24 – Tutta colpa della pastiera..

2 Dic di editor

24 – Tutta colpa della pastiera..

Tutta colpa della pastiera..e non era Pasqua. A Napoli la pastiera la facciamo tutto l’anno, ma principalmente nel periodo pasquale, non so perché, non so quale sia la relazione, so che a casa mia le pastiere nel forno a legna venivano fatte il venerdì santo, tutti insieme, la nonna, mia mamma, mia zia.

Segnavano l’inizio delle feste, che poi le feste pasquali, non sono come quelle natalizie, durano molto meno, ma di solito è primavera, e il sole, l’inizio del caldo, le danno quel sapore di leggerezza, anche se tutto potrei dire, tranne che la pastiera sia un dolce leggero, anzi.

Non era Pasqua, però, e non era neanche Natale, se ci voglia una festività per fare un dolce tradizionale, io non lo so, so solo che era il 1 dicembre di un anno qualunque, un anno pesante, malinconico ed incasinato, un anno che avremmo ricordato per molto tempo.

Aveva piovuto tutto il santo giorno, faceva un freddo cane e tutto preannunciava che di lì a poco, sarebbe nevicato.

La mia giornata era passata tra la lettura di mail di lavoro e qualche puntata di una nuova serie su Netflix, innumerevoli caffè, qualche telefonata, insomma, niente di speciale, la noia piano piano si stava impossessando di me, non avevo neanche voglia di leggere, forse, l’unica soluzione sarebbe potuta essere, andare a dormire e sperare che in questo modo, quel giorno finisse molto prima.

C’era un’irrequietezza che mi aveva accompagnato per tutta la giornata, quella sensazione che stava per accadere qualcosa, non so spiegare, una sorta di agitazione mista ad attesa, qualcosa che sembrava non arrivare mai, forse, volevo solo che quel giorno finisse, forse, era quella l’attesa, la fine di questa insulsa, monotona giornata.

Erano circa le sette di sera, poca voglia di cucinare, poca voglia di mangiare.

Ad un tratto, nel silenzio generale, quel silenzio che accompagna l’arrivo della neve, sentii il rumore del citofono, qualcuno aveva bussato e non aspettavo l’arrivo di nessuno.

Tirai su la cornetta del citofono prima di aprire, chiesi più volte chi era, ma dall’altro lato, nessuna voce, solo il rumore di qualche auto che passava. Riagganciai la cornetta, pensai che fosse passato qualcuno a fare uno scherzo o magari qualcuno che non stava cercando me, diedi poco peso alla cosa, avranno sbagliato, non avevo la minima intenzione di andare a controllare di sotto, col freddo che c’era, poi.

Alla fine decisi che era il momento di cucinare o almeno di riempire lo stomaco.

Aprii il frigo e tirai fuori le prime due cose che i miei occhi videro, frigo vuoto come la mia vita, pensai. Vuoto, dopo tanto riempire, mi ci ero messa io in quella situazione, avevo cominciato a togliere per fare spazio, eliminare impegni, eliminare appuntamenti, eliminare persone e così piano piano, lì dove non c’era spazio, si era creato un vuoto, quello stesso vuoto che vedevo nel mio frigo.

I pensieri cominciavano ad affollarsi ed una sensazione di malinconia aveva fatto ingresso nella mia testa e nel mio cuore, senza chiedere permesso, ovviamente.

Decisi che dovevo trovare un modo per distrarmi, accesi la radio e c’era una canzone napoletana, una di quelle che in quel momento proprio non ci stava. La spensi e, nonostante il freddo pungente, pensai di nuovo al suono del citofono, chissà chi era.

Non aveva molto senso andare a controllare, visto che era passata più di un’ora, ma lo feci lo stesso, infilai il cappotto, scesi le scale e andai giù.

Magari c’era qualche traccia, era un pensiero stupido, ma il bisogno di non pensare mi spinse ad aprire il portone e lì, in mezzo al deserto della strada ed al primo manto di neve, c’era un pacco, un pacco con carta colorata.

Non avevo ordinato nulla, ma sul pacco c’era il mio nome. Che strano, era il corriere e non aveva bussato. Nell’ultimo periodo avevo ordinato tantissime cose, cose che forse mi servivano, o forse, no, forse servivano solo a riempire il vuoto che io stessa avevo creato ed ormai avevo una sorta di confidenza con i ragazzi che mi portavano le cose; tutto ciò mi sembrò ancora più strano.

Non era un pacco pesante, dalla forma provai a capire cosa potesse esserci dentro, ma mi mancava l’immaginazione, non era stata una bella giornata.

Lo appoggiai sul tavolo e dentro c’era qualcosa di buono, da mangiare. Era una pastiera e sul bigliettino c’era scritto : “Torna a casa! Mamma”


3 Commenti

  1. Purtroppo la pastiera compare solo alla fine! La conclusione è bella e commovente ma al tema centrale andava riservato un ruolo maggiore. Prende invece troppo campo il monologo interiore della protagonista.
    Ci sono alcuni errori sintattici, soprattutto dell’uso dei verbi, in particolare del congiuntivo

  2. Un racconto semplice, un po’ triste, riscattato dal “lieto fine”. Un accenno delicato, ma felice, al valore degli affetti famigliari.
    La narrazione è abbastanza scorrevole.
    La sensazione di vuoto e spaesamento è resa bene, nel reiterarsi di riferimenti al vuoto, alla noia e nella descrizione dell’ambiente (interno ed esterno) che pare permeato dalla stessa sensazione di desolazione. Il riferimento alla pastiera non è del tutto calzante: più che una “colpa”, le si dovrebbe attribuire un merito in questo caso.
    Un uso della punteggiatura decisamente sovrabbondante, talvolta fuori luogo o proprio scorretto. Alcuni errori nei rapporti fra i tempi verbali. Un “le” mal concordato (“il sole, l’inizio del caldo, le danno quel sapore …”, riferito alle feste pasquali..!).

  3. La costruzione delle frasi non è sempre efficace, risultando spesso contorta e poco scorrevole. Soprattutto nella parte centrale del racconto, i pensieri della protagonista appaiono poco chiari e contraddittori: non è plausibile che una persona possa essere allo stesso tempo tremendamente annoiata (con la voglia di andarsene a letto) e in trepidante attesa di qualcosa.
    Funziona piuttosto bene la parte finale, da quando la protagonista decide di scendere in strada. Ripartirei da qui.

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