Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
“Ricordo bene, quella giornata iniziò nei migliore dei modi…”
Guardo mio padre Mohammed, il cacciatore; indovino nell’oscurità illuminata dalle braci il suo volto, la ragnatela delle rughe, forse una lacrima zizagare tra di esse, inumidirgli le labbra…
“…Avevamo appena recitato il Fajir, davanti al rosa dell’alba, quando lui arrivò.
E il rosa divenne rosso e fiamma. Il vento sottile, ululato…Sei stato coraggioso, poco fa, Aziz. Bravo”
Mi aveva guardato diritto negli occhi, poi con le due dita che gli rimanevano della mano destra stretto il mio polso sinistro forte, troppo forte.
Coraggioso…
Mi guardo le mani intatte, le vesti appena strinite.
Coraggioso, io, ? Ma va. Non serve, il coraggio, quando si sa come.
Non dirti fesserie, Aziz, tremavi come una foglia, poche decine di minuti fa.
D’altronde era stato per me, a ogni buon conto, la prima volta. La prima volta che attraversavo i vapori bollenti, la prima volta che mi trovavo ad un passo dalla bestia, la prima volta che alzavo il braccio e colpivo uno dei due cuori dell’animale mentre il mio compagno di caccia trafiggeva l’altro, nello stesso, identico istante.
Quanto ci eravamo allenati, mio padre e io, per arrivare a quella perfetta, quasi magica sincronia…
Prima con i materassi sfondati della vecchia Fatima, poi con gli agnelli di Soukeima, poi..
“Come facevi a sapere che l’avremmo trovato qui, papu? “
Lui ravviva un poco le braci…
“In realtà non ne ero sicuro; c’erano almeno altri tre posti dove si sarebbe potuto nascondere…Ci è andata bene, per volere del Misericordioso”
Mentre rispondeva, aveva alzato gli occhi verso il minareto che lentamente riemergeva dai vapori e poi addentato un altro pezzo di carne.
“Sei stato il primo a scoprirlo”
“Il primo, già. Io, Mohammed Mouhili, il cacciatore di draghi. Eppure era così ovvio”
“Ovvio, papu ?”
“Ma sì…tu cosa fai dopo aver lavorato nei campi o camminato per ore dietro alle capre riportandole all’ovile…cosa fai quando il sole è accecante di caldo?”
“E cosa vuoi che faccia, papu? Mi tuffo nel torrente che corre dietro al villaggio e quando è in secca…ah, una bella, lunga, terribile doccia gelata non me la toglie nessuno!”
“ la gente ha paura, di queste bestie, Aziz. E ha ragione. Devastano, uccidono, bruciano tutto quello che trovano sulla loro strada, senza pietà, senza ragione. Poi se ne vanno, su per il cielo, come demoni sputati dalla jahannam, lasciando nell’aria quell’infernale odore di alcool Chi vuoi che li segua? A che pro, quando ci sono ustioni da fasciare, piaghe da pulire, incendi da domare?”
“Tu l’hai fatto, papu…”
“Già, l’ho fatto: sono fuggito, vomitando. Via da quegli occhi così assurdamente bianchi incastonati come perle nel grumo di carbone che era, ormai, il volto di Selma.
Via, ricordando (che assurda la mente umana!) quando bollente di febbre l’avevamo immersa nelle acque gelide del fiume, mentre i venti dai monti portavano già odore di neve…”
Aveva di nuovo guardato in faccia me, il suo unico figlio.
“Fu allora che capii. Quanto deve essere caldo, il corpo di un drago, dopo aver incendiato i suoi umori e averli vomitati per ore e ore? Come può raffreddarsi, velocemente, pena la morte?”
“Gettandosi in acqua…”
“Gettandosi in acqua. Gettandosi in acqua. Ma dove?”
“Niente fiumi, il mare è troppo lontano…una piscina, vero, papu?”
“Sì, una piscina, una grande piscina. Dove raffreddarsi, riposarsi, magari anche giocherellare, chi sa. Da cui, ore dopo, ripartire”
“Una piscina come la vasca davanti al palazzo di Abd al Mu’min, per esempio. Esattamente dove ci troviamo ora, non è così?”
I vapori si sono dissolti completamente, ora, e il minareto della Kutubiyya è perfettamente visibile alla luce piena della luna.
“Sei sicuro di non volerne un boccone? Sa di pollo”
Guardo il pezzo di carne, poi mio padre.
Abbasso la testa, accenno a un no.
“Be’, quasi”
FINE
Dedicata a Mohammed, Aziz, Fatima, Raja, Selma e Soukeina, a cui per una decina d’anni ho portato, ogni quindici giorni, il pacco del Banco Alimentare
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Peccato che…
Ma sarebbe meglio partire dall’inizio. Eravamo in tre quel giorno, io, Massimo e Claudio.
L’impegno era andare a trovare Stefania reduce da un intervento.
Sapevamo che era dovuta andare in ospedale, non sapevamo perché. Ma dal momento che ce l’aveva detto, probabilmente, non era una cosa grave.
Massimo, che conosceva bene Stefania, disse che se non fosse stato così non ci avrebbe certo invitato.
Stefania era single per vocazione, viveva in un appartamento in centro, lavorava in proprio come consulente d’immagine. Era in quella veste che Massimo l’aveva conosciuta. Lui come agente di commercio ce la metteva tutta, gli mancava però la capacità di costruirsi un’immagine vincente. Così si era rivolta a lei, dopo aver scoperto il suo sito internet in cui prometteva di trasformare chiunque in un’icona di stile e savoir-faire, senza però rinunciare a sé stessi e al proprio modo di fare. In poco tempo, grazie a lei, l’avevamo visto cambiare. Via gli abiti color carta da zucchero, le cravatte sgargianti, le calze bianche, aveva cominciato a sfoggiare certi completi scuri su camicia bianca aperta sul petto, scarpe nere e calzini in seta. Oppure, polo color pastello, calzoni di lino chiaro e sneaker. Aveva cambiato montatura di occhiali, tagliato i capelli a zero e fatto crescere il pizzetto. Più sicuro di sé, aveva visto aumentare il fatturato, gli affari ora navigavano a gonfie vele. Io e Claudio avevamo assistito alla metamorfosi, all’inizio con ironico scetticismo, dopo con stupore, infine con una certa invidia. Poi, come quando ci si avvicina troppo ad un malato contagioso, ci sentimmo diversi, cominciammo a guardarci allo specchio, finendo per affidarci anche noi alle arti di Stefania. Che in meno di una settimana evidenziò i nostri punti deboli e li corresse, facendo anche di noi altre due icone di stile e savoir-faire. Claudio, che ha perfino cambiato auto per essere più in tono con la sua nuova immagine continua a fare il promotore finanziario, ma da quando ha cambiato pettinatura e stile di barba, sembra un altro. Anch’io, che faccio a tempo perso serate come pianista di piano bar, ho notato che la mia vita è cambiata da quando ho adottato uno stile più sobrio: dolcevita nera, giacca di tweed, jeans. E per gli ingaggi la mia agenda è piena fino a giugno.
Per cui ci era parso naturale non rifiutare l’invito, ma prima ci saremmo fatti un aperitivo.
Dopo tre spritz, leggermente annebbiati, acquistammo in tre un bel mazzo di fiori e mentre salivamo le scale per arrivare all’appartamento, avevamo l’aspetto di tre azzimati pretendenti.
Al suono del campanello sentimmo echeggiare da dentro una voce un po’ arrochita che ci autorizzava ad entrare. La porta era aperta.
Avanzammo oltre l’ingresso nel corridoio poco illuminato, come del resto le restanti stanze dove le tapparelle erano ancora abbassate, nonostante l’ora e la bella giornata fuori. Percepivamo un so che di stonato nell’essere immobili in quella penombra aspettando Stefania, che da un’altra stanza ci aveva detto intanto di accomodarci, in più l’aperitivo un po’ troppo alcolico cominciava a darci alla testa. Il soggiorno era in penombra, solo dalla tapparella leggermente alzata provenivano strisce di luce che rimbalzando da una specchiera proiettavano sulla parete effetti quasi caleidoscopici. Poco dopo comparve.
Quando accese la luce fu subito chiaro a tutti e tre che il famoso intervento altro non era che un’operazione di chirurgia estetica, e che non era particolarmente riuscito. Stefania aveva qualcosa di innaturale, il naso che una volta era solo leggermente aquilino adesso era piccolissimo e puntava un po’ troppo verso l’alto: la caricatura di un naso alla francese.
“Ebbene che ve ne pare?”
Tutti e tre pensammo la stessa cosa ma cancellammo l’espressione di stupore idiota dai nostri volti uscendo con espressioni entusiastiche tanto esagerate da suonare come moneta falsa.
“Dite sul serio o mi state adulando?”
“No davvero” disse Claudio che si tratteneva a stento, “sei bell..”
“Stai cercando di non ridere?”, ribatté Stefania in falsetto.”
“Certo che n…no!”
Massimo si guardava le scarpe per non scoppiare a ridere, ma erano evidenti i suoi sforzi.
“Fatti guardare, scusa…”, dissi io cercando di nascondere l’imbarazzo.
Poi accadde l’irreparabile. Claudio che non reggeva l’alcol, e aveva perso del tutto i freni inibitori, disse a mezza voce: “un’icona di stile e savoir-faire…”.
Persa ogni delicatezza, Stefania sciorinò una lista di improperi. L’ultima cosa che mi ricordo di quella giornata è l’immagine del mazzo di fiori che precipitava dalla tromba delle scale mentre stavamo uscendo frettolosamente dal portoncino.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi.
La sveglia crudele che suona, il pensiero martellante: “No dai, lasciami dormire un altro po’”. Poi un riluttante scivolare in bagno tra luci abbarbicanti e acqua troppo fredda. Il caffè che va di sopra.
Solite cose, tutto bene.
Poi, coraggiosamente, aprii la finestra per trovarmi davanti un muro di nebbia e l’ombra di rami sufficientemente vicini per poterli intuire. E, a quel punto, la rivelazione: sentivo il rumore di gocce, ma non le vedevo.
Come poteva essere che vista e udito non fossero coerenti?
Forse ero io. Eppure non avevo mai notato difetti di questo tipo. Strano.
Il problema era uno: dovevo decidere, determinare, se quel giorno pioveva o meno. Era iniziato tutto nel migliore dei modi e mi trovavo, dopo pochi minuti dall’inaugurazione di quella nuova giornata, già perplessa: anche un bambino sa dire se piove o meno.
Perchè le cose o sono o non sono. Ce lo hanno sempre insegnato a scuola: la risposta al problema è sempre una. In logica gli stati sono due: vero o falso. E questo estremo sunto è corretto, perchè su questo assioma abbiamo costruito macchine e rivoluzionato addirittura la società. Non potevo far cadere tutto – io.
Non mi piaceva non sentirmi sicura, perchè poi tutto appariva più appannato. Prima vedevo solo il mio sentiero, arzigogolato ma unico, poi era come se la prospettiva si allargasse e mi vedevo in un labirinto. Aiuto! Odio i labirinti. E pensare che tutto era iniziato nel migliore dei modi.
Il destino mi aveva giocato un brutto scherzo: ero obbligata ad accettare che non piovesse, ma che gocce cadessero sulle foglie… ed era ovvio che gli alberi non piangessero.
Ero proprio in loop, in un uroborico stato mentale che stava confondendo tutte le mie certezze.
Guardai il gas sporco del caffè fuoriuscito dalla moka e sentii una voce dire: “E questo lo chiami andare nel modo migliore?”
Di colpo i biscotti stantii non erano più sufficienti, la tovaglia briciolosa mi disturbava, addirittura la luce del lampadario era troppo fioca. Tutto stava gocciolando senza che piovesse.
Ecco, avevo fatto un casino. E non trovavo più la strada del ritorno.
In auto direzione lavoro: la solita coda.
E quella voce, ormai conosciuta, che sussurrava: “Ma chi è quello scemo che ti ha convinto che va bene così?”
Ero vinta, non sapevo rispondere.
Chi mi aveva convinto che la vita doveva girare intorno ad un lavoro, che tra l’altro ora scoprivo di non amare?
Certe cose non vanno messe in discussione: sono dogmi, leggi e chi non le segue è un frikkettone fuori dal mondo. Mentre io nel mondo volevo esserci dentro.
Ero stata bravissima fino a quel momento: avevo i miei profili social densi di buongiorni a sconosciuti e con ritratti tutti i pasti decorosi degli ultimi anni. Lasciavo che mi rovinassero tutte le cene a suon di notiziari deprimenti, poi ci si stupiva dei miei problemi di digestione.
Andavo a lavorare, timbravo il cartellino ed eseguivo. Andavo in palestra, prendevo la mia scheda ed eseguivo. Eseguivo. Eseguivo. Eseguivo.
La strategia del gioco era non avere tempo di chiedersi il perchè.
Ormai, nonostante la giornata iniziò nel migliore dei modi, ero alla deriva e tutti i perchè che non mi ero mai chiesta mi sovrastavano. Mi ricoprivano. Mi annegavano.
E annaspavo spaventata.
Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè?
Quella giornata iniziò nel migliore dei modi: la natura sussurrò nel mio cuore il pensiero della libertà e rimbombando dentro di me si creò un boato che dapprima fece scricchiolare, poi frantumò le mie catene.
Mi trovavo di nuovo al punto di partenza, ma questa volta vedevo tante diramazioni nel mio cammino. E non le temevo più. La nebbia era sparita.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, era mattina e venni al mondo in una cucina, tra il borbottio del caffè e le note di “Something stupid”.
La luce polverosa parlava di un sole raggiante e le tende svolazzavano di una brezza gentile che trasportava il profumo delle viole.
Son nato leggero, semplice e spontaneo come una pozzanghera quando piove.
Il mio papà era tanto orgoglioso, che decise di immortalarmi, ma non potendo per mia natura riuscire impresso su una pellicola, mi scrisse su un bel foglio di carta.
Non ho mai ricevuto un nome come quelli del calendario, ma di solito ci chiamano “desideri, intenti, propositi…”
Siamo di tanti tipi: quelli di una vita, quelli impossibili, quelli di settore come l’amore, l’ambizione, il denaro. Poi ce ne sono di loschi, illeciti, perversi, ma quelle sono altre storie…
Io son piccino, ma non per questo di poco conto. Mi definirei un “desiderio estemporaneo”, così, come ne nascono tanti, ispirato probabilmente da un momento di felicità.
Quando nasciamo, somigliamo ai bambini in due aspetti: non abbiamo malizia e non sappiamo dare un’età alle persone.
Guardavo il mio papà senza saper dire quanti anni avesse quell’ometto. Si muoveva adagio, ma fischiettava così bene, che mi metteva allegria!
Ricordo che arrivò una telefonata: “Sì? Urgente? D’accordo…”
Guardò l’orologio, poi mi prese tra le sue mani e con delicatezza mi piegò in due, riponendomi in verticale tra altri foglietti (meno belli di me).
Peccato, non vedevo più il sole e così flesso in due non sentivo l’odore delle viole. Intorno a me udivo parole ammonticchiate alla rinfusa “Ricetta… chilovatt… pane, latte…, Luisa” ed io stavo pensando a chi fosse Luisa, quando papà mi prese e mi piegò nuovamente, per poi ripormi nel taschino della sua giacca.
Mi piaceva star lì, era buio, ma sentivo il suo cuore.
Andammo nel suo ufficio a piedi ed io sbirciando fuori vidi i corridoi, le lampade, i tavoli e pensai che fosse più bella la cucina di casa.
Poi sul ritorno sentii un gran vociare, il suo cuore battere più forte ed un gran trambusto avvicinarsi.
Tolta che ebbe la giacca, mi ritrovai a spuntare pericolosamente dal taschino, quando uno scossone mi fece inevitabilmente cadere:
“Papà, papà!!” Gridavo per quanto potesse urlare un foglio piegato in quattro ”Papà, papà!!”, ma non mi sentiva ed io rimasi steso su un pavimento appiccicoso e freddo, tra tavolini, sedie e tutti quei grossi piedi che mi facevano paura.
Mi sentii sollevare da terra, riconobbi le sue mani e mi rincuorai.
Ero un po’ malridotto e qualcuno aveva impresso la sua impronta su di me, ma ritornato al sicuro, mi confortai nel mio vestito di fodera al battito del suo cuore.
Varcata la soglia di casa, vissi il momento più felice della mia vita: mi trasse dalla giacca e spiegatomi in tutta la mia ampiezza, mi lisciò con carezze così profonde e lunghe, che ne risi per il solletico.
Dio com’ero felice!
Poi mi tenne davanti a sé e ci guardammo in silenzio, fissi. In quegli istanti vidi i suoi occhi inumidirsi sotto le palpebre cedevoli e capii che il mio papà era ancora giovane.
Fuori il sole si spegneva piano come fosse stanco e la penombra avvolse tutta la stanza.
D’un tratto il naso di papà fece dei rumori rapidi e sconclusionati, svegliandolo di soprassalto.
Lesse di nuovo l’orologio e si sollevò con un profondo sospiro.
Quella sera guardò un libro senza leggerlo ed ascoltò canzoni senza fischiettare.
Io ero rimasto aperto sul tavolo.
Quando mi prese, mi ripiegò prima in un verso, poi nell’altro e andammo in camera. Feci appena in tempo a vedere una luna così grande da far paura, che mi depose nel cassetto del comodino.
“Ciao” mi sentii dire in quel buio,
“Ciao” risposi, “Chi sei?”
“Una lettera”
“È tanto che sei qui?”
“Sono arrivata per il tuo papà, che non era ancora primavera”
“E cosa volevi dirgli?”
“Ascolta…”
Porsi attenzione e nella notte che trascorse sentii molte parole, di cui ne ricordo solo alcune ammonticchiate alla rinfusa “Tanto tempo… caro… la tua… mi manchi… presto… mamma”
Suonò la sveglia ed io urlai “Papà, papà!!”, ma la sveglia continuava a suonare, “Papà, papà” nessuno fermava quella maledetta sveglia ed io soffocavo “Papà…” sentivo la mia voce spegnersi in un filo
“Papà… le viole… pa-pà… la non-na…”
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, con una mattina da incorniciare e appendere nelle stanze della memoria. Era sabato e né io né Stefano dovevamo lavorare, quindi restammo a poltrire fino a tardi, finché lui si alzò per preparare il caffè. Me lo portò a letto e io lo ringraziai nel modo che gli piaceva di più.
Allora perché sono qui?
Ci riappisolammo abbracciati finché squillò il suo telefono. Lesse il nome sul display e andò a chiudersi in bagno per rispondere. Avrei dovuto intuire qualcosa, non era nel suo stile nascondermi una telefonata, ma mi sentivo talmente bene che non pensai a nulla.
«Devo andare. Il capo ha bisogno di me. Un’oretta al massimo.»
«Uff…» fu tutto quello che riuscii a dire.
Si vestì in fretta e uscì.
Io rimasi a crogiolarmi sotto le lenzuola, ma non era lo stesso, da sola. E poi la vescica premeva.
Andai in bagno. Quell’adorabile sciocco di Stefano, nell’urgenza, aveva lasciato lì il telefono. Resistetti alla tentazione per tre secondi, poi lo presi e mi sedetti sul trono. Con sorpresa scoprii che c’era il pin di blocco, doveva averlo messo di recente. Sfidai me stessa a scoprirlo, mi piacciono i giochi.
Allora perché sono qui?
Provai la sua data di nascita. No. La mia. Niente. Eccolo… Che dolce, aveva usato la data del nostro anniversario.
La curiosità ebbe la meglio, andai all’ultima chiamata. Una P.
Come si chiamava il suo capo? Giorgio.
Lo stomaco mi si attorcigliò: aveva mentito.
Un tarlo iniziò a rosicchiare, subdolo.
Mi fece andare su WhatsApp, dove trovai una chat con Paola, iniziata da una decina di giorni.
Paola… Chi era quella puttana?
Lessi a caso, la curiosità sostituita dalla rabbia.
Lei, martedì: Devo vederti, stasera. Solito posto. Con l’icona di un letto.
Quella sera ufficialmente aveva lavorato fino a tardi. Bastardo.
Cominciava a non piacermi più, quel gioco.
Scorsi indietro, a una settimana prima, con la vista annebbiata.
Paola: Amore, come stai? Troia.
Lui: Benissimo, dopo stamattina. Mi manchi. L’icona di una bocca
Stronzo figlio di…
Il tarlo mi strappò un pezzo di cuore.
Paola: Non ne ho mai abbastanza, di te. Schifosa puttana.
Lui: A chi lo dici… Icone di baci.
Il tarlo mi strappò l’anima.
Lui tornò dopo molto più di un’oretta.
Io l’aspettavo.
E adesso voi mi dite…
Allora è per questo che sono qui.
Non voglio ricordare di averlo aggredito col coltello, il sangue che sgorgava… E neanche le mie lacrime, la mia furiosa disperazione…
Voglio solo ricordare quella mattina: l’ho incorniciata e appesa nelle stanze della memoria.
FINE
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi.
Mi ero appena svegliato molto riposato nonostante avessi lavorato tutta la notte e, girandomi lentamente nel letto – i movimenti ancora avviluppati dalle spire dei sogni – vidi al mio fianco, sulla parte di letto di solito occupata da Sabrina, il suo morbido pigiama invernale, buttato alla rinfusa e ancora profumato del buon tepore del suo corpo.
Strana cosa. Non aveva mai, che io ricordassi, tolto il pigiama senza piegarlo.
Dopo qualche rapida ma appuntita giostra di pensieri attribuii il fatto alla fretta – magari si è svegliata tardi, la dormigliona, pensai con tenerezza – e mi alzai.
Attraverso i vetri velati dalle tende filtrava una luce pulita, un sole insolito per quella mattina di fine inverno, ma che già faceva sentire quasi sensorialmente il diradarsi del gelo, spalancato poco a poco dal tocco delicato della primavera incipiente.
Nel bagno la vista delle bottigliette disposte in ordine di colore sulla mensola mi fece affiorare alle labbra un lieve sorriso, il sapore di lei, di casa, una piccola conferma che riempiva la crepa incongruente creatasi nei miei pensieri poco prima, con sottile rumore d’incastro, una tessera di puzzle che trovava pace e riposo nel proprio posto, l’unico posto giusto. Tlac.
Mi guardai allo specchio. Il sonno era stato scarso ma ristoratore, i miei occhi aperti e luminosi lo confermavano… anche se intorno alle palpebre andava accumulandosi da giorni un alone nero, spesso e pesante.
Ovvio. Alla fine della settimana la stanchezza era naturale.
Tutto normale.
Ma anche questa briciola di certezza fu spazzata via, non appena guardai oltre la soglia della cucina.
Ero senza fiato.
Ciò che, in camera, era sembrato solo la caduta anomala di un piccolo, disordinato fiocco di neve, in cucina si manifestava come una valanga. Mi sembrava che niente fosse più al suo posto.
Non sapevo cosa fare, mi sentivo un leone in gabbia. La testa partì per conto suo e disegnò scenari di tutti i tipi, primo fra tutti lo spettro ghignante e melmoso di una possibile orrida separazione.
Mi alzai di colpo dalla sedia dov’ero rimasto seduto per non so quanto e, così facendo, lo sguardo mi cadde su un foglio che filtrava dalla fessura del portone di entrata.
Immediatamente mi fiondai verso di esso, aprendolo e leggendo.
Dobbiamo parlare.
I miei sospetti erano, dunque, confermati. il cuore mi precipitò dal petto perdendo la sua regolarità, vampate tremanti mi incendiarono la pelle… fino a quando non girai il foglio dall’altra parte e non lessi di nuovo.
SONO INCINTA!
Non potevo crederci. Un altro colpo al cuore, ma stavolta per un motivo completamente diverso. Ero solo gioia, pura gioia.
Spalancai la porta e trovai sul pianerottolo la vicina, la signora Trelbi.
Le mostrai il foglio, raggiante, senza riuscire a dire una parola.
Sul volto di lei si dipinse l’espressione più stupita immaginabile.
Poi mi scapicollai per le scale, verso Sabrina, senza poter aspettare oltre.
***
– Signora Trelbi, mi ripeta, per favore, la sua testimonianza.
L’infermiere era sulla porta. La signora Trelbi cominciò.
– La giornata è iniziata nel migliore dei modi. Stavo tornando a casa – quando il signor Mivi ha aperto di scatto la porta – uno spavento! – e mi ha mostrato gioioso il palmo della mano, come se ci fosse scritto qualcosa. Invece non c’era niente. Niente. Mi sono allarmata e mi sono decisa a chiamarvi. Era da tanto che, abitando dirimpetto, vedevo parecchi comportamenti strani in lui.
L’infermiere prendeva appunti sul suo taccuino.
– Abbiamo trovato la casa completamente a soqquadro e indumenti femminili sparsi in varie stanze. Lei conferma che il signor Mivi viveva solo, senza una relazione stabile? Non l’ha mai visto entrare in casa accompagnato?
– No, viveva da anni completamente solo e non usciva quasi mai. Se ci fosse stato movimento me ne sarei accorta, stia sicuro.
– Ok, non si preoccupi. D’ora in poi, nel nostro istituto, la salute mentale del signor Mivi sarà accudita e salvaguardata.
La signora Trelbi si strinse di più nello scialle, come per un brivido improvviso.
– Grazie. Mi spiace molto. Povero ragazzo, era sempre così solo…
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…Mi sentivo bene, pronta per andare a scuola; durante il tragitto incontro la mia professoressa Mari, “ciao Debby, vuoi un passaggio?”, “no” dico a testa bassa.
il respiro si fa affannato, mi paralizzo in mezzo alla strada, le mie gambe non mi seguono, “aiutatemi” grido dentro di me. “sono Debby, ho 14 anni e sto andando a scuola”, lo ripeto nella mia testa finché non riprendo contatto con la realtà.
Riesco a calmarmi e continuo a camminare verso la scuola: sono sudata, stanca, sfinita!
“Debby alla lavagna”, -ti prego non farmi alzare davanti a tutti-,: “Debby alla lavagna!” La prof sbatte un pugno sul tavolo, ecco di nuovo la sensazione, tutti mi guardano; tengo in mano il gesso, la mano mi trema, il cuore inizia a battere forte, corro in bagno ,il panico si fa prepotente, cerco freneticamente nelle tasche ed ecco che afferrò la lametta, abbasso i pantaloni, appoggio la lametta sulla coscia, stringo i denti perché so che mi farà male ma la voglia di deviare quella cosa è più forte, spingo sulla gamba, guardo la mia carne che si taglia, solo quando vedo il sangue respiro, come se tutto quel dolore avesse la capacità di uscire da quel taglio.
Avevo iniziato a farlo qualche mese prima, quando tornando da scuola a casa mia c’era un ospite, un amico di mamma e papà.
A notte fonda avevo sentito i suoi passi arrivare, avevo tirato la coperta fino a sopra la testa, ho sentito la maniglia della porta aprirsi, ho messo le mani sulle orecchie e le ho premute fino a sentire male -ti prego, vai via ti prego vai- si era avvicinato a me leccandomi la faccia, mi aveva tappato la bocca, mi dimenavo come una pazza, scalciavo mentre lui mi sfilava i pantaloni, il peso del suo corpo mi schiacciava, il cigolio del letto mi rimbombava nella
orecchie, “stai zitta” mi ripeteva ad ogni spinta, tenevo gli occhi stretti per non dovermi portare per tutta la vita l’immagine di un animale, sudato che puzzava di marcio e di sudore, spietato e con gli occhi iniettati di cattiveria. La mattina dopo mi sentivo sporca, marchiata, spezzata dentro; le mani mi tremavano tanto da non riuscire a tenere il cucchiaio in mano, quando sono uscita di casa per andare a scuola mi sono bloccata in mezzo alla strada per la prima volta.
Torno in classe, ora mi sento meglio, la prof mi ha messo una nota, solo il pensiero di doverla fare vedere a mio padre mi terrorizza.
“Sei una buona a nulla! non sei neanche capace di stare davanti ad un insegnante!”, ecco uno schiaffo, eccone un altro.
Tengo le ginocchia strette tra le braccia, stretta come per darmi l’abbraccio che avrei voluto, che mi avrebbe ricomposto il cuore e l’anima. Prendo la lametta dal mio zaino, tiro su la manica della felpa, stringo gli occhi e i denti e la storia si ripete ancora.
Mentre guardo la tv una psicologa parla, dice che per affrontare le emozioni bisogna scrivere, ci provo, comincio a scrivere tutto ciò che ho provato, che mi è successo, uso le parole che non riesco più a pronunciare: stupro, picchiato, tagliare, mamma, papà, suicidio, ponte, 11:00; sento un rumore, accartoccio velocemente il foglio e lo butto nello zaino.
Entro a scuola, mentre cammino in mezzo al corridoio il gruppo dei bulli mi spintona, lo zaino mi cade e il contenuto si rovescia sul pavimento.
Ho continuato a camminare finché non sono arrivata al ponte. sentivo i polmoni riempirsi; le vertigini mi solleticavano la mente, mi tenevo alla ringhiera ed oscillavo avanti e indietro. Inizio ad avvicinarmi al bordo, chiudo forte gli occhi, una mano mi afferra, la mia professoressa Mari, stava lì a stringermi la mano, mi ha tirato, ed io, come una piccola foglia caduta dall’albero, smarrita e fragile, mi sono lasciata stringere. “Ho trovato il tuo foglio per terra in corridoio”. Quell’abbraccio era quello che avevo sempre sognato, quello che ti scompone e ti ricompone l’anima. Quel giorno un angelo raro dal nome Mari mi aveva teso la mano salvandomi la vita. Mari, mi aveva tenuta con se. Avevo trovato una madre, una persona che aveva sentito quel grido nel silenzio. Non bisogna mai stare zitti davanti alla violenza, dobbiamo urlarla, dobbiamo abbatterla, L’amore può salvare la vita, siamo tutti angeli se scegliamo di esserlo e quella sarà una giornata che inizierà veramente nel migliore dei modi.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Fui svegliato da un raggio di sole che filtrava dalle imposte invece che dal fastidioso suono della sveglia.
I lievi rumori provenienti dalla cucina dicevano che mia moglie si stava già prodigando a preparare la colazione.
La raggiunsi, la baciai e la feci accomodare al tavolo; mi sorrise col suo particolare sorriso di cui tutti si innamorano. Tanti si innamorarono, ma fui fortunato, scelse me!
Facemmo colazione insieme. Altra ottima notizia… a causa dei nostri orari non succedeva spesso.
Parlammo spensieratamente della nostra vita, del lavoro, dei figli; il piacere tranquillo e sereno della routine.
Uscii per recarmi al lavoro. L’erba del prato era stata tagliata e il prato ripulito e sistemato: forse qualcuno dei nostri figli stava diventando grande.
In garage l’automobile era stata lavata e l’interno profumava di pulito… decisamente, tutti i nostri figli stavano diventando grandi! Sorrisi a quel pensiero.
La giornata iniziava proprio nel migliore dei modi.
Incredibilmente, il traffico fu scorrevole, decisamente inconsueto per la nostra cittadina, non trovai neppure un semaforo rosso!
Giunsi rapidamente sul posto di lavoro ed ebbi persino il tempo di fare alcune divertenti chiacchere con i colleghi prima di cominciare.
Prendemmo le consegne dal turno che ci precedeva.
Niente da segnalare; tutto procedeva perfettamente. Dopo 55 ore la missione era in linea con i tempi previsti.
L’atmosfera era rilassata e mi concessi di pensare che sarebbe stata una tranquilla giornata lavorativa.
Mi sedetti alla mia postazione e dal controllo preliminare risultò che tutta la strumentazione funzionava perfettamente.
La prima ora passò tranquillamente tra controlli di routine, comunicazioni di servizio e nulla da segnalare, il che era abbastanza insolito, perché anche se il programma era stato controllato e ricontrollato più volte, c’era sempre la possibilità che qualcosa andasse storto.
Decisamente la giornata procedeva nel migliore dei modi.
All’inizio della seconda ora di servizio l’evento si scatenò: accadde ciò che rese quella giornata meravigliosamente iniziata (e anche qualcuna delle seguenti), una delle peggiori giornate che io abbia mai vissuto.
Fummo costretti a reinventare il nostro lavoro, ad affrontare eventi imprevisti con modalità del tutto nuove, bisognava farlo rapidamente e senza sbagliare!
Un singolo, piccolo errore a quel punto poteva essere fatale, poteva costare la perdita di vite umane!
Non potevamo permettercelo, sarebbe stata la fine dei nostri programmi futuri!
Rovinammo la giornata a tante persone, le chiamammo e le facemmo intervenire in nostro aiuto.
Tutti quelli che avevano partecipato alla preparazione della missione furono interpellati e fatti intervenire, senza nessuna eccezione per nessuno!
Mai ci fu così tanta attività nel nostro centro, che pure era sempre attivo e funzionante.
Ricordo bene quel 13 aprile del 1970!
L’evento fu quel messaggio che arrivò dalle stelle:
“Houston, abbiamo un problema!”
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Correvo spensierata a passo di crociera lungo un sentiero di campagna, proprio dietro casa mia. Il jogging mattutino era una delle poche eccezioni alla regola, la ferrea disciplina che mi teneva incatenata per otto interminabili e sudatissime ore alla scrivania di un anonimo ufficio della sede centrale del Banco di Pistoia. Erano circa le sei e trenta, nessun altro in giro, tranne qualche sparuto cane randagio. Nulla di insolito tranne quella strana e cupa sensazione di presagio. Mi sentivo degli occhi addosso, ma voltandomi indietro non vidi anima viva; percepii un debole accartocciarsi di foglie calpestate, lo spezzarsi di qualche ramo in mezzo alla macchia tutta attorno, che mi fece rabbrividire, quindi decisi di virare all’improvviso e ritornare a casa. Dopo qualche metro, un’ombra scura mi venne addosso, sentii un forte dolore dietro la nuca e caddi a terra semi incosciente. Mi sentii afferrare violentemente per le caviglie e fui trascinata come uno straccio, nonostante scalciassi per liberami, all’interno della boscaglia, dietro un cespuglio. Non urlai, perché sapevo che quel sentiero a quell’ora era poco trafficato, ma soprattutto per non sprecare energie utili per difendermi. Il volto dell’assalitore era coperto da una sciarpa blu notte e portava il cappuccio. L’unica cosa che riuscii a notare era quell’orribile sguardo vitreo, di un celeste sbiadito senza emozioni. Percepii con disgusto il respiro affannato e pesante che puzzava di alcool. Sembravo una bambola di pezza in mano ad un bambino sadico. Ma quando mi resi conto che le sue pesanti mani cercavano di tirarmi giù i pantaloni, ebbi un sussulto e reagii, spingendolo violentemente indietro, ma quello con un pugno sul viso mi ributtò a terra. Forse c’era qualche sasso dietro il mio fianco che mi procurò un dolore lancinante ma allo stesso tempo fu provvidenziale, perché lo afferrai e con quello lo colpii con tutta la mia forza sulla tempia sinistra. L’ignobile balzò su e io ne approfittai per mettermi in ginocchio ed assestarli, con il medesimo sasso, una botta al ginocchio destro. Mi rizzai e vedendolo piegato per il dolore, lo respinsi con un forte calcio in mezzo alle gambe e gli scagliai addosso la grossa pietra. Nello stesso istante scappai. Corsi con la forza della disperazione, arrivata sul sentiero, inciampai per colpa di un ramo di rovo; mi rialzai puntando le mani tra le spine. Barcollai per qualche passo, poi ripresi a correre e non mi fermai neppure a sbirciare se fossi inseguita. Mi sentivo braccata. Il cuore batteva a mille come quella della gazzella inseguita da un leone.
Una volta giunta a casa, mi ci barricai dentro. Salii al piano superiore per vedere se qualcuno mi avesse seguito, ma la strada appariva silenziosa e deserta come poco prima che uscissi. Tremavo, avevo i brividi. Avevo il bisogno urgente di un bagno caldo.
Mi lavai fino a scorticarmi la pelle. Quella volta il sapone non avrebbe lavato via l’umiliazione, la rabbia per ciò che avevo subito. Le lacrime, come cascate mute scorrevano insieme all’acqua che grondava dai capelli sporchi di terriccio. Indossai distrattamente l’accappatoio e mi sedetti sul letto con il capo chino, senza più pensieri ma tormentata dal ricordo di un’immagine: l’ombra demoniaca in agguato che sbuca felina da un cespuglio. Non ha volto, né nome ma ha solo l’orribile proposito di fare del male, di soddisfare la sua fame insaziabile di perversione. Sollevai lo sguardo e incontrai la mia figura sullo specchio, quasi non mi riconoscevo con quell’occhio tumefatto e il labbro gonfio. Sentii una fitta al fianco, ma non era nulla nei confronti della sofferenza che provavo per la mia dignità di donna calpestata. Un nuovo anello si aggiungeva alla catena: una libertà limitata dalla paura avrebbe angustiato la mia già vuota e solitaria esistenza. Cambiare casa, cambiare città, cambiare lavoro non avrebbero attenuato quel senso di inquietudine nel sentirsi fragili ed impotenti di fronte alla malvagità umana! Poi la razionalità prese il sopravvento, quando guardando fuori vidi la strada rianimarsi, i bambini andare a scuola, i negozi aprire le serrande. Ritornò il coraggio, la vita…ma la ferita tardò a rimarginarsi.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Non solo lui, conosciuto on line tre mesi prima, mi aveva mandato un mazzo di rose rosse via whatsapp, ma le mie amiche mi avevano anche invitato a un aperitivo virtuale. Inoltre il corriere mi aveva consegnato un meraviglioso maglione azzurro, quello ordinato su internet il weekend precedente e che non vedevo l’ora di ricevere. A completamento di una mattina perfetta ero riuscita a prenotare un viaggio meraviglioso: la domenica seguente avrei visitato le migliori spiagge dei Caraibi. Con pochi click e grazie a una nuova applicazione avrei avuto l’opportunità di sentirmi su una vera e propria nave da crociera. Tutto ciò che era accaduto durante le prime ore di quella giornata preannunciava qualcosa di magnifico. Dovevo solo saper aspettare. Aspettare altre rose virtuali da parte del mio spasimante; aspettare un altro pacco dal corriere; aspettare l’ora dell’aperitivo e aspettare la partenza della nave. Tutto qui. E proprio quando dissi a voce alta “tutto qui” incominciai a sentirmi vuota e insoddisfatta. Volevo delle rose vere, uno spasimante in carne e ossa, provare un maglioncino in un negozio: uno di quelli dove c’erano i camerini con delle tende fastidiose che si chiudevano a fatica. E, cosa strana, iniziai a desiderare di partire per un viaggio. Un viaggio vero! Senza usare il computer, ma prendendo un aereo. In cerca di sostegno comunicai il mio stato d’animo su Facebook, Twitter e anche su Mess Republic, il social più cool del momento. Nel giro di pochi minuti i miei post furono inondati di commenti, per lo più insulti. Alcuni avevano scritto che ero solo un’ingrata perché la vita virtuale era un’occasione per non soffrire; altri invece arrivarono persino a darmi della poco di buono. Dopo aver letto quelle parole mi sentii soffocare e spensi il computer. Staccai il wi-fi e, per la prima volta dopo tanti mesi, mi ritrovai sconnessa dal mio mondo. Un mondo al quale avevo regalato la vita e che, in cambio, mi aveva insultato senza motivo. Non avendo internet a disposizione non potevo ordinare del cibo a domicilio e non potevo neppure consultare siti di ricette. Mi ricordai così di un vecchio libro regalatomi da mia nonna. Non ero più abituata a sfogliare pagine di carta vera e neppure a leggere parole scritte con il “ch” invece che con la “k”. Era tutto così strano eppure così affascinante. Seguii passo passo la ricetta di un sugo alle verdure e dopo pranzo, visto che non volevo riattivare il wi-fi e non avevo nient’altro da fare, iniziai a preparare dei biscotti. Ero inebriata dal profumo che proveniva dalla cucina: cioccolato, vaniglia e tanti ricordi di quando ero bambina. Era come se dal forno uscisse una magia. Io non lo sapevo ancora, ma era la magia del risveglio. Aprii le finestre perché volevo inondare il cortile di quel profumo e, per essere sicura che ciò accadesse, misi sul balcone alcuni biscotti. Poco dopo, uno ad uno, i miei vicini di casa uscirono sui propri balconi per capire che cosa stesse succedendo. Qualcuno si spaventò nel vedere così tanta gente affacciata tutta insieme. Non eravamo più abituati a vederci dal vivo invece che attraverso lo schermo di un computer. Qualcuno si rallegrò di quella novità e i meno timidi chiesero di poter venire a casa mia per assaggiare i biscotti. Per la prima volta dopo tanto tempo ricevetti degli ospiti. Eravamo tutti un po’ spaesati perché era difficile fare una conversazione senza usare alcun tipo chat, ma i biscotti, in qualche modo, ci aiutarono a rompere il ghiaccio. Mi sentii raggiante. Per la prima volta avevo capito quanto fosse bello vivere nel mondo reale. Quando tutti andarono via, mi ritrovai di nuovo sola, ma con una splendida consapevolezza. A distrarmi da quel pensiero fu il suono del campanello. Forse qualcuno dei miei vicini aveva dimenticato qualcosa. Aprii la porta per vedere chi era e mi trovai di fronte un ragazzo con un mazzo di rose rosse.
“Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi… quello che non ricordo è: che giornata era?”
Vedevo il mio riflesso scomparire sulla porta della metropolitana che si apriva, mentre la voce, la solita voce, dall’altoparlante annunciava “fermata Duomo”.
Era una mattina normale, il solito viaggio in metropolitana, la solita calca che proprio in Duomo si diradava, come ogni giorno. Niente di diverso, se non quel pensiero che si faceva sempre più insistente. Non era il ricordo di un luogo, né di un’avventura, era il ricordo di una sensazione. Di una tranquillità che quella mattina mi fece rendere conto di qualcosa che mi spaventò.
“Quanto tempo è che non penso che una giornata sia iniziata bene? Perché non ricordo quella sensazione?”
PORTA ROMANA, FERMATA PORTA ROMANA
Quando la voce annunciò la mia fermata, ero già sceso, immerso tra la folla che procedeva tutta nella mia stessa direzione, senza che nessuno si dirigesse al mio stesso luogo. Non conoscevo nessuno, mi sentii solo. Cercavo di ricordare l’ultima bella giornata, iniziata e finita bene, con il sorriso sulle labbra. Alzai lo sguardo che seguiva la crepa sul marciapiede e non trovai il semaforo, né il bar all’angolo dove ogni mattina non riuscivo a fermarmi a bere un caffè perché troppo in ritardo. Avevo sbagliato strada.
“Cazzo, ora arrivo tardi davvero, altro che caffè”
Mi precipitai dall’altro lato della strada e cambiai direzione, bar e semaforo erano ancora li.
“Per ricordare una giornata iniziata bene mi sto rovinando questa”, pensai.
Dall’altro lato della strada una madre inveiva contro un’automobile. Un taxi per non perdere il semaforo era passato veloce, troppo, di fianco a loro. Le due ruote dentro una pozzanghera avevano bagnato lei e il bambino che teneva per mano, forse il figlio. Il bambino rideva.
La mamma non si sta divertendo, cerca di parlargli in modo gentile, ma non riesce, si vede che è arrabbiata ma non con lui, capo sale?
L’autista mi fissava, io impalato davanti alla fermata.
“No grazie, aspetto il prossimo”, mentii.
Era la seconda volta nell’arco di duecento metri che mi perdevo, mi sentivo strano. Tutta quella distrazione non poteva essere solo per colpa di quello che ormai era un tarlo, fisso nel cervello. Lo sentivo dietro l’occhio, rosicchiare e ruminare, senza aiutarmi a ricordare.
“Ma che cazzo di giorno era???”
Il palazzo di vetro era lì, con la porta automatica che dava il benvenuto ai lavoratori, aprendosi mentre si avvicinavano.
Luisa e Andrea erano appena entrati e la porta che si chiudeva dietro di loro la vidi come una ghigliottina, che tagliava l’ultimo filo che li collegava alla loro libertà, per un altro giorno ancora.
Mi avviai verso la mia condanna giornaliera, con un passo decisamente più svelto di quello che ci si aspetterebbe da chi si dirige al proprio patibolo, ma era meglio non peggiorare la situazione.
In ascensore la musica era cambiata, l’altoparlante no.
Si aprì la porta, e con mia somma sorpresa trovai me stesso alla scrivania, già seduto a lavorare e… si, magari! Così me ne andavo a casa e saluti a tutti.
“Ma che giornata era?” pensavo mentre accendevo il pc.
Suona il telefono, sono le 6:00 del mattino, la voce dall’altra parte del ricevitore dice in inglese che il mio volo è cancellato, il prossimo è domani mattina. Sono a Londra. Nel letto con me c’è Karen, abbiamo passato la notte insieme. Lei si veste, deve andare in ufficio. Ci salutiamo, sappiamo entrambi che non ci rivedremo, ma siamo stati bene insieme, c’est la vie. Ho la giornata libera, non sono mai stato a Londra. Il tempo è bello, colazione e Tate Modern, non credevo sarei riuscito a vederla. Mi alzo dal letto, faccio un bel respiro e sono contento. Che bella giornata!
La musica di avvio di Windows mi riportò al mio presente, e alla soddisfazione di essere arrivato a capo dell’enigma che mi ero auto imposto quella mattina.
“La trasferta a Londra!”
L’adrenalina della scoperta lasciò però subito spazio allo sconforto, mentre attendevo che si avviasse il solito gestionale.
Da quel giorno erano passati dodici anni.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…una sontuosa colazione seguita da un interessante conversazione con mia nipote e suo marito Jean-Baptiste Chateaubriand (fratello del più famoso Francois-Renè). Eravamo nel Dicembre del 1793. Comodamente seduti sulle poltrone della grande sala guardavamo i ceppi ardere dentro il caminetto. Dalla portafinestra che dava sul giardino vedemmo avvicinarsi una fila di uomini coi fucili a tracolla. Molti portavano il berretto frigio con la coccarda tricolore. Alla fine erano venuti a prendere anche noi! Portarono via tutte le persone che in quel momento erano in casa, uomini, donne, bambini, nobili o inservienti. Fummo portati a Parigi e imprigionati alla Conciergerie, in mezzo a centinaia di persone nella nostra stessa penosa situazione. Furono giorni e mesi incredibilmente duri. Nessuna notizia sul nostro arresto. Nessuno con cui parlare di quello che stava succedendo. Cibo e acqua scarsi, di infima qualità e igiene. Il 22 Aprile 1794 i gendarmi mi vennero a prendere alle 8 del mattino per portarmi al Tribunale rivoluzionario. Era ora! Finalmente avrei saputo di cosa mi si accusasse e avrei potuto difendere me e la mia famiglia. Entrai nella stanza del processo. Mi bastò uno sguardo e riconobbi il Presidente, il procuratore pubblico e anche qualcuno dei componenti della giuria, ero comunque appartenente ad una delle più importanti famiglie della “nobiltà di toga” e i tribunali erano stati il mio mondo fin da ragazzo. In un angolo, seduto ad un piccolo tavolo di legno, si trovava quello che avrebbe dovuto essere il mio avvocato difensore. Non l’avevo mai visto prima di quel momento e non avevo avuto nessun tipo di contatto con lui. Quando mi sedetti al suo fianco non si girò nemmeno a guardarmi. Per tutto il procedimento, invero molto breve, guardò verso un punto imprecisato con lo sguardo vuoto, annoiato da quella situazione. Mi fu impedito più volte di replicare alle accuse e alle testimonianze (volutamente ed esageratamente di parte). Alla fine l’esito, prevedibile e scontato, fu di condanna a morte per cospirazione. Non obiettai, non mi lamentai, chiesi solo di poter salutare la mia famiglia: non mi fu concesso. Venni spogliato di tutto tranne che dei pantaloni e della camicia. Mi tagliarono i capelli e il colletto della camicia. Mi vennero legate le mani dietro la schiena e mi fecero salire su una carretta che, in mezzo alla folla urlante, mi portò davanti al “rasoio nazionale”, come ebbe a definirlo Marat. Sarà stata la tensione, la paura o i continui strattoni dei gendarmi ma inciampai su uno degli scalini che portavano alla ghigliottina.<<Dicono che porti sfortuna, se fossi superstizioso tornerei indietro. >> esclamai sorridendo al gendarme che rabbiosamente mi stava tirando per un braccio. Sentii qualcuno ridere alla mia affermazione. Guardai rapidamente nel cesto sotto la ghigliottina e riconobbi i volti di altri prigionieri che avevo incontrato in quei mesi. Il mio cervello decise di spegnere il contatto col mondo esterno. Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Nonostante fosse domenica la sveglia suonò presto. La mamma iniziò a stiracchiarsi sotto le coperte e io ne approfittai per mettermi sopra la sua pancia. Lei mi grattò tra le orecchie e sotto il mento per quasi dieci minuti. Grattava e grattava, parlandomi di una giornata speciale. O sì quella era davvero una giornata speciale e quando finalmente uscimmo dal letto continuò ancora meglio. Mamma mi riempì la ciotola con le crocchette speciali quelle che di solito mischiava a quelle del discount, credendo che io non me ne accorgessi. Quella mattina invece nella mia ciotola c’erano solo le crocchette buone.
All’improvviso suonò il campanello ed entrarono le tre amiche della mamma. Chiassose e moleste più del solito si precipitarono su di lei con risatine isteriche. Alzai la testa dalla mia ciotola per guardarle. Erano vestite tutte uguali. Indossavano una specie di tunica di pizzo dello stesso colore della mia pupù quella volta che avevo avuto i vermi.
Si chiusero tutte in camera con la mamma. Valutai l’opportunità di entrare anch’io, ma decisi di restare nei paraggi della ciotola di crocchette. L’esperienza mi aveva insegnato che poteva sparire da un momento all’altro. Mi stiracchiai sbadigliando. Dalla camera arrivavano voci allegre e risate.
Dopo circa un’ora, mentre stavo alla finestra a godermi un po’ di sole, mamma mi comparve davanti. Sorrideva da dietro un trucco inquietante. Sembrava che avesse sbattuto la faccia contro un quadro di Van Gogh con la pittura ancora fresca. Indossava un vestito bianco. Io avevo già visto quel vestito. Era una settimana che lo tirava fuori dall’armadio e lo provava ridacchiando. Fece una piroetta veloce. “Che ne pensi Olivia?”
Io pensavo la stessa cosa che avevo pensato la prima volta che lo avevo visto. Il vestito era bello, ma avrebbe dovuto prenderlo una taglia più grande. Ovviamente non dissi nulla e mi limitai ad un miagolio di consenso. Il campanello suonò di nuovo. La casa fu invasa da un’agitazione collettiva. Spinsero la mamma in camera e andarono ad aprire. Luca comparve sull’uscio con la sua tipica espressione da idiota.
Erano cinque anni che quell’individuo girava per casa mia. Non ero mai riuscita a digerirlo. Era insipido come il petto di pollo che mamma si ostinava a propinarmi ogni martedì. Avevo provato a fargli capire che non era il benvenuto. Un paio di volte gli avevo fatto pipì nelle scarpe e spesso mi ero divertita a farmi le unghie sulle sue gambe. Dal suo sguardo capivo che l’antipatia era reciproca, ma ogni volta si limitava a grattarmi dietro le orecchie sorridendo. Una volta aveva anche tentato di corrompermi con un topo di gomma. Forse credeva che io fossi come i cani che scodinzolano a chiunque tiri a loro una palla. Illuso.
Le amiche della mamma lo accompagnarono nella sua camera. L’euforia iniziale si era spenta di colpo. Una di loro stava piangendo in cucina. Decisi di andare a vedere cosa stesse succedendo. Iniziai a graffiare la porta chiusa. Sentii che qualcuno mi prendeva in braccio. Era impensabile che un estraneo mi mettesse le mani addosso. Quelli che ci avevano provato si stavano ancora curando le ferite. Quella volta però mi lasciai portare via. Dopo alcuni minuti Luca uscì senza guardare nessuno, lanciandosi veloce verso l’ingresso. Era riuscito ad aprire la porta, ma le amiche di mamma si erano buttate su di lui, impedendogli di andarsene. Urlavano, una di loro continuava a colpirlo in testa con la borsetta. Io mi fiondai da mamma, stava piangendo. Non avevo capito cosa fosse successo, ma decisi che la colpa era di Luca. Sgattaiolai fuori passandogli tra le gambe e mi appostai sulle scale. Alla fine lo lasciarono andare e lui si precipitò giù di corsa. Non mi vide e non vide nemmeno i miei denti che affondavano nel suo polpaccio. Il ruzzolone e le urla di dolore che ne seguirono mi confermarono che quella giornata, iniziata nel migliore dei modi, stava proseguendo alla grande.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Era una mattina di fine ottobre, il sole scaldava come fosse settembre, ancora ci si poteva permettere la colazione in veranda. Le Cotswolds in autunno sembrano un dipinto di Grimshaw. Sul tavolo “l’anatomia del Gray” aperta sul capitolo dei punti del repere. All’epoca ero una specializzanda al Bath General Hospital. Il paesaggio era sicuramente più seducente della glabella o della bregma, infatti il mio sguardo si perse nel giardino dell’Inghilterra. La magia fu interrotta dal suono del cellulare: un messaggio.
“Buongiorno Sarah, sono con Callie in Regent St. Perché non ci raggiungi?” Risposi a Mary ringraziando e rifiutando l’invito.
Tornai ai miei pensieri, al desiderio di passeggiare nel bosco…Un tappeto di foglie fiammanti mi si srotolava davanti invitandomi a proseguire, ad addentrarmi in quel luogo dal sapore magico. Passo dopo passo sentivo sgretolarsi quel manto così colorato, finché mi mancò da sotto i piedi ed il vuoto mi attrasse a se, mi tirava giù e poi ancora giù, atterrai così su un giaciglio di corteccia umida, ornata da uno strato di muschio maleodorante immerso in acqua stagnante. Persi i sensi e non saprei dire nemmeno per quanto. Quando riaprii gli occhi pensai subito di essere caduta in una tana. Il barlume che intravedevo alla fine di quello che sembrava un cunicolo, mi fece pensare che il padrone di casa non avrebbe avuto le sembianze di un quadrupede. Mi alzai dolorante da quel giaciglio e mi trascinai finché davanti ai miei occhi apparve una porta. Una di quelle antiche, coi cardini arrugginiti, con il legno mangiato dal tarlo. Da una fessura si intravvedeva un tavolo, ecco il lume. Mi feci coraggio, entrai. Quello che vidi era terrificante, orribile. Mi paralizzò. Dal soffitto ammuffito pendevano dei ganci, per intenderci, quelli da macello. Su di essi erano infilzati degli abiti da donna. Mi accorsi che il muro era tappezzato da fotografie. Non riuscii a mettere a fuoco le immagini, ancora troppo lontane dei miei occhi, inoltre del fumo proveniente da una profonda crepa di una parete, non mi agevolava la visione. Mi avvicinai. Emisi un urlo di disperazione. Riconobbi i soggetti immortalati, tra questi c’ero anch’io. Mi avevano colta in momenti di vita quotidiana. Mentre uscivo dall’ospedale, durante una corsa nel parco, addirittura c’era la fotografia di me in veranda che facevo colazione, vestivo dei pantaloni neri ed una maglia azzurra. Mi guardai le gambe, poi le braccia, erano esattamente gli abiti che stavo indossando. L’istinto mi disse scappa. Qualcosa altro però attirò la mia attenzione: per terra c’erano delle scarpe da donna, delle borse di pelle….guardai nuovamente gli abiti che pendevano dal soffitto da quegli assurdi ganci. Li riconobbi, erano i vestiti di Mary e Callie. Ma non erano in Regent St? Dove le aveva portate questo mostro? Era un incubo, ero caduta nella tana di un serial killer o qualcosa di simile. Qualcuno mi sfiorò i capelli. Non ebbi la forza di girarmi ma nuovamente urlai, sperai di mettere paura con le mie grida. In quell’istante sentii una voce “Sara, Sara….Sara forza svegliati….stai sognando…Sara…”. Aprii gli occhi, mi ritrovai in veranda con davanti l’anatomia del Gray sulle ginocchia e Thomas che mi teneva le mani, sorridendomi e riportandomi alla realtà. La giornata proseguì con un caffè, due risate ed una vera passeggiata nel bosco con colui che mi salvò dall’incubo. Percorremmo il tappeto di foglie croccanti e mi lasciai incantare dalle fronde degli alberi. Il sole, che fino poco prima splendeva alto e riscaldava le nostre movenze, si nascose e ci trovammo avvolti da una leggera foschia, e in quell’istante la vidi: la porta antica vestita di foglie…..Qualcuno mi sfiorò i capelli. Questa volta mi girai. Thomas mi fissava con un sorriso diabolico.
Se sono qui a raccontare questa storia è perché ebbi la prontezza di agire prima che lo facesse lui. Scappai. Mary e Callie vennero ritrovate fortunatamente ancora in vita.
Direi che quella giornata iniziò bene ma finì anche meglio, ciò che è accaduto in mezzo è degno di un film di Carpenter. Quello stesso anno avrei dovuto sposare il serial killer. Nella mia vita non convolai mai a nozze. Oggi ho novant’anni.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, con una fantastica prima colazione. Eravamo io e mia madre, in cucina. Lei aveva preparato il caffè ed io fette di pane tostate con burro e marmellata. C’era anche il pane con l’uva. Era una giornata speciale, di tanto tempo fa. Festeggiavamo l’inizio di “Fiabe d’estate”, una iniziativa del Comune di Viareggio: rappresentare fiabe nei parchi assieme ai bambini. Sarei dovuta andare ad accogliere, con una pattuglia della polizia municipale, la coordinatrice dell’iniziativa. Ero responsabile del gruppo degli animatori e per me questo era un giorno di festa. Salutai mia madre, dicendo che sarei tornata per pranzo.
Tornando, trovai Sandro, il mio ragazzo, sul portone. “Luci, sappi che non è niente, tua madre è stata investita da una macchina mentre andava a far la spesa in bicicletta. Il Panzini ha visto ed ha chiamato i soccorsi. Adesso tua madre è all’Ospedale di Seravezza.” Mi precipitai subito. La trovai. Disse che sapeva chi l’aveva investita. Le chiesi come mai non l’avevano portata all’Ospedale di Pietrasanta, che era meglio attrezzato.” Mi sono fatta portare qui perché qui c’è morto tuo padre” Capii che il morale era a terra, anche se mi fece piacere sentir parlare di mio padre: da quando era morto non ne aveva più parlato. “Ma la sai la diagnosi?” “Certo, una frattura al femore. Domani alle nove mi operano “. Il giorno dopo non sapevo come fare: avevo una conferenza stampa, la prima della mia vita, per pubblicizzare l’iniziativa del Comune di Viareggio. Ci rinunciai con una telefonata al mio vice. Salutai mia madre prima che entrasse in sala operatoria. Il tempo passava e nessuno si faceva vivo. Avevo paura che qualcosa andasse storto e contemporaneamente mi rammaricavo: Potevano dirmelo che l’operazione durava così tanto: sarei potuta andare alla conferenza stampa e tornare.
“Tutto bene” disse un’infermiera spingendo il letto fuori dalla sala operatoria. Tirai un sospiro di sollievo.
La riabilitazione fu lunga. L’accompagnavo in un centro specializzato dove fecero un ottimo lavoro e ben presto, gradualmente, riuscii a costruire una giornata routinaria delle attività che poteva fare. Scendeva, con la sua stampella, quattro rampe di scale per prendere la posta nella cassetta al cancello, e quella era la sua palestra , faceva la lista della spesa che io provvedevo a comprare al supermercato, faceva il solitario con le carte, aveva una trasmissione preferita da guardare. Per l’igiene personale aveva però bisogno del mio aiuto. “Non trovo giusto che tu vada a insegnare a scuola la mattina e che al ritorno tu debba far da mangiare. D’ora in avanti lo farò io”. Così disse un giorno e così fece, utilizzando in modo diverso gli strumenti per far da mangiare adattandoli alle sue difficoltà.
Sandro veniva spesso a casa nostra a trovare mia madre, golosona. Quando andavamo alle fiere dei paesi vicini si raccomandava, quasi fosse questione di vita o di morte: “Portatemi un sacchetto di brigidini. Io che son senza denti li ciuccio”. In questo modo passarono tanti sereni anni.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore del modi, mi svegliai circondata dal profumo di plumcake che la sera prima avevo preparato in vista della colazione, dalla tapparella filtrava una luce fioca, il braccio che avevo lasciato fuori dal piumone per tutta la notte era gelato e sentivo il gatto fare le fusa ai miei piedi.
Luca era già uscito per andare al lavoro, occupai anche la sua parte di letto, è una delle cose che mi piace fare quando rimango sola, riconquistare i miei
spazi, mi ricorda quando vivevo da sola nel minuscolo monolocale in Porta Romana. Guardai la sveglia frettolosamente e mi rigirai verso la finestra, stava piovendo. Erano le 8.32, improvvisamente realizzai che era molto tardi e che evidentemente la sveglia non era suonata.
Mi catapultai fuori di casa in circa 15 minuti, prima di mettere il piede fuori
dall’uscio mi resi conto che Luca prima di uscire aveva lasciato il tavolo pieno di briciole, ma ormai era troppo tardi per sistemarle.
Non avendo trovato l’ombrello, indossavo una mantella gialla molto buffa che catturava gli sguardi divertiti di molti passanti. Quella mattina non solo non avevo trovato l’ombrella ma, non trovando neanche un taxi libero, iniziai a correre verso la fermata del tram. Seduta davanti a me una ragazza sulla quindicina fissava il mio impermeabile, ormai completamente fradicio, dal quale scendevano lentamente delle goccioline di pioggia, io incurante continuavo ad ascoltare gli Smiths nelle cuffiette.
Arrivata davanti all’ufficio mi ricordai il motivo per cui, quella mattina, la mia sveglia non era suonata, quel giorno il mio ufficio era chiuso per “problemi tecnici”, così diceva il cartello che campeggiava tra gli avvisi sulla bacheca all’ingresso.
Milano era brulicante di persone, colorata dagli ombrelli e bagnata dalla tipica pioggia autunnale, quella che la mia nonna chiamava “la brûma”, quella che ti bagna anche se hai l’ombrello e ti ritrovi con i capelli gonfi e i pantaloni fradici appena metti il piede fuori casa.
Rientrai a casa a piedi, passeggiando per le vie della mia città, stanca feci i miei soliti quattro gesti quotidiani: aprii la porta, appoggiali le chiavi di casa nello svuotatasche, salutai il gatto e andai verso il frigorifero per bere un bicchiere d’acqua.
Lì, sul piano della cucina vidi una vera e propria invasione di formiche, camminavano disordinatamente alla ricerca di qualche briciola dimenticata e ne trovarono tante, visto il disastro che aveva lasciato Luca. Probabilmente una formica accortasi del lauto bottino chiamò alla carica l’intero formicaio che in questo momento campeggiava sul piano della mia cucina.
Scoppiai a piangere, le formiche sono la mia unica vera fobia, iniziai a tremare, il respiro si fece corto e il senso di nausea cominciava a fare capolino. Ero troppo arrabbiata per chiamare il colpevole di tutto questo disastro così quando Luca tornò dal lavoro mi trovò seduta sul divano che fissavo la cucina con la ChanteClair in mano.
“Ma sono solo formiche!”
“No, mi fa orrore avere delle formiche nella mia cucina, le detesto!”
Passammo la notte ad uccidere formiche, io cercavo di debellarle facendole annegare nello sgrassatore e Luca rideva guardandomi.
Dopo una lunga lotta la nostra cucina tornò libera e pulita, noi ci sedemmo sul divano e cademmo in un silenzio malinconico, le nostre mani si intrecciarono e le mie erano molto più fredde delle sue. Luca mi avvolse la coperta e si accoccolò sul mio petto.
“Tra una settimana vado via, se dovessero tornare le formiche dovrai ammazzarle da sola”
“Non ci saranno più…”
“Non ci sarò neanche io…”
Silenzio.
Lì, in quell’istante, mi resi conto di avere una fobia ancora più grande delle formiche.
“Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Tra le 9.00 e le 13.00 mi avrebbero consegnato il frigo nuovo! Dopo anni di risparmi finalmente uno Smeg rosso stile anni ’50 con doppio cassetto frutta e verdura! Sentii suonare alla porta d’ingresso del mio pianerottolo. In un lampo passai da una spiaggia di Bali con la mia ex che aveva una curiosa faccia da zebra, al presentarmi in accappatoio sopra il pigiama e senza una ciabatta, per aprire la porta. Comunque mi trovai di fronte un gigante in cerata arancione tutto gocciolante che mi chiese: “È per lei il frigo?”. Guardai l’orologio. Erano le 7.20”.
L’omino mi interrompe.
“Senta, noi dobbiamo redigere un verbale, tralasci i dettagli che oggi abbiamo altre sette, ecco ora otto persone dopo di lei!”. Mi giro e vedo la fila.
“Certo, mi perdoni! Comunque dicevo … il tipo mi chiese dove doveva metterlo. Gli mostrai il posto ma lui scoppiò a ridere. Diceva che non c’era spazio, che avrebbe portato via il vecchio frigo, ma che mi sarei dovuto arrangiare a sistemare il nuovo”.
L’omino batte al pc con diligenza, ma la sua gambetta si muove nervosa.
“Provai a farlo ragionare ma lui non voleva sentire ragioni. E si aspettava pure la mancia! Già sei venuto alle 7.15 e ti aspettavo minimo alle nove. Poi arrivi e non mi sistemi il frigo, mi allaghi il pavimento e io dovrei darti la mancia? Manco morto … ehm mi perdoni di nuovo. Non intendevo …”.
“Proceda per favore …” dice l’omino con tono irritato.
“Una volta rimasto solo, tentando di spostare il mio Smeg, col piede nudo sono scivolato sul bagnato e ho sbattuto il mignolo contro lo stipite della porta della cucina. Un male d’inferno! OPS, I did it again! ahah”. Dico canticchiando Britney Spears.
“Senta! Il suo racconto è ancora all’inizio e lei è qui da un quarto d’ora. Ma lo sa che per il verbale io posso dedicare al massimo mezzora a persona?” L’omino, parlava a voce bassa ma aveva il fuoco negli occhi.
“Verso le nove avevo un colloquio, ho messo il mio vestito a righine verdi, quello che tra l’altro ho anche adesso, vede? Regalo della mia ex quella del sogno della zebra che, strana la vita, mi ha lasciato per il tipo che ci ha portato il frigo, il primo, non lo Smeg. Beh, sono andato al colloquio e chi mi trovo davanti? Giannetti! Il bullo che in terza media mi aveva messo la testa nel water. Lui però mi riconosce solo quando legge il mio nome sul curriculum e allora via a ricordare i “bei” tempi andati. Poi, però, non mi ha assunto. Si vede che non era proprio giornata di “assunzioni” ahahah! Scusi la domanda ma lei non sorride mai?”
“Il mio non è un lavoro divertente. Il tempo è scaduto, mi dispiace. Mi dica rapidamente come è andata e poi lasci il posto.” Dice senza alzare la testa dalla tastiera.
“D’accordo, d’accordo! Uscito dal palazzo di Giannetti vidi un’edicola. Decisi di comprare un giornale con gli annunci di lavoro. Lo aprii e iniziai a leggere mentre camminavo. Un annuncio mi colpisce: Cercasi controllori per autobus urbani. Ma proprio mentre attraversavo la strada sulle strisce un autobus mi ha travolto. A volte le coincidenze! Ahaha”.
“È tutto, può andare!” dice secco l’omino.
Ma poi, un attimo dopo ci ripensa: “Anzi no, senta!”
Mi avvicino e lui mi parla in un orecchio.
“Ne ho visti molti di spiritosi come lei ma le assicuro che questo posto fa passare la voglia di ridere. È da tremila anni che raccolgo i verbali sull’ultimo giorno di vita degli uomini. Non tutti, ovvio. Sono un impiegato minore del reparto inferno, girone puntigliosi e chiacchieroni.
Leggo dalla sua scheda che lei non parenti ne congiunti”.
“È esatto” dico
“Allora le propongo un patto, è rischioso perché interferisce col piano superiore, ma se siamo cauti sono certo che non ci saranno conseguenze. Se lei mi garantisce il suo silenzio posso assumerla come mio assistente”.
Più o meno è andata così. Lui oggi sta, come sempre, seduto al pc ma io stampo e controllo le schede. Alla fine sono stato assunto davvero come controllore ahahah. A conoscerlo meglio l’omino qualche volta sorride anche se il lavoro è un inferno. Ma volete mettere lavorare in compagnia con uno simpatico come me e con uno Smeg rosso pieno di bibite ghiacciate alle nostre spalle?
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, nonostante la devastante nottata precedente.
Mi svegliai aspettandomi un mal di testa lancinante dovuto alle poche ore di sonno e alla crisi di pianto avuta la sera prima, quando mi ero presentato a casa del mio migliore amico spiegandogli che mio padre mi aveva sbattuto fuori intimandomi di non farmi più vedere. O forse dovrei dire il mio patrigno, dato che quell’uomo aveva sposato mia madre qualche anno prima in seconde nozze e mi aveva odiato fin dal primo istante. Mia madre però non riusciva a tirare avanti da sola e poichè lui non aveva mai alzato un dito su di me, limitandosi all’abuso verbale, lei credeva che dopotutto la situazione non fosse così grave. Avevo quasi diciott’anni e presto me ne sarei andato al college, lontano. Un problema in meno per me… e per loro.
“Ehi, sei sveglio?”
La voce di Jack mi destò dai miei pensieri. Era in piedi vicino alla porta della stanza degli ospiti, già vestito, con in mano una tazza di caffè bollente che mi porse. “Ho parlato con i miei. Puoi rimanere qui finchè vuoi. Mio padre ha detto che parlerà con i tuoi, così non devi incontrarli faccia a faccia se non ti va.”
Provai immediatamente un forte moto di gratitudine nei loro confronti. I genitori di Jack, Mr. e Mrs. Morrison, erano persone favolose che mi avevano sempre trattato come un figlio: trascorrevo quasi più tempo a casa loro che dai miei, fin da quando Jack ed io frequentavamo la scuola elementare.
Ma non potevo imporre la mia presenza in quel modo.
“Grazie… ma dovrei tornare prima o poi. Credo che ora si sarà calmato.” Non pronunciavo mai le parole mio padre riferite a quell’uomo, perchè non era tale. Nemmeno per un minuto l’avevo mai percepito in quel modo.
“Chris, non è un problema, sul serio. Puoi fermarti quanto vuoi.”
Ero tentato, in realtà. Ma mancavano ancora due mesi alla fine del liceo, poi c’era l’estate, e poi l’università. Non potevo rimanere così a lungo da loro.
Ma se solo avessi saputo cosa mi avrebbe aspettato a casa al rientro non mi sarei mosso da casa Morrison.
Quell’uomo non diede segno di essersi accorto della mia presenza quando entrai in soggiorno, un paio d’ore più tardi. Mia madre sedeva sulla sua poltrona preferita ed era intenta a sferruzzare all’uncinetto, il suo solo e unico passatempo, e aveva un occhio nero.
Non era una novità. Ma non accadeva nemmeno spesso. Quante volte le avevo chiesto di lasciarlo? Ovviamente venivo sempre sistematicamente ignorato da lei.
“Christopher, dove sei stato?” chiese mia madre, alzando a malapena lo sguardo dal suo ricamo, forse in imbarazzo per la propria condizione, o forse per la mia.
“Dove vuoi che sia stato? Da Jack,” risposi piccato, come se già non lo sapesse. Era la mia seconda casa e anche quella dove avrei voluto nascere e crescere, con genitori affettuosi e presenti.
“Non ti avevo detto di non rimettere piede qui?” Lui si alzò in piedi, fissandomi con astio, come se fossi una presenza malevola che contaminava tutto ciò che si presentava sul suo cammino. “Prendi la tua roba e vattene.”
Osservai mia madre con la coda dell’occhio. Continuava a sferruzzare.
Non potevo credere che davvero le importasse così poco di me.
Ma potevo percepire la stanchezza che emanava da ogni poro.
“Va bene. Tra un’ora sarò fuori di qui.”
Salii al piano di sopra e iniziai a fare i bagagli.
—————-
“Chris?”
Sorrisi appena, indicando i borsoni alle mie spalle, vicino all’ingresso. “Dopotutto mi piacerebbe rimanere. Contribuirò alle spese col mio lavoro part time.”
La madre di Jack sorrise e mi avvolse in uno degli abbracci più caldi, un abbraccio materno, dolce e profumato. “Non ce n’è bisogno. Bentornato a casa.”
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Lorenzo, mi aveva svegliata con una coccola. Un girasole e un caffè a letto uniti ad un bacio appassionato.
Una banalità che mi diede grinta in un periodo travagliato. Mi aveva stupita. Non succedeva da tempo, troppo.
Negli ultimi mesi era distante, silenzioso, ingabbiato nei suoi fantasmi legati a problemi lavorativi e alla sua costante insoddisfazione. Aveva compreso di non poter perseguire la carriera auspicata.
Sarebbe potuto essere un giorno come tanti.
Non avrei mai pensato di ricordarlo così vividamente.
Mi basta chiudere gli occhi per essere catapultata al 9 aprile 2018, ore 8:06.
Stavo andando in ufficio quando, in dieci secondi, la mia vita è stata capovolta.
Un colpo forte, inatteso, travolgente.
Non compresi subito l’accaduto contrariamente a coloro che si trovavano dietro me.
Loro avevano chiara l’immagine, la sequenza, il movimento. Avevano assistito allo tzunami, che mi aveva travolta.
Pioveva. Una pioggerellina leggera che gli inglesi avrebbero, nel loro fare snob, definito shower. Ricordo che le gocce mi infastidivano, portandomi a coprirmi col cappuccio del Woolrich rosso col pelo di volpe.
Stavo attraversando la strada, semaforo verde.
Zaino sulle spalle, auricolare all’orecchio.
Ascoltavo con poca attenzione le parole di Lia che si lamentava sui massimi sistemi.
“Che palle” pensavo dando poca attenzione alle parole.
Ero concentrata sulla strada.
Seguivo la folla.
Dinnanzi a me un bambino con la madre, dietro una signora col cappello verde.
Camminavo. Le auto erano ferme alla mia destra e alla mia sinistra.
Testa bassa e nervosismo. Camminavo.
Non mi ponevo domande, seguivo mamma e figlio.
Poi, un colpo.
Mi ritrovai per terra.
Il telefono mi volò dalle mani, ero sull’asfalto.
Immobile. Non riuscivo a muovermi. Non capivo se avessi paura.
Sentivo bagnato.
Un’unica sensazione.
“Mi sono pisciata addosso”, pensai.
No. Era il sangue che scendeva dal viso.
Misi la mano in faccia. Diventò rossa.
La pioggia cadeva. Più intensa.
Poi, vidi un casco a circa due o tre metri da me.
Guardai avanti, un bambino era in piedi, urlava spaventato.
Dieci occhi preoccupati mi chiudevano la visuale.
Non riuscivo a muovermi. “Oh cazzo” pensai.
Mi aiutarono.
La gamba non mi reggeva.
Mi presero in braccio senza fatica.
Mi misero in un’auto.
Non piansi.
Cercavo di capire se mi stesse venendo sonno.
Sebbene non sapessi nulla di primo soccorso ero consapevole che la mancanza di sonno fosse sinonimo di assenza di trauma cranico.
Nel giro di dieci minuti mi ritrovai su un’ambulanza.
Sentivo un grande dolore riconducibile alla lastra di legno su cui mi avevano immobilizzata per portarmi al PS.
La mia attenzione si pose sul telefono. L’avevo in mano. Era il mio unico possibile mezzo di comunicazione.
Da poco ero a Roma da Lorenzo. Non conoscevo nessuno.
Mi ritrovai in un PS dove vedevo persone che erano in attesa da ore.
Sapevo che mi ero fatta tanto male.
Non sentivo dolore.
Il mio pensiero volò a casa, a mamma e papà, a 600 km da me.
Mi sentivo sola come un cane, ma sicuramente meno di loro che si sarebbero sentiti il pavimento disgregarsi sotto i piedi.
14.25, non mi avevano ancora fatto la lastra.
Con fatica contattai Lorenzo, alle 16.32 mi fecero i raggi.
No trauma cranico. Tutto il resto maciullato.
“Cazzo” pensai, ma ero viva. Il cervello c’era.
Mi dovevano mettere in trazione.
Non sentivo dolore.
Dovevo chiamare casa.
Avevo paura. Per loro. Non per me.
Presi l’iPhone, chiamai casa.
Tre squilli, poi la voce di casa, amore.
La voce di mio padre disse “Eh finalmente”.
Lo bloccai, fui sentenziale.
“Papà ho avuto un incidente. Mi hanno investito, sono viva. Nessun trauma cranico. Ho la gamba rotta.”
Presi fiato e continuai “Mi stanno curando. Sono bravi. Mi affido a loro.”
Sentivo male per farli soffrire. Questo era il vero dolore.
“Ok”. Mi rispose. Il suo “ok” mi diede fiato.
Sapevo che era fatto di paura e di lacrime inghiottite, mi diede coraggio.
Mi misero in trazione. Mi sedarono.
Mercoledì mattina mi svegliai.
Una gamba in alto e le urla di una anziana che si era rotta il femore.
5:43 minuti.
Mio padre era a Roma da me.
Sorrisi.
Ricordo bene, quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
-Tutto ok? – mi chiese mia madre versando il caffè nella sua solita tazza. Era una squallida giornata di novembre quando, pigiando il primo tasto del cellulare, ero andata in cucina con gli occhi ancora stracolmi di sonno ed ero inciampata giù per le scale. – Ho freddo e un gran mal di testa – risposi a mia madre. Pochi istanti dopo era già pronto il termometro. 38.2. Mi infilai di nuovo sotto le coperte mentre lei era già al telefono con il dottore. – Aspettiamo qualche giorno per il tampone Covid-19, quattro o cinque saranno sufficienti, nel frattempo antibiotico e cortisone – rispose con protocollo identico ad ogni telefonata per un’adolescente febbrile.
La tachipirina favoriva quei pochi momenti di sonno che riuscivo a godermi. – Dottore, ha fatto la richiesta così porto mia figlia al drive trough?- chiese mia madre. – Ora lo mando poi deve attendere la telefonata della Asl – rispose lui sempre con parsimonia. Mia madre, cercando quel poco autocontrollo che le era rimasto, gli disse – Grazie, mi raccomando lo faccia oggi pomeriggio -.
Contravvenendo alle indicazioni della chiamata, andammo subito a fare il tampone che risultò positivo. Era ormai trascorsa una settimana ma non avevo ancora cenni di miglioramento. Venni segregata nella mia camera senza avere contatti con gli altri componenti della famiglia. Lontano dai litigi dei miei genitori e dai capricci di mia sorella, ero finalmente libera di vivere il mio mondo, e nessuno poteva entrarci. Il servizio in camera era scadente ma intanto non dovevo apparecchiare con quella stramaledetta tovaglia di lino che mia madre si ostinava ad usare tantomeno dovevo sopportare i dispetti di mia sorella perennemente impegnata a spezzarmi i nervi. Ero finalmente libera.
Mi era stato dato, inoltre, in gentile concessione, il velocissimo computer appena acquistato. Netflix era ormai mio.
Dopo una settimana di reclusione le mie condizioni di salute non miglioravano. Voltaren iniezioni era l’unica brutale medicina che in quel momento mi potesse evitare la follia mentre tentavo di essere brillante nelle chat. Spesso mi addormentavo con il telefono tra le mani e mi risvegliavo di notte leggendo di qualche amica che mi avvertiva di errori grammaticali fatti sui social. – Non scrivere se stai male – mi aveva detto una sera Alessandra. Ma era troppo tardi. La gogna dei social si era già attivata pronta a mettere sul patibolo un verbo avere senza h.
– Correggi!! – insisteva lei. In preda al mal di testa mi ritrovai a modificare alcuni post che nel frattempo erano stati fotografati e già fatti circolare nelle chat della scuola. Tutto il liceo ginnasio ormai conosceva i miei errori, come poter rimediare? – La bella mora del liceo classico che non sa scrivere – avevano pubblicato alcune.
Non avevo più le forze per rispondere. Un paio di notti mia madre, dopo una crisi respiratoria, era rimasta sveglia per misurarmi l’ossigeno nel sangue. A volte piangevo per quello che mi stava accadendo e questo aumentava ancora di più l’emicrania.
Dopo due settimane il tampone era ancora positivo e a ventuno giorni dal primo sintomo sarei di nuovo stata libera. Mancava una settimana ma le mie gambe non mi reggevano nemmeno per fare le scale e scendere in cucina per bere un maledetto bicchiere d’acqua.
Dovevo fare qualcosa sul social ma cosa?
Scrissi questo: – Essere ancora viva dopo una battaglia mi permette di dire che sono una persona fortunata. Quanti possono scrivere su un come sto facendo io in questo momento? Pochi e quei pochi sbagliano accenti e apostrofi stando comodamente con i piedi di fronte al camino e non al buio con le meningi infuocate e il cuore che sta tentando di combattere tra la vita e la morte -.
Breve, conciso con la foto di una fata che tenta di spiccare il volo. La bella scrittura aveva vinto.
Dopo una settimana non mi ero ripresa completamente ma la mail del Comune mi rendeva libera di contagiare quante più vite umane si fossero avvicinate alla mia persona.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…ma terminò aihmé con un fulmine a ciel sereno, ma non di quelli che ti lasciano a bocca aperta per lo stupore della loro inusuale bellezza, anzi. Sono passati ormai sei anni dalla nostra definitiva separazione. Separazione da te, che sei stato il mio punto di riferimento primo. Ricordo come fosse ieri quella chiamata; mi trovavo in aeroporto, lontana da casa, pronta ad iniziare il mio ultimo giorno di training sugli aerei. Di lì a poco sarei diventata un’assistente di volo certificata. Ero in fibrillazione, finalmente dopo mesi di sforzi e studi estenuanti stavo per raggiungere il mio obiettivo. Ma ecco che poi, in poco meno di un attimo, mi scivola tutto dalle mani. Vorrei però raccontare questo frammento di memoria con un fine di elogio verso la tua persona e non come una catastrofe su cui piangere o rimuginare; inutile farlo, del resto, non potendo cambiare le cose. Questo piccolo sfogo emotivo sarà dedicato alla persona che per me é stata una guida fin dalla nascita, e di cui purtroppo le amare circostanze della vita mi hanno privata prematuramente. Voglio citare un film che ho visto insieme a te qualche anno fa e che mi aveva particolarmente affascinata. A pensarci bene con il senno di poi, sembrava quasi essere il preludio di quello che sarebbe avvenuto in seguito, ma con un finale leggermente diverso. Qualche anno fa mi regalasti il dvd di “Maleficent”, e fin da subito me ne innamorai. Come ben sai, ho sempre amato sin da piccola i cartoni animati della Disney, potevo rimanere imbambolata davanti al televisore per ore ed ore, ammaliata da quei fantastici disegni e da quelle soavi melodie quando ancora l’innocenza e l’inconsapevolezza mi appartenevano. Lo guardai per la prima volta al cinema con un’amica e rimasi piacevolmente soddisfatta nel vedere come la principessa Aurora venisse risvegliata dall’incantesimo della strega, che nel film in realtà poi tanto crudele non era; ammetto di dover tradire la mia “me” bambina, affermando di preferire la versione cinematografica rivisitata in cui Malefica é una fata madrina buona, che ha agito in modo malvagio inizialmente, ma che ha saputo egregiamente riscattarsi durante il corso della storia. Solo il bacio del vero amore poteva spezzare quell’incantesimo ultraterreno, e così fu. Per quanto mi faccia male ammetterlo, per me è lo stesso. Da quando ti ho persa, sono caduta in un baratro talmente profondo da non riuscire più a trovare la luce necessaria per illuminare le mie giornate. Solo tu saresti in grado di risvegliarmi da questo senso di perenne apatia che mi attanaglia. Ebbene, quel giorno stavo rincasando, quando arrivò la notizia: “Dovresti rincasare momentaneamente, nulla di grave ma tua mamma é in ospedale e c’é bisogno del primogenito presente per alcune questioni burocratiche..” Sapevo in cuor mio che qualcosa non andava, ma speravo di sbagliarmi. In effetti di li a pochi mesi t’avrei persa per sempre, ma allora ancora non lo sapevo. Probabilmente agli occhi di molte persone sono solo una ragazza strana e contro cui puntare il dito; del resto, una ragazza così giovane e, a detta di molti, bella, che problemi potrebbe mai avere? La superficialità che alberga in questo mondo mi lascia sempre più attonita, oltre a conferirmi un senso di alienazione e rassegnazione sempre più consistenti. Si pensa molto banalmente di poter giudicare una persona in base ad un paio di atteggiamenti o di tratti visibili, ma nessuno può sapere cosa si celi dietro ad ognuno. Ho imparato in questi ultimi anni a costruirmi un’armatura che porto talmente bene da risultare agli occhi di tutti come un automa; ed ecco così che la mia maschera é diventata la mia stessa prigione. A distanza di sei anni eccomi qui, con la stessa caparbietà, ma con una consapevolezza differente. Ora come ora, se prima i miei sogni potevano riguardare la mia vita amorosa o lavorativa futura, adesso si racchiudono tutti in un unico, seppur impossibile, obiettivo: poterti rivedere. Se esistono entità soprannaturali, spero questa lettera possa raggiungerti e che il prossimo raggio di sole che mi colpirà sarà frutto del tuo amore corrisposto da lassù, mia sola ed unica anima gemella immortale.
Ricordo bene: quella giornata era iniziata nel migliore dei modi. Del resto, non vi erano mai stati particolari turbamenti, nei miei risvegli. Andavo a comprare il pane ancora caldo, sedevo con la famiglia al completo e facevamo colazione. Un meraviglioso quadretto da spot anni ottanta. Poi, infilata la giacca, davo un modesto bacetto alla devota consorte e andavo a lavorare. Una vita priva di qualsiasi emozione vera. Almeno in apparenza. Già perché, prima di quel giorno, dove la mia esistenza ha cessato di esser tale, la mia vita era condensata con la notte.
La notte è di classe. Non appena cala il sole e la cecità si fa largo tra le strade, le categorie umane si dividono. Essa è realismo spietato, capace di annullare qualsivoglia trucco e rappresentazione artificiale. Le ore fra il tramonto e l’alba catalogano infallibili i suoi utenti dividendoli in elenchi categorici: quelli che vanno a dormire, i sempre maggiori lavoratori a turno e coloro che la notte la “vivono” come faccio io, alimentando i mie desideri, sfruttando le miserie umane.
La notte affronta senza falsi pudori tutto quello che cerchiamo di nascondere durante il giorno.
La moltitudine di gente senza casa, si accartoccia su sé stessa per cercare calore mentre le stimate persone della società, come me, gli gettano addosso le sigarette esaurite. Ci sono i ladri. Piccoli o grandi topi che frugano negli appartamenti, automobili, negozi in cerca di modeste ricchezze mai possedute. I tossici di ogni droga, da cui ogni tanto mi rifornisco per alzare l’asticella del divertimento. Per loro la notte è l’inferno di una dose non trovata, della necessità di recuperare denaro, di lancinanti dolori e di solitudine immensa.
E poi ci sono loro, i nostri giocattoli proibiti: le prostitute, i transessuali, venditori e venditrici di sesso facile e, talvolta anche di qualche istante di sembianze d’amore e gratificazioni. Simboli esagerati di rapporti umani, dal senso comune censurati, ma abbondantemente indotti alla moderna, estrema, mercificazione del tutto.
Frequentavo Ursula da un po, prima di quel giorno. Arrivavo silenzioso, sempre vestito di nero e in pochi secondi doveva comprendere le mie esigenze. Poi, sudato ed eccitato, sudicio di desiderio e trasgressione, mi appartavo con lei che accontentava il mio spasmodico bisogno di sentirmi un onesto e incorruttibile cittadino mentre mercanteggiavo la mia prestazione.
Ecco gli esseri della notte, le tenebre tanto temute. Simbolo della povertà pecuniaria o umana. Come mi accadde quel giorno. Mi sono spinto troppo in la’. Volevo provare l’ebrezza allo stato puro ma, alla fine, le mie mani hanno stretto troppo il suo fragile collo e lei non ha più parlato. Erano le quattro, cinque del mattino, dove tutto appare in una totale immobilità. Ho telefonato io alla polizia e, quando sono venuti per arrestarmi, c’era anche mia moglie. Non ha detto nulla. Sul suo volto l’amara consapevolezza di aver sempre saputo tutto di me e la tacita speranza che non oltrepassassi il limite. Ma quel giorno è accaduto. E il mio regno di cartapesta è stato distrutto dalla luce del sole e dall’ abbagliante verità. Oggi esco di prigione. Nessuno è venuto a prendermi. Non ho una destinazione dove andare allora aspetto che arrivi la notte. Vago per cercare riparo e, infine, vengo accolto da coloro di cui, per anni, ho abusato.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…Mi ero svegliata presto, adoro svegliarmi presto, quando tutti o quasi, dormono ancora, mi fa sentire padrona del mio tempo, mi riempie di gioia e di speranza, mi apre a mille possibilità.
Caffè caldo, l’odore che si sparge per la cucina, certo mi mancava vedere il mare, mi manca sempre, ma in fondo il lago un po’ gli somiglia, o quasi, o forse erano solo le parole che, a memoria, mi ripetevo ogni mattina per farmi forza.
Avevo anche il tempo di fare colazione e fu così che feci, mi preparai un’abbondante colazione per assorbire quante più energie possibili, era un giorno importante, uno di quei giorni che ti restano impressi nella memoria, si, perché decidere di licenziarsi da un lavoro che non ti piace più, che non ti dà più gioia, richiede un atto di coraggio, ma soprattutto di follia, una sana follia, ma pur sempre di follia si tratta.
Avevo investito gli ultimi anni in questa impresa che non mi sembrava neanche più la mia, come ero finita laggiù, in un posto sperduto, priva degli affetti di una vita, in un posto senza mare, neanche me lo ricordavo più, sapevo soltanto che ero arrivata al limite, volevo urlarglielo, volevo farlo sentire a tutti, volevo che le mie corde vocali esplodessero, volevo solo sbattere la porta e andarmene.
La situazione era precipitata soltanto da un mese, ma mi sembrava di essere rimasta intrappolata lì per un tempo lunghissimo, a ripetere le stesse cose, ad arrabbiarmi ogni giorno di più, a tornare a casa, sempre più sfiduciata e triste, ecco, triste era la parola giusta, mi sentivo tremendamente triste.
Ma quella mattina, no, non ero più triste, ero felice, felice di poter finalmente dire, questo posto non mi merita, voi non mi meritate, non sprecherò un secondo di più della mia vita per far contenti gli altri, la vita è mia e decido io come viverla.
Quante volte l’avevo urlato a mamma quando continuava a ripetermi di fare gli esami all’università, e più lei me lo diceva, più rimandavo gli appelli, quante volte l’avevo urlato a papà, quando avevo deciso di andare a vivere da sola, ma questa volta non avevo nessuno dei due, davanti, questa volta avevo un capo annoiato e abitudinario, che ripeteva ogni santo giorno le stesse cose, che vedeva solo muri, dove avrebbe dovuto vedere ponti, che vedeva ostacoli dove avrebbe dovuto scorgere possibilità.
E colleghi, lasciamo perdere i colleghi, insoddisfatti, frustrati ed incapaci. Forse ero diventata un po’ cinica, ma avevo davanti a me, solo macerie, e dalle macerie, si sa non possono che nascere castelli.
La colazione durò più del previsto, stavo per fare tardi al mio ultimo giorno di lavoro, dopo che per anni ero sempre arrivata in anticipo.
Mi infilai la giacca, la sciarpa, faceva un freddo cane e presi l’ombrello, perché si sa nelle giornate giuste, piove sempre.
Durante il tragitto ripetei un discorso di senso compiuto, parola per parola, diverse volte, per ogni passo, una parola, con la calma e la lucidità che mi erano mancati nell’ultimo mese, mi sembrava che tutto filasse bene, ero veramente convinta della mia scelta.
E avevo iniziato a fantasticare, trasloco, scatoloni, una nuova casa, una nuova vita, ma prima un bel viaggio per ritrovare me stessa, un lungo giro del mondo, da sola, finalmente avrei ascoltato quella vocina che avevo dentro, insegui i tuoi sogni, di vita ce n’è una sola, il tempo è la cosa più preziosa che hai e quanto tempo era che non ne avevi per te, sempre a preoccuparsi degli altri, li metterò in difficoltà se decido di andarmene di punto in bianco, e no, di me non si preoccupava nessuno e allora tanto valeva che non me ne preoccupassi neanche io; si, farò un viaggio e butterò via questo maledetto telefono ed il pc, scriverò lettere e manderò cartoline.
Mentre tutti questi pensieri mi si affollavano per la testa, mi accorsi che ero arrivata, era il mio momento, testa o croce.
Aprii la porta ed ebbi la sensazione che qualcuno mi stava aspettando. Buongiorno, c’è una lettera per lei, dalla busta sembrano buone notizie.
E’ proprio la sua giornata fortunata.
-Essenza evocativa: Sostanza neuroipertrofica da inalare con i suoi eccipienti fondamentali, alla fragranza amigdalotrofica, di ultima preparazione Fabric Lidarcom, per un’essenza più tonica e profonda.-
“Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, l’ammasso tortuoso, compatto, archetipo materiale e pulsante dell’umanità, rantolò inesorabile. Le rigogliose vallate di Arcadia furono corrose dall’agglomerato umanoide nelle loro fondamenta. Quando…“
“Esperimento 0289 correlato al progetto 043 -Nucleo Cosciente di unità biologica informatica- si richiede la valutazione del flusso temporale interspazio dinamico. Possibile falla nella stratificazione della rete interbiologica dei diversi nuclei derivati.”. Proruppe l’ultimo modello di droide biosintetico ad emotività programmabile.
“Coff!Coff! Non ora DBS.e3.021…Dov’ero rimasto allora, sì sì…”
Subito il vecchio uomo sulla poltrona d’essenza di cachi si rivolse al piccolo fanciullo dalla maglietta di pesca. “L’immensità di un unico oscuro oblio riempito di barlumi di una speranza celata in ogni essere umano, venne coperta, sovvertita nella prospettiva fenomenica di un’insignificante componente del putrescente groviglio di carni che proprio in quel momento si apprestava a devastare il proprio addome informe di feticci umani, insignificanti, contro le poche palazzine disabitate e fagocitate dal verde. L’impatto scosse le percezioni individuali dei nodosi soggetti, contenitori remoti di sistemi cerebrali sensibili. Le loro membra vibrarono all’unisono nelle proprie escrezioni ematiche, verso il fango spoglio e il ciottolame, umido, di laghi ormai collassati sotto il peso inarrestabile, dell’enorme globo sapiente.” Il vecchio uomo prese un grosso e sonoro respiro e continuò. “Una volta, addirittura…”
Il vecchio scostò lievemente il capo, avvicinandosi al fanciullo e scandendo lentamente le proprie parole “colpì la porzione posteriore di un enorme massiccio calcareo…di circa 5.895m.”
Il piccolo fanciullo dalla maglietta di pesca spalancò la bocca adornata di pochi dentini da latte rimasti. I suoi occhi luccicarono al suono numerico delle cifre scandite dalle flebili labbra del nonno.
“COOOOSA?!” urlò.
Il vecchio uomo sbofonchiò leggermente. L’odore sintetico dell’essenza evocativa gli era sempre apparso pungente e la sua criptocella di senilità ne era completamente pervasa.
“Ebbene sì! Coff!Coff!” il vecchio ebbe un leggero brivido lungo tutta la schiena. Le mani gli tremarono convulsamente per meno dei due terzi di un secondo “Ecco, sì…allora… Nessuno sapeva ormai cosa fare, le poche persone rimaste erano divise da migliaia di chilometri e la prerogativa di ogni essere cosciente sopravvissuto, era di allontanarsi ogni qualvolta apparisse l’ammasso informe di carne. La stessa carne, figlia del ricordo dei cari compagni, nemici, amanti persi in essa e mai più ritrovati. Ma soprattutto, la necessità ultima, sopravvivere, procurarsi acqua, cibo, un riparo. Nulla di più. Il resto non aveva più importanza”
“Ma nonno!! Cosa dici! Questa è veramente troppo grossa.” Disse il piccolo fanciullo di pesca fagocitando le proprie pasticche ad alto contenuto di micro-neurotrasmettitori organici proimmaginativi.
Il vecchio uomo ondeggiò sulla poltrona d’essenza di cachi “Forse hai ragione…” Non riusciva a smettere di pensare a quanto l’odore d’essenza evocativa somigliasse all’odore fiorito dei chiodi di garofano, così caldo e familiare. Sottilmente stordente.
“Nonno! Nonno! Io devo andare, fra poco inizia la lezione di pianoforte, nonno! Ti farò sentire la canzone che ti suonava sempre la nonna! Ricordi? Quando l’avrò imparata tutta la suonerò solo per te. Ciao Nonnino!” Il piccolo fanciullo di pesca sorrise al nonno, dandogli un bacetto sulla fronte e rimboccandogli la coperta sulle gambe stanche e sonnolente. Proprio come si sentiva lui da un po’ di tempo ormai.
Il piccolo fanciullo di pesca scomparve dalla stanza, lasciando solo il vecchio, fra gli odori nervotrofici e l’ombra dei pochi soprammobili spogli.
“Non ancora. Riproduci di nuovo questa ipnosimulazione DBS.e3.021. Ripetila per favore…”
“Ma…Mio signore, l’esperimento 043? NC-ubi sta riscontrando svariati probl…”
“Non ora DBS. C’è tempo e luogo per ogni cosa.”
“Va bene signor Lidarcom. Eseguo.”
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Era la vigilia della finale dei mondiali di calcio dell’82, Italia-Germania. Il solo splendeva, l’aria era calda e il mare una tavola. Soverato, un’amena località turistica sulla costa ionica, era più bella di sempre!
Mi alzai di buon umore, come mi era capitato poche volte di fare. Mi lavai. Feci colazione e, lontani gli impegni scolastici, quella mattina decisi di fumare prima uno spinello e poi di andare a farmi un bagno al mare.
Non avevo la ragazza, e ovviavo al problema nel più classico dei modi: masturbandomi. Anche quella mattina, dopo aver fumato, mi presa la voglia di farmi una sega. Sapevo che avrei rinunciato a fare quello che avevo progettato, però non riuscivo a frenarmi. Me ne venni e, appena fatta me ne pentii subito…ma al mare ci andai lo stesso, con un notevole sforzo di volontà insieme ad un fumetto e la voglia di rinfrescarmi nell’acqua salata.
Intravvidi Elisa, la ragazza che mi piaceva, ma che, per timidezza, nemmeno salutavo…
Feci in modo che lei non mi notasse mentre io potevo rimirarla indisturbato. Mi piaceva tanto!
Mora e formosa, sorriso splendente, occhi grandi e neri…Pensai che non potevo rinunciare a quella occasione, che dovevo andare da lei, intrattenerla in qualche modo. All’epoca ciò che contava era la bellezza e lei bella lo era davvero! Io, un po’ grassoccio, non credevo in me stesso, figurarsi nelle mie arti amatorie, che non sapevo nemmeno esistessero. Avrei dovuto dimostrare un bel coraggio!…
Una volta un tizio mi disse che fumava per non avere titubanze con le ragazze…In quel momento “stonato” lo ero e avrei dovuto fare il disinibito con lei. Ma come?
Avrei dovuto attirare la sua attenzione…
Mi concentrai su un gruppo di ragazzi che giocavano a pallone e mi unii a loro. Lentamente feci si che ci spostassimo, avvicinandosi all’ombrellone di Elisa. Quando mi resi conto che c’eravamo accostati il giusto cercai di mettermi in mostra. Mi comportai in modo esuberante. E quello che capii in seguito fu che fare lo spavaldo poteva essere vincente a volte.
Quella volta non passai inosservato ad Elisa e colsi l’occasione per salutarla la prima volta senza arrossire. Le chiesi sorridendo come stava e coma mai venisse proprio in quella spiaggia per fare il bagno. Iniziammo a chiacchierare. Lei mi propose di fare un bagno insieme. Fu la più grande gioia per me, ma c’era un problema: mi avrebbe visto nudo! Cioè in costume! Avrei dovuto togliermi la maglietta…ed io all’epoca ero complessato per il fisico. Ne soffrivo molto…ma vinsi pure quel timore quel giorno!
Il 10 luglio del 1982, fu davvero memorabile! [Continua]
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi… Mi ero svegliata presto quella mattina, avevo aperto gli occhi spontaneamente senza aspettare il suono della sveglia, mi ero stiracchiata alzandomi dal letto, avevo infilato le pantofole e la vestaglia e mi ero diretta in bagno. Il mio viso mi sorrideva nello specchio, soddisfatto del sogno della notte appena trascorsa. Ricordo di aver sognato mia nonna, il suo chignon grigio e il grembiule perfettamente stirato che invitavano una me bambina a sedermi a tavola. E le lasagne. Quanta felicità riuscivano a darmi le lasagne, con quella loro pellicola bianca, abbrustolita e profumata che mi divertivo a staccare per prima con la forchetta. Ricordo le mattinate, durante le vacanze natalizie, passate con mia nonna a lucidare le posate da mettere in tavola il giorno di Natale, le macchie lasciate sul metallo dalle gocce d’acqua che venivano cancellate allo sfregare dello straccio bianco e rosso a quadri, e gli aloni da togliere con cura certosina, che quando li toglievi poi ti ci potevi specchiare dentro. Nei cucchiai e nei coltelli, ché nelle forchette era impossibile. E il mio viso che mi sorrideva, a sette, otto, nove, dodici, diciassette, ventiquattro anni. Ricordo di essermi lavata i denti, truccata, vestita, trovandomi molto bella alla fine di tutta la preparazione. E di aver pensato di fermarmi lungo la strada verso l’ufficio per prendere un caffè e un cornetto. Ricordo di essere uscita di casa, chiudendomi la porta alle spalle con tre mandate di chiave. Ricordo di aver inforcato la mia bici verde, parcheggiata in giardino e di essere uscita dal cancello, pedalando contenta di quella giornata che, se era iniziata così bene, chissà quante cose stimolanti avrebbe portato con sé. Ricordo il clacson, i freni, le urla, l’auto, l’asfalto.
“Sì, cara, e poi cosa ricorda?”.
Ricordo che quella giornata inizió nel migliore dei modi… Mi ero svegliata presto, senza aspettare il suono ripetitivo della sveglia. Mi ero alzata dal letto stiracchiandomi e avevo infilato le pantofole e la vestaglia e poi ero andata in bagno.
“E dopo cosa ricorda?”.
Il mio viso mi sorrideva nello specchio, felice del sogno fatto quella notte. Ricordo di aver sognato mia nonna, il suo chignon grigio e il grembiule perfettamente stirato che mi invitavano a sedermi a tavola per mangiare le lasagne…
“Si, questo me l’ha già raccontato poco fa. E poi? Ricorda altro?”.
Ricordo la crosticina sulle lasagne che toglievo con la forchetta, ricordo le mattinate passate con mia nonna a lucidare le posate, così lucide che ti ci potevi specchiare dentro…
“Ma di quello che è successo dopo, cosa ricorda?”.
Ricordo di essermi vestita e truccata, di essere uscita di casa e di aver inforcato la bici, felice della giornata che mi aspettava. La strada, il clacson, l’asfalto, le urla, l’auto. Non per forza in quest’ordine…
“Cara, ricorda qualcosa dopo l’incidente? Si sforzi…”.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi… Mi ero svegliata presto quella mattina, avevo aperto gli occhi prima che la sveglia suonasse… Ricordo le pantofole, lo specchio, il mio viso sorridente per il sogno fatto, mia nonna, le lasagne, le posate lucide in cui ci si poteva specchiare, la porta che chiudo alle mie spalle, la bici, la strada, l’auto, le urla, il bianco come quello della pagina dell’enciclopedia su cui un giorno, anni fa, avevo letto, scritto a caratteri neri, il nome di un disturbo che mi aveva sempre incuriosita: AMNESIA ANTEROGRADA.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…anzi, stranamente la notte era stata persino piacevole, senza incubi, ecco perché al mio risveglio pensai dovesse essere davvero una giornata speciale.
Malgrado questa sensazione, fu una mattinata ordinaria al lavoro, e ne ero quasi deluso.
All’improvviso mi vibrò il telefono, guardai chi mi scrivesse e fui sorpreso di leggere il nome di mio fratello.
A causa dei suoi brutti giri e pessime frequentazioni, non ci sentivamo da anni, cioè da quando, al funerale di nostro padre, invece di presentarsi, tentò di aprire la cassaforte di famiglia.
Aveva iniziato a drogarsi fin da ragazzo, e nel tempo, era la sua dipendenza era diventata sempre più forte, portandolo a rubare di tutto pur di acquistare una dose.
Rimasi di stucco nel vedere il suo nome, e ancora di più nel leggere ciò che scriveva.
Non fu una chat lunga, tuttavia ci rimuginai per tutto il pomeriggio.
A fine giornata, salii in macchina. Presi in mano il telefono. Aprii la chat e scrissi “Ok”.
Non ho mai creduto alle seconde possibilità, né che una persona possa cambiare dopo aver preso un percorso. Con mio fratello avevo perso la speranza davvero da tanto.
Troppe volte lo avevamo aiutato e, regolarmente, vanificava i nostri sforzi continuando a rubare e drogarsi.
Quindi smisi di aiutarlo, i nostri genitori no. Per loro non era mai detta l’ ultima parola.
Avevo sempre provato una gran pena per loro.
Ma allora perché? Perché acconsentii di rivederlo?
Forse per far onore alla memoria dei miei che fino alla fine hanno sperato, o perché malgrado tutto lui era mio fratello.
Pensai che molto semplicemente io fossi solo stupido. E quella bella giornata iniziò a farsi sempre più buia.
Arrivato a casa, lo vidi seduto davanti all’ ingresso.
Non lo salutai nemmeno ed entrammo in casa.
Iniziò a parlare e mi pentii subito di aver accettato di vederlo. Discorsi già sentiti, promesse già fatte e mille altre cose. Il tutto si riassunse in “Mi potresti prestare qualcosa?”
Il primo impulso fu di cacciarlo di casa. Ma sentii qualcosa, un’ ultima briciola d’ affetto. I ricordi di quando, prima della droga, giocavamo insieme e passavamo tanto tempo a divertirci; pallide memorie di quanto fossimo uniti un tempo.
“Va bene” risposi.
Andai in camera da letto e presi un po’ di contante dalla cassaforte.
Quando gli diedi il denaro, notai che gli brillarono gli occhi. Mi ringraziò e delle lacrime gli rigarono il viso.
Forse intendeva davvero voltare pagina dopotutto. Mi si scaldò il cuore e sorrisi.
In fin dei conti, quella giornata era davvero speciale.
“Mi dispiace” mormorò mio fratello.
Di colpo sentii un forte colpo alla testa. Subito caddi sulle ginocchia e la stanza iniziò a girare.
Era tutto confuso, ma distinsi due individui vicino a mio fratello.
Mi parlarono ma non capivo nulla, così mi colpirono di nuovo, facendomi cadere su un fianco.
Non sentii molto dolore e non ricordo molto, tranne che venni percosso per ore.
La mia mente si era come separata dal mio corpo, e riuscì a ricostruire gli eventi.
Mio fratello doveva dei soldi a qualche delinquente ed evidentemente li aveva condotti a casa mia, in modo da saldare il suo debito a mie spese.
Ora capivo la sua improvvisa richiesta di vederci, perché insistette ad incontrarci a casa mia e quel dannatissimo “Mi dispiace”. Supposi che volevano sapere la combinazione della cassaforte, ma, intontito dal colpo, non risposi e perciò cominciò il selvaggio pestaggio.
Sentii le ossa sbriciolarsi, i polmoni e la bocca riempirsi di sangue e la sensazione che ogni cosa all’interno del mio corpo non fosse più integra.
Uno degli ultimi ricordi furono delle luci lampeggianti, forse la polizia o l’ambulanza, forse entrambe.
Pensai che il mio stato dovesse essere proprio pietoso, eppure il solo dolore che sentivo era al cuore. Il dolore dell’ ennesimo tradimento.
Iniziai a piangere, anche se forse me lo immaginai soltanto.
Ero stufo di tutto il dolore che provavo.
Proprio per questo motivo, quando finalmente sentii che tutto si oscurava, l’ ultima cosa che pensai fu che quella giornata si era conclusa nel migliore dei modi.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi.
Ultimamente ero un po’avvilita, come potevo non esserlo. Finalmente ero riuscita a dichiararmi a Giovanni, impresa ardua per una ragazza timida come me.
L’avevo fatto tramite sms perchè non sarei riuscita a farlo guardandolo negli occhi.
Lui di tutta risposta mi scrisse: ”Anche a me interessa una ragazza ma non so come dirglielo”
“Ma guarda sto stronzo, io gli comunico ciò che provo e lui mi chiede consigli su come farlo con un altra” pensai.
Colma d’ira bloccai il suo numero di telefono dal mio dispositivo senza replicare.
Stramazzai nel letto, mi cinsi il cuscino sul viso e cominciai a singhiozzare.
Non avevo mai pianto per un ragazzo, mi ero sempre ripetuta che non ne sarebbe valsa la pena eppure lui…lui era diverso.
Lui con quel suo sguardo così dolce e con quell’espressione angelica mi aveva rapito il cuore, io in quei suoi occhi così celesti vedevo il paradiso.
Si era sempre distinto dagli altri, non era il classico bad boy.
Era gentile e pacato.
Aveva speso l’ultimo suo intero anno di superiori a corteggiarmi ed io l’avevo sempre respinto.
“Forse è colpa mia, forse si è stufato ”pensai fra me e me, disperandomi ancora di più.
Istintivamente avrei voluto contattarlo per potergli spiegare che lo rifiutavo perchè non ero abituata a ricevere tutti quei bei gesti e tutte quelle attenzioni e perciò avevo un po’ di timore. Avrei voluto urlargli che sono introversa; ma ormai non potevo…non potevo perdere la mia dignità ed il mio orgoglio per un ragazzo, anche se ne ero follemente innamorata.
Dopo questa riflessione tornai in me.
Per fortuna non dovevo nemmeno più scorgerlo fra i corridoi dell’istituto che frequentavo perchè lui, essendo più grande di me di un anno, aveva già terminato l’anno precedente.
“A proposito di scuola” esclamai.
Mi era totalmente scordata che fra una settimana avrei dovuto sostenere gli esami finali.
Dovevo impegnarmi con tutte le mie forze così che, se fossi passata a pieni voti, la scuola mi avrebbe inserito subito nel mondo del lavoro, come aveva fatto con Giovanni l’anno precedente.
“Diamine! Basta pensare a lui ”mi imposi, buttandomi a capofitto sui libri e iniziando a ripassare finchè, stremata, mi addormentai.
Le giornate seguenti le passai in completa solitudine immersa nei testi scolastici; non feci altro che leggere, sottolineare e rinfrescare la memoria di tutto ciò che avevo appreso durante l’anno.
Tutto ciò mi aiutò a non pensare sempre a Giovanni, che non si era più fatto vivo in nessun modo.
Ovviamente non potevo spendere l’intero tempo sui manuali e fu proprio in quei attimi che la malinconia mi attanagliava: mi mancava da morire.
Arrivò il fatidico giorno dei tanto agognanti test finali.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nei migliori dei modi.
Mi vestì e partì spedita verso i banchi con cui avevo condiviso eterne giornate negli ultimi cinque anni.
Arrivata davanti alla cancellata e, attendendo che si spalancasse, sorridevo e salutavo tutti gli studenti, anche se non ricordavo nemmeno i loro nomi dato che non ci avevo mai proferito parola; almeno l’ultimo giorno volevo essere raggiante.
Ero davvero tanto elettrizzata e convintissima di potercela fare e infatti ne uscì a pieni voti. Ero proprio soddisfatta del mio impegno.
Fui l’ultima ad uscire dall’aula perciò fuori dall’istituto non sarebbe dovuto esserci più nessuno, ma vidì una folla acalcata ancora al cancello. Cosa stava succedendo?
Mi feci largo incuriosita e notai un cartellone con scritto: Ti amo Sara.
Non poteva essere certamente rivolto a me, pensai. Quando ad un tratto intravidi quegli occhi paradisiaci.
Mi sussultò il cuore.
Contemplai Giovanni avvicinarsi sempre di più porgendomi un mazzo di rose, i miei fiori preferiti.
Rimasi pietrificata e balbettando lo ringraziai.
Lui approfittò di questo mio momento di imbarazzo e dapprima mi accarezzò dolcemente il viso sussurrandomi che ero io la ragazza di cui parlava nel fatidico messaggio, poi mi baciò intensamente.
Quel bacio segnò l’inzio della nostra storia d’amore che con gli anni decollò ulteriormente.
Sono passati dieci anni ma la ricordo bene quella meravigliosa giornata che continua ad unirci sempre più.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi.
7.00: sole sul lenzuolo, nonostante l’autunno inoltrato, torta di mele con spolvero di cannella, un’aforisma meno demagogico del solito, metropolitana semideserta.
8:30: La gonna impertinente lungo le scale del Famedio, il laccio civettuolo che adornava il suo polso e richiamava le décolleté rubiconde che fasciavano i piedi, la giacca ocra, corta ed aderente, quel ricamo arabesco violaceo lungo l’orlo delle maniche, la gonna a tubino sopra il ginocchio. Scolaretta collegiale, costretta in una divisa, contro la procacia del suo fisico maestoso.
L’incarnato pallido, incorniciato dalla robusta chioma del colore d’grappolo d’uva maturo destinato a diventar aleatico dell’Elba, piccoli occhi vispi e profondi, un arcipelago di lentiggini a costellare lievemente le gote.
9:00 Il tremolio della sua voce tradisce l’emozione che immancabilmente si presenta, quando si deve parlare davanti ad un pubblico, sia esso di colleghi, amici, familiari e mille volte di più con perfetti sconosciuti, eterogenei per età, nazionalità, livello culturale, oltre che la mia presenza. Ciononostante ha il polso della situazione, sa tenere a bada il suo gregge.
9.30 Riferimenti alla nostra lirica amorosa a noi solo comprensibili lungo il zigzagare tra le edicole di Gio Ponti e la meraviglia del Castiglioni.
9.50 I nostri occhi fremono, incespicano, scappano, si nascondono, si cercano e si trovano. Più volte.
11.15 No, le nostre labbra non si sono toccate incidentalmente, le nostre labbra si sono cercate, si sono inseguite, si sono volute!
Ma ha ragione, anche in quella occasione ero dibattuto. Lo volevo con tutto me stesso, ma contestualmente frenato dal sapere che non potevo assicurarle un domani. Combattuto tra la brama di suggere la nostra poesia direttamente dalla sua bocca e la paura di creare maggiore aspettativa… e non saperla appagare.
Non mi fraintenda, non sono così borioso da pensarla adorante ai miei piedi, ma certo è che il contatto fisico, un gesto così intimo, come un bacio sulle labbra, inevitabilmente lo si vorrebbe nella propria vita, anche non sine die, basta pieno e genuino, fosse anche a scadenza.
Questi i sentimenti che brulicano incessantemente nella mia testa da quel giorno.
Ma sarei stato scorretto e nemmeno trasparente come impone il nostro carteggio, se non le avessi detto fin da subito che quella situazione da cui sono sfuggito, non si è più ripresentata. Anzi…
Lucia ha trovato la forza di chiudere con il suo passato, ha finalmente affrontato i suoi demoni, ha fatto tabula rasa, pronta ad essere incisa nuovamente da me!
In questi due mesi mi ha offerto lo schemache anelavo e che negatomi mi ha fatto scappare lo scorso dicembre, complice forse il clima natalizio, familiare per antonomasia.
Ora mi ha dato un’orbita su cui girare, stabilizzarmi, non più disorientato nella fatica e nella frustrazione.
Lei invece è una sorta di corpo magnetico e per sua stessa natura mi attrae. Per i suoi modi, la sua cultura, la sua grazia, ma anche per il suo viso, le sua labbra sottili, la sua chioma indomita, i suoi piedi scalzi, le sue valli e i suoi colli disseminati di chicchi di grano.
Ma…. rischio di precipitare e di perdere quella stabilità che ho tanto agognato proprio ora che è arrivata, combattuto tra l’avanzare sulla scorta di una poesia che ho avuto la fortuna di incocciare casualmente in questo torrido agosto e il ritrovare inaspettatamente una persona con la quale sono stato bene al punto di innamorarmi. Per la seconda volta in vita mia….
Rischierei di precipitare e cedere alla tentazione di farla mia. E probabilmente ci riuscirei…
E poi? E poi per lei sarebbero un tormento. Come le ho già detto, ci sono passato, so cosa vuol dire. Inevitabilmente ci avviteremmo su noi stessi e finiremmo con tutta probabilità col detestarci e rinfacciarci inadempienze e parole spese in amore.
No, non voglio questo. Preferisco serbare il ricordo di una cosa bella e inaspettata che mi è capitata, anche se la vita non ha voluto far sbocciare il fiore che poteva essere.
Spero possa trovare nella genuinità e pienezza di quanto è stato tra noi, la forza di perdonare me e l’impermanenza della vita.
Con infinita dolcezza,
Lamberto
“Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi. Proprio come ci si aspetta che inizi il primo giorno del resto della propria vita. Per me iniziò con una telefonata, per te è cominciata con una proposta di matrimonio.”
“Mamma, è una proposta fasulla, visto che mi tradisce con la segretaria da mesi!”
“Se non ti avesse chiesto di sposarlo, non avresti mai scoperto che ha un’altra.”
“Cercare l’abito da sposa non è l’unico motivo per usare il suo computer. Prima o poi l’avrei acceso per qualche altra ragione e avrei scoperto le foto.”
“Forse… ma non lo sapremo mai, giusto?”
“Io so solo che avrei preferito non scoprirlo mai! Mamma, tutto quello che possiedo, l’ho avuto grazie a Alberto. Il lavoro al centro medico l’ho ottenuto perché lui conosceva il direttore, la casa in cui vivo è sua. Dio, persino il corso da contabile l’ho passato grazie a lui… Senza lui accanto, non valgo niente.”
“Non lo pensi veramente.”
“Invece sì!”
“Non è così, Emma, credimi.”
“Mamma, non ti ho vista abbassare la testa di fronte a niente, in tutta la mia vita… Non mi aspetto che tu possa capire.”
“Sapevi che il 25 gennaio del 1985 la London Symphony Orchestra mi chiamò per offrirmi un contratto come violinista solista?”
“Davvero?”
“Già. E sai bene che la musica è sempre stata la mia vita… Ricevere quella telefonata fu come incastrare al suo posto l’ultimo pezzetto di un puzzle costruito in vent’anni di sacrifici, calli e sudore. Non c’era niente che desiderassi di più. Niente. Ma fu uno shock! Ricordo di aver chiesto alla signorina al telefono se non cercasse un’altra Torricelli—ché conoscevo una Elena Torricelli che era una violoncellista stratosferica—ma lei mi disse che no, cercava proprio Ada Torricelli, la violinista. Cercava proprio me! E io accettai, ovviamente. Ero così su di giri che mi lanciai di corsa verso casa di tua nonna, che stava proprio al di là di questa strada, gridando ‘mamma, vado a Londra!’ come un pappagallo posseduto. Ma non ci arrivai mai, di là dalla strada. E non ricordo granché di quello che successe in quel momento: un secondo prima correvo, un secondo dopo rotolavo sopra il cofano bianco di un taxi…”
“Mamma, ti prego… non raccontare altro. So già come va a finire…”
“No che non lo sai! Sai qual è stata la prima cosa che ho pensato quando mi hanno detto che non sarei stata più in grado di camminare? ‘Se non posso andare a Londra, la mia vita è finita’, questo ho pensato. E così è stato: ero come morta, perché avevo deciso che, se non mi funzionavano le gambe, non valevo più niente.”
“Ma è l’idea più stupida che abbia mai sentito!”
“Lo so bene! Ma è quello che ho pensato. E sono stata un morto vivente per molti mesi dopo l’incidente. Ho conosciuto tuo padre nel momento più infimo di tutta la mia esistenza ed è stato lui a salvarmi. Era il mio fisioterapista e doveva minacciarmi per farmi fare qualsiasi esercizio. Dopo cinque mesi di tortura, una mattina mi portò un violino e disse: ‘questo non si suona da solo’. Fu come ricevere uno schiaffo in piena faccia. Mentre accarezzavo le corde con l’archetto pensai: ‘e se invece delle gambe avessi perso l’uso di una mano, o di un braccio?’ Da quel momento non ho più smesso di suonare.”
“Io… io non sono come te. Tutta questa forza non so dove trovarla…”
“Emma, non piangere… Fidati di me: è tutto qui dentro. Basta che lo tiri fuori.”
“Ma come faccio a…”
“A fare cosa, tesoro?”
“A costruire da sola il resto della mia vita?”
“Devi decidere da dove cominciare.”
“E da dove comincio?”
“Che cosa ami più di tutto, Emma?”
“Beh… dipingere.”
“Bene! Pensa se la vita ti avesse portato via i tuoi quadri, invece di un fidanzato infedele. Che faresti?”
“Io… ne dipingerei di nuovi.”
“Esatto, tesoro. Esatto.”
“…”
“…”
“Mamma?”
“Sì?”
“Vuoi posare per me?”
“Con piacere, tesoro. Con vero piacere.”
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, a dire il vero tutto iniziò secondo l’ordinaria normalità sveglia presto, caffè, sigaretta e pillola di depakin al suono delle nozze di Figaro di Mozart.
Era la primavera del 96, un giovedì qualsiasi, dalla finestra della cucina s’intravedevano i mandorli in fiore, stormi di uccelli e sole lucente ma in me da anni il buio della solitudine, l’unico amico rimasto era il mio psichiatra, il dottor Carl.
Mi accingevo a docciarmi quando ad un tratto squillò il cellulare, cosa insolita pensai, numero sconosciuto, risposi… era una nota casa editrice che palesò interesse alla pubblicazione di un romanzo che avevo inviato tempo addietro, mi fecero una proposta allettante, accettai senza esitare, non mi sembrava vero, un’altalena d’emozioni si muoveva nel mio corpo, non stavo più nella pelle ma questa sensazione durò pochi attimi perché non avevo nessuno con cui condividerla.
Decisi di chiamare il dottor Carl per fissare, con urgenza, un appuntamento ma disse che in giornata non gli era possibile in quanto aveva già tutti gli orari di visita prenotati; non mi sembrò un bel comportamento il suo, sapeva bene del mio problema di governo delle emozioni, specialmente quelle forti.
Stranamente quella notizia mi creò uno scompiglio emozionale interiore, un continuo sali e scendi umorale, avevo il bisogno di parlare con qualcuno, cercai di calmarmi, assunsi anche una doppia dose di tranquillanti ma quella merda sembrava non fare effetto!
Al che, dopo qualche ora, decisi di recarmi lo stesso presso il suo studio, aspettai, ansimante, che terminasse la seduta in corso ma quando mi vide non ebbe una bella reazione:
“Che ci fa lei qui? Mi sembra d’esser stato chiaro! Tra qualche minuto ho un’altra visita” esclamò.
I toni iniziali furono duri e freddi, poco ospitali insomma ma alla fine decise di accettare la mia richiesta, tuttavia il suo atteggiamento mi turbò non poco, dopo anni di psicoterapia avrei gradito un’accoglienza più amichevole, mi ritrassi dal dirgli ciò che volevo e, per la prima volta, cercai di capire che tipo di persona avessi di fronte, iniziai a fargli delle domande personali, attinenti la sua vita e dapprima evitò di rispondermi dicendo che non erano cose che riguardassero il nostro rapporto professionale ma su continua mia insistenza iniziò a cedere dando delle risposte confuse, farfugliava! Sembrava quasi terrorizzato.
Lo invitai a tranquillizzarsi ma più passava il tempo e più perdeva il controllo di se, era come posseduto, pochi istanti dopo si diresse verso il mobiletto dove aveva i farmaci, lo aprì, prese una siringa e un flacone di Haldol da 3 ml, laccio emostatico al braccio e se lo iniettò, rimasi sconcertato! Ma sembrava essersi tranquillizzato, pochi minuti di silenzio glaciale quando di colpo ritornò in preda al panico.
Iniziò a dimenarsi sulla pavimentazione, con forza e a fatica riuscii a farlo sdraiare sul lettino e provai a capire cosa gli stesse succedendo, cosa avesse generato in lui una reazione del genere, era evidentemente in atto un evento psicotico; neanche il tempo di una risposta che sobbalzò dal lettino facendomi cadere a terra, si diresse verso la scrivania ed impugnò un fermacarte a forma di pugnale minacciando di uccidersi se non avessi fatto qualcosa per lui.
Era una situazione surreale!
Lo invitai a calmarsi, fortunatamente l’attenzione dei miei occhi cadde sul giradischi posizionato sulla mensola di fianco la scrivania, amava la musica classica è grazie a lui che la conobbi, la definiva terapia naturale per la mente e spesso le nostre sedute erano accompagnate da soavi composizioni, v’era già un vinile inserito, Chopin, mi limitai ad attivare l’apparecchio, il suono della musica sembrava rasserenarlo, lo invitai a darmi il fermacarte e a stendersi nuovamente sul lettino, questa volta obbedì senza esitazioni; nel frattempo tirai fuori un ceppo d’erba che avevo nel jeans, preparai una canna e lo invitai ad accenderla, dopo qualche tiro mi guardò stupito e con aria attonita mi disse che si sentiva pronto per ascoltare ciò che avevo da dire.
In realtà lo vedevo ancora provato ma stabile nell’atteggiamento così decisi di farlo riposare dicendogli che ne avremmo riparlato in un’altra circostanza in via precauzionale portai via con me il fermacarte a forma di pugnale, invitai il paziente in sala d’attesa ad andarsene dicendogli che il dottore aveva avuto un improvviso malore di tipo fisico, mentendo spudoratamente ma lo feci al solo scopo di salvaguardare la sua reputazione, in fondo erano anni che mi assisteva si creò un certo rapporto confidenziale, quasi amichevole.
Scesi le scale e mentre lo facevo mi sentivo bene, avevo aiutato una persona in difficoltà, mi sentii utile e quasi capace di governare me stesso, i miei impulsi.
Aprii il portone per uscire e notai una folla di persone vicino al palazzo, incuriosito mi avvicinai per capire cos’era successo, c’era il dottor Carl in una pozza di sangue.
Ricordo bene. Quella giornata iniziò nel migliore dei modi. E’ arrivata prima lei alla maniglia della porta. Mentre lei entrava di fretta io stavo uscendo sovrappensiero. Non sapevo arrivasse. Se lo avessi anche solo immaginato forse non avrei messo quel maglione. In questo periodo non ho molta scelta nell’armadio. Ma forse nemmeno il desiderio di vestirmi diversamente da ieri. Però se lo avessi saputo, forse avrei cercato meglio.
In compenso mi sembrava in quell’istante di aver un’aria intelligente, riuscendo a mantenere quell’indifferenza di chi vuole essere desiderato. Senza premeditazione ho respirato il suo profumo. Lo ricordo ancora ora, lo ricorderò sempre. Sono passato oltre senza rallentare cercando di tenere lo sguardo basso ma, forse, cercando di avvicinarmi anche solo impercettibilmente.
L’imprevisto inizio di ogni giornata come non vorresti mai desiderarlo, per il timore che non si avveri.
Non ricordo come sono arrivato alla macchina. Tolgo sempre la giacca prima di salire, il cellulare sempre allo stesso posto. La radio sintonizzata sempre sulla stessa stazione, il volume sul 16. Non ricordo nemmeno quando ho fatto questi gesti, solo dopo qualche chilometro mi rendo conto che non ho la giacca, il cellulare è al suo posto ma la radio è accesa senza volume. Devo per forza chiamare Andrea, non vorrei nemmeno respirare ma devo. Lo chiamo ed iniziamo con un argomento a caso come solo noi sappiamo fare, prima di passare alle cose serie. Il calore della macchina in questa gelida giornata e la voce di Andrea mi svegliano. Speravo Andrea non mi rispondesse ma per fortuna c’è lui che mi ricorda chi sono e qual’è il mio compito.
Senza accorgermi sto posteggiando, gli altri sono già arrivati e mi aspettano per salire. Era tanto tempo che non ci vedevamo tutti insieme. Senza farci domande ci guardiamo, come per capire se siamo cambiati in questi 8 mesi. Siamo cambiati e lo sappiamo, ma è un attimo che passa veloce.
Ho ancora addosso l’inizio di questa giornata ed ogni tanto chiudo gli occhi per ricordarmi di quell’istante, ed un groppone mi assale.
Sappiamo perchè siamo qui. Decidere chi dovrà essere licenziato. Questo è il compito per cui ci riuniamo tutti gli anni a novembre. Come vorrei avere qui adesso quegli occhi, ho bisogno di non avere questa responsabilità e se lei fosse qui mi sembrerebbe tutto più sopportabile. La mia mente scapperebbe con lei di fianco. Il mio corpo posso anche lasciarlo qui, non mi serve.
Gli elenchi sono davanti ad ognuno di noi. Siamo partiti nel 2009 con i primi licenziamenti, è stata la prima crisi e sembrava non dovesse più ripetersi. Invece ogni anno ci ritroviamo a prendere decisioni sempre più grandi di noi. Non abbiamo potuto nemmeno prendere un caffè, i bar sono chiusi e i distributori automatici spenti. Potevamo non vederci fisicamente, ma abbiamo voluto dare dignità a quello che ci viene chiesto.
Ogni tanto guardo come un ragazzino il cellulare, non voglio che mi scriva. O forse si. Se mi scrive non aprirò il messaggio, lo terrò per quando finirà questa riunione e sarò di nuovo in macchina. Lo voglio leggere fermo al primo semaforo rosso dopo che la macchina sarà calda. Ho questa immagine e la voglio portare con me.
Conosco quei nomi, erano centinaia 11 anni fa. Era facile scegliere. Giovane, senza famiglia, il lavoro sbagliato, la prima esperienza, ricco, antipatico. Oggi fatico a trovare qualcuno più giovane di me, ma non abbastanza grande da portarlo alla pensione.
Quando corre per prendere l’autobus alla fine della giornata sembra che le cada tutto dalle mani. Ci sono giorni che cerco in tutti i modi di incrociare quel momento…corre con la leggerezza di chi non ha il peso di una vita ancora vissuta. Ma un giorno sarà pronta per tutto quello che una donna è giusto diventi. La immagino correre a prendere l’autobus indaffarata come oggi, con un marito e dei figli che la attendono a casa. Invidio quell’uomo. Vorrei poterle dire tutto. Non lo farò mai. Ricorderò per sempre quel profumo e quella fossetta.
Mi è arrivato un messaggio.
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, ero in laboratorio con il tanfo della notte ancora addosso. Ormai erano tante, forse troppe, le mattine che nascevano in quel laboratorio chimico. Mi capitava spesso di essere così immerso nel mio lavoro che venivo svegliato dai raggi dell’alba. Avevo fretta di riabbracciare mia moglie Sabrina e l’unico modo per soddisfare quel mio desiderio era finire quella mia maledetta missione al più presto, quella missione di cui nessuno poteva sapere. Il capo del mio progetto, il Dottor Erhardt, mi aveva espressamente vietato di parlare della mia ricerca ad anima viva, stupidamente non compresi il prezzo che avrei pagato da li a poco per aver coinvolto mia moglie nella ricerca. L’apporto di mia moglie fu fondamentale per completare la mia ricerca, la coinvolsi nel mio progetto per nutrire quella passione per il nostro lavoro che ci accomuna. Lei dal suo laboratorio di New York elaborava i dati che le inviavo, inviandomi algoritmi base, pronti per essere computati e verificati. Sabrina era laureata in Microbiologia e Virologia alla Sapienza, ricordo che era seduta al bar di Piazza Aldo Moro quando la conobbi per la prima volta, grazie a quel famoso cappuccino versato sulla sua gonna mi innamorai di lei perdutamente. Era la mattina del 21 Febbraio del 2019 e non sapevo che quel giorno era iniziato nei migliore dei modi, sarebbe stato il mio ultimo giorno a Wuhan. Stavo verificando l’ultimo algoritmo computazionale che mi aveva inviato Sabrina e… Tombola! L’equazione sembrava essere bilanciata. Finalmente avevo la conferma che la soluzione chimica da noi creata depotenziava quel virus, mantenendo l’impronta genetica del DNA in maniera tale da stimolare la creazione di anticorpi una volta messo in circolo in un organismo umano. Avevo il cuore a mille, verificai altre cento volte, la verifica era sempre soddisfatta. Avevo voglia di festeggiare ma non potevo, informai il Dottor Lawrence Erhardt: <<Dottor Erhardt, ho da darle la lieta notizia che la mia missione è giunta a termine>>.
Lawrence rispose con gioia alla mia notizia, tuttavia il suo tono di voce faceva intravedere una certa amarezza e la conferma la ebbi dalla sua domanda: <<Liang mi giuri di non aver parlato con nessuno della tua ricerca>>?
Da quella domanda capì che in qualche modo sapesse della mia condivisione dei dati di ricerca con mia moglie Sabrina: <<Be in effetti ne ho parlato con mia moglie, anche lei è una ricercatrice scientifica e mi ha dato una grossa mano nella ricerca. Ma comunque è una professionista e non divulgherà mai a nessuno il merito della mostra ricerca>>.
Lawrence non era della stessa idea, mascherò il suo enorme disappunto solo per prendere tempo, solo per organizzare al meglio i provvedimenti da prendere contro mia moglie. Tante volte, troppe volte, la razza umana è spietata nel raggiungere i propri obbiettivi e non conosce alcun valore se non quello del denaro e del potere. La sera di quel giorno iniziato nei migliore dei modi, ero in albergo a ripensare alle parole di Lawrence, sentivo che quel segreto stava diventando pericoloso, così decisi di scrivere questa strana storia su un quaderno, da tirar fuori nel caso mi fosse successo qualcosa. Quella sera stessa spedì quel quaderno. Lo spedì a Roma, all’indirizzo di un mio ex compagno di Università. Liang Cheng e Sabrina Venturi non potevano sapere che la loro ricerca scientifica aveva aiutato il mondo a cadere in un enorme complotto che da li a qualche mese sarebbe sfociato in una pandemia globale. Il piano del Dottor Lawrence Erhardt era frutto di anni di sperimentazioni, ideando un virus che avrebbe messo in ginocchio le economie di interi paesi, per poi tirar fuori il vaccino per salvare il mondo e fatturare miliardi di Dollari in un colpo solo. Alcuni giorni dopo Mario a Roma ricevette il quaderno di Liang mentre Sabrina Venturi moriva per colpa di un infarto, lo stesso strano infarto che condusse alla morte suo marito Liang Cheng prima di poter tornare a casa.
1 – LA CACCIA
2 – L’intervento
3 – Nebbia di delirio
4 – LE VIOLE
5 – PERCHÉ SONO QUI?
6 – OMBRE CINESI
7 – In piedi sul ponte
8 – Messaggio dalle stelle
9 – Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi
10 – VANIGLIA, CIOCCOLATO E ROSE ROSSE
11 – Il chiodo
12 – Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
13 – PUNTI DI VISTA
14 – La porta
15 – Lucilla
16 – FORMICHE
17 – L’ultimo giorno
18 – La seconda casa
19 – Tzunami
20 – TUTTA COLPA DI UNA H
21 – Racconto d’amore
22 – LA NOTTE
23 – La mia giornata fortunata
24 – Motel V.
25 – Biografia in fieri II
26 – FRONTALE
27 – LA FINE
28 – Sara e Giovanni
29 – FAMEDIO
30 – IL PRIMO GIORNO DEL RESTO DELLA MIA VITA
31 – Psycho lyric
32 – Messaggio
33 – Il Quaderno di un amico
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