23 – VENTIQUATTRO

2 Dic di editor

23 – VENTIQUATTRO

“Tutta colpa della pastiera… si nun pòzzo vverè eccriatur

Due marmocchi di 5 e 7 anni, capelli ricci e arrugginiti, lentiggini ammonticchiate sulle gote, vestiti come gemelli: calzoni alla zuawa, camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, aderente sul grande, non per moda, ma per i kili di troppo, abbondante sul minore, perché precocemente ereditata. Giacca di velluto dalla maniche lise e gomiti rattoppati in tinta coi pantaloni, papillon nero a pois bianchi, reduci da chissà quale altra precedente cerimonia.

Picchiettando nervosamente la punta della scarpe luride sull’inginocchiatoio della panca che ospitava oltre loro il cugino e la cugina, attirarono più di uno sguardo indispettito.

Pasquale o’ cecat , seduto alle loro spalle, cadde sulle ginocchia come folgorato sulla via di Damasco, incurvò la schiena appoggiando gli avambracci sulla panca dei monelli, guardò in alto quasi a cercar approvazione o più probabilmente portandosi avanti nel chieder perdono, prese tra il pollice e l’indice l’orecchio sinistro del piccolo Mimì e quello destro di Ciro, li avvicinò alla propria bocca, fiatandogli due sole parole, non prima di avergli fatto fare un quarto di giro dell’orologio: “A firnimm?”

Gli orecchi de ccriatur, -come amava chiamarli lui- divennero anche più rossi dei capelli. Due grosse lacrime silenziose bagnarono le guance di Totò, mentre Ciro gli stringeva la mano a cercar di consolarlo, rimanendo con lo sguardo fisso al tabernacolo.

Alla fine della funzione, le mani di Pasquale brancavano questa volta la destra e sinistra dei due fiammiferi ambulanti. Dimenticato il bruciore gli uni, e ottenuto il perdono l’altro, si incamminarono sulla piccola via laterale dai mille rivoli ancor più piccoli. Un budello dal ciottolo antico e sconquassato, che ospitava i banchi vecchi: piccole botteghe con mezza vetrina, per lo più corrispondente alla parte fissa della porta d’ingresso, ancora in legno massello, verniciate e riverniciate dozzine di volte nell’arco della loro vita, ora verdi, ora ocra, ora caffelatte, dal crepitio croccante all’apertura, che vien da chiedersi come fanno a starsene ancora in piedi.

Telai di biciclette mutilate recluse forse per l’eternità da una catena al lampione, vecchie comare col fazzoletto in testa su sedili di paglia a vender sigarette di contrabbando, motorini promossi a minipullman, Fiat Ritmo a gas, elevate alla più blasonata motorizzazione Abarth.

O’ cecat amava perdersi tra quei rivoli la domenica mattina, dopo la messa.

Figlio di poveri contadini del casertano richiamati sotto il Vesuvio dai segnali di fumo delle ciminiere delle industrie, lo era diventato anche più, quando a vent’anni ingravidò Gerardina, figlia di Maria a’ castagnar e toton o’pescatore, occupanti altre due stanze, nella corte do Scuppulid, dove era cresciuto.

Svoltato l’angolo si ritrovarono aderenti alla porta a vetri di una bottega nella quale si poteva vedere frontalmente, un banco straripante di sfogliatelle, babà, zeppole e su tutta una grossa pastiera. Fu proprio quella che inchiodò le scarpe di Mimì alla vetrina.

Due occhi di cerbiatto, lucidi e gonfi, scintillanti quanto i capelli, incrociarono quelli di Pasquale.

Complice la terza elementare, capì subito che fitto, bullett e cambiali non gradivano la pastiera.

Il volto si rabbuiò, gli occhi si iniettarono di sangue. Strattonò nervosamente Totò e riprese a passo ben più sostenuto il ciottolo che si faceva in salita, perso in chissà quali pensieri.

Saranno trascorsi 15 minuti, quando si accovacciò, appoggiò le braccia sulle spalle dei due a formare una combriccola, bisbigliò qualcosa velocemente, si rialzò e tornò sui suoi passi a grandi falcate, a rischio di scapicollare sul selciato impervio, lasciando i ragazzini in mezzo alla strada.

Dopo quasi un’ora eccolo riapparire. Trafelato, madido di sudore, correre in salita con un la pastiera in mano, senza incarto, senza confezione, rimasta miracolosamente in equilibrio nonostante i tranelli nascosti tra i ciottoli.

Confidava di dileguarsi nei mille rivoli, confidava di far nascere un sorriso ai ccriatur, ma queste, lasciate sole in mezzo alla strada, erano già in compagnia di due Carabinieri ai quali non dovette nemmeno dar risposte, perché già raggiunti dal commesso della pasticceria.

24: e’ gguardie


3 Commenti

  1. Bello! La trama è “verace” al punto giusto e le figure di bambino tratteggiate ricordano da vicino gli scugnizzi dei vicoli di Napoli. L’incedere del racconto permette al lettore di immedesimarsi e alla pastiera di avere il giusto ruolo. Davvero ben scritto.

  2. Un racconto molto vivace, piacevole, divertente. Le descrizioni sono vivide: sembra di vederli, questi due ragazzini in Chiesa, incapaci di stare fermi, e il loro papà che li riprende … Così come il quartiere, dipinto con un lessico variopinto estremamente efficace e in perfetta sintonia col contesto. Ciliegina sulla torta: l’arguto riferimento finale al lotto.
    La narrazione è fluente, il linguaggio vanta espressioni spesso creative e spiritose.
    Qualche piccola imprecisione nell’uso della lingua: le biciclette “recluse” (l’aggettivo non è usato in modo corretto…); le “comare” (il plurale è “comari”)… Non sempre adeguata la punteggiatura. Nell’insieme un lavoro ben fatto!

  3. Lo stile e il ritmo della narrazione corrispondono all’ambientazione dei vicoli di Napoli e ai personaggi. La storia è semplice, nella migliore concezione del termine. La parte finale riesce a essere splendidamente agrodolce.
    Ogni singola parola è curata con passione e incredibilmente efficace.

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