19 – Tzunami
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Lorenzo, mi aveva svegliata con una coccola. Un girasole e un caffè a letto uniti ad un bacio appassionato.
Una banalità che mi diede grinta in un periodo travagliato. Mi aveva stupita. Non succedeva da tempo, troppo.
Negli ultimi mesi era distante, silenzioso, ingabbiato nei suoi fantasmi legati a problemi lavorativi e alla sua costante insoddisfazione. Aveva compreso di non poter perseguire la carriera auspicata.
Sarebbe potuto essere un giorno come tanti.
Non avrei mai pensato di ricordarlo così vividamente.
Mi basta chiudere gli occhi per essere catapultata al 9 aprile 2018, ore 8:06.
Stavo andando in ufficio quando, in dieci secondi, la mia vita è stata capovolta.
Un colpo forte, inatteso, travolgente.
Non compresi subito l’accaduto contrariamente a coloro che si trovavano dietro me.
Loro avevano chiara l’immagine, la sequenza, il movimento. Avevano assistito allo tzunami, che mi aveva travolta.
Pioveva. Una pioggerellina leggera che gli inglesi avrebbero, nel loro fare snob, definito shower. Ricordo che le gocce mi infastidivano, portandomi a coprirmi col cappuccio del Woolrich rosso col pelo di volpe.
Stavo attraversando la strada, semaforo verde.
Zaino sulle spalle, auricolare all’orecchio.
Ascoltavo con poca attenzione le parole di Lia che si lamentava sui massimi sistemi.
“Che palle” pensavo dando poca attenzione alle parole.
Ero concentrata sulla strada.
Seguivo la folla.
Dinnanzi a me un bambino con la madre, dietro una signora col cappello verde.
Camminavo. Le auto erano ferme alla mia destra e alla mia sinistra.
Testa bassa e nervosismo. Camminavo.
Non mi ponevo domande, seguivo mamma e figlio.
Poi, un colpo.
Mi ritrovai per terra.
Il telefono mi volò dalle mani, ero sull’asfalto.
Immobile. Non riuscivo a muovermi. Non capivo se avessi paura.
Sentivo bagnato.
Un’unica sensazione.
“Mi sono pisciata addosso”, pensai.
No. Era il sangue che scendeva dal viso.
Misi la mano in faccia. Diventò rossa.
La pioggia cadeva. Più intensa.
Poi, vidi un casco a circa due o tre metri da me.
Guardai avanti, un bambino era in piedi, urlava spaventato.
Dieci occhi preoccupati mi chiudevano la visuale.
Non riuscivo a muovermi. “Oh cazzo” pensai.
Mi aiutarono.
La gamba non mi reggeva.
Mi presero in braccio senza fatica.
Mi misero in un’auto.
Non piansi.
Cercavo di capire se mi stesse venendo sonno.
Sebbene non sapessi nulla di primo soccorso ero consapevole che la mancanza di sonno fosse sinonimo di assenza di trauma cranico.
Nel giro di dieci minuti mi ritrovai su un’ambulanza.
Sentivo un grande dolore riconducibile alla lastra di legno su cui mi avevano immobilizzata per portarmi al PS.
La mia attenzione si pose sul telefono. L’avevo in mano. Era il mio unico possibile mezzo di comunicazione.
Da poco ero a Roma da Lorenzo. Non conoscevo nessuno.
Mi ritrovai in un PS dove vedevo persone che erano in attesa da ore.
Sapevo che mi ero fatta tanto male.
Non sentivo dolore.
Il mio pensiero volò a casa, a mamma e papà, a 600 km da me.
Mi sentivo sola come un cane, ma sicuramente meno di loro che si sarebbero sentiti il pavimento disgregarsi sotto i piedi.
14.25, non mi avevano ancora fatto la lastra.
Con fatica contattai Lorenzo, alle 16.32 mi fecero i raggi.
No trauma cranico. Tutto il resto maciullato.
“Cazzo” pensai, ma ero viva. Il cervello c’era.
Mi dovevano mettere in trazione.
Non sentivo dolore.
Dovevo chiamare casa.
Avevo paura. Per loro. Non per me.
Presi l’iPhone, chiamai casa.
Tre squilli, poi la voce di casa, amore.
La voce di mio padre disse “Eh finalmente”.
Lo bloccai, fui sentenziale.
“Papà ho avuto un incidente. Mi hanno investito, sono viva. Nessun trauma cranico. Ho la gamba rotta.”
Presi fiato e continuai “Mi stanno curando. Sono bravi. Mi affido a loro.”
Sentivo male per farli soffrire. Questo era il vero dolore.
“Ok”. Mi rispose. Il suo “ok” mi diede fiato.
Sapevo che era fatto di paura e di lacrime inghiottite, mi diede coraggio.
Mi misero in trazione. Mi sedarono.
Mercoledì mattina mi svegliai.
Una gamba in alto e le urla di una anziana che si era rotta il femore.
5:43 minuti.
Mio padre era a Roma da me.
Sorrisi.
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