per rimettere insieme i cocci in qualche modo.
Tutto quadra, fuorché la dinamo che non ritrova lo spazio originale, ma finisce distrattamente sul banco.
Nessuno avrebbe immaginato che da quel banco e da quella dinamo, sarebbero nate le prime batterie ad uso industriale. Quel sistema piombo-acido, rinnovato nella struttura elettrodica, capace di generare uno spunto ineguagliabile per qualsiasi concorrente.
Il resto è storia: il primo stabilimento al quale susseguono un secondo e un terzo nel giro di pochi anni. Il contratto con la Ferrero, seguito da quello De Ponti. Dai 13 dipendenti iniziali, ai quasi 300 degli ultimi anni. La bottega diventa industria, ma Giovanni, quello spilungone, rimane sempre lo stesso.
In mezzo secolo Ballarò, nonostante la crescita inarrestabile foriera di agiatezza e potere, rimane il Giovanni dal cuore grande, sempre pronto a dare qualche caramella a chi sa di non potersela permettere e dignitosamente non la chiede.
Eppure c’è chi dice che sapeva come sarebbe andata, chi che l’ha fatto per coprire una buco nelle finanze, chi da la colpa ad una donna di cui si sarebbe infatuato, chi incolpa i nipoti, chi arriva a pensare sia stato circuìto da una setta.
In quattro anni dei trecento dipendenti ne sono rimasti 42, gli stabilimenti ceduti a un grosso immobiliarista interessato a sviluppar verso l’Ortica, gli impianti trasferiti.
Delocalizzazione. Questa la parola magica contro la quale nulla si è potuto fare.
Produzione in Polonia, uffici in Italia, giusto per mantenere il “made in Italy” almeno nella distribuzione. Con Ballarò parlavano di sinergie, di partnership, di competitività globale, di fusioni, di filiera, di opportunità.
Un’imprenditore romantico, rispettoso della vita, umile al punto di mangiare spesso in mensa insieme alle proprie maestranze, che non ha mai negato un sorriso all’ultimo degli ultimi.
Non centrano donne, nipoti, sette, buchi: semplicemente si sbagliava.
Ballarò non ha più le caramelle, gliele hanno rubate i francesi.
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