16 – Il piacere di una Coca – Cola
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…” pensava tra sé e sé Artemis mentre tornava a casa dopo quel pomeriggio, quell’incontro che le aveva cambiato la vita.
A scandire il suo procedere, l’andamento dei suoi passi, erano alcune righe di un testo che aveva letto qualche anno prima all’interno del libro Monte Cinque, di Paulo Coelho.
Nella sua mente riappariva e risuonava con forza quella frase che aveva solo apparentemente compreso: “Un bambino può insegnare sempre tre cose a un adulto: a essere contento senza un motivo, a essere sempre occupato con qualche cosa e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera “.
Non avrebbe mai pensato che quelle parole fossero così vere, reali. Era convinta che solamente l’esperienza, la vita, il procedere degli anni avrebbero potuto insegnare tutto questo.
Si sbagliava.
Aveva cinquantatré anni e non era in grado di farle. Credeva di esserne capace. Era sola appetenza.
Artemis, avvocato in carriera, madre fiera di due gemelli ventenni, moglie di un giornalista affermato.
Una vita nei salotti altolocati. Relazioni importanti, rapporti con persone di ceto molto abbiente e con cariche rilevanti nel panorama romano.
La sua, una vita concitata, piena e ricca di impegni oltre che di relazioni, pranzi e cene di lavoro in ristoranti e case bellissime e prestigiose.
La vita che quando era giovane sognava e che oggi credeva fosse in grado di renderla felice.
Era arrivata a questo col tempo, grazie al marito e alle sue relazioni politiche.
Era giunta con sorrisi forzati. L’aveva ottenuto non perché lo pretendeva, ma perché lo aveva accettato.
Se nella sua vita passata era ciò che desiderava, ma oggi era quello che viveva – subiva, credendo di essere felice.
Credenza.
Appetenza.
Viveva in una bolla, ma non lo sapeva.
Non apriva gli occhi. Non era conscia che li aveva chiusi.
Tutti la invidiavano.
Era quella che voleva.
Ma lei, era felice?
Non si poneva la domanda.
Doveva esserlo e lo era.
Non sapeva provare questa sensazione senza motivo.
La sua gioia era subordinata al solo risultato, il suo impegno al dovere.
Artemis si era staccata dalla vita. Inconsapevolmente.
Quel pomeriggio tutto era cambiato.
Stava aspettando una telefonata di lavoro.
Era nella sua pausa pranzo che aveva stranamente deciso di trascorrerla a Villa Borghese, nel parco, all’aria aperta.
Era la prima volta che non passava quel pseudo break davanti al pc, mentre studiava l’atto da discutere a breve.
Avrebbe dovuto farlo anche quel giorno.
Così non accadde.
Non c’era un motivo, stranamente.
Mentre in colpa sedeva nella panchina dinnanzi al laghetto una scena le stava per aprire gli occhi.
Un bambino, probabilmente africano, che correva.
Avrà avuto poco più di sette anni.
Correva in modo scoordinato ricorrendo una farfalla.
Un gesto inconsueto. Difficile da vedere a Roma, anche nelle aree verdi.
Un bimbo come tanti, un insetto, come molti.
Azioni semplici, naturali non costruite o studiate.
Atti apparentemente banali e poco soddisfacenti.
Artemis osservava meticolosamente con ingiustificata attenzione il viso di quel bambino.
Era parlante, auto esplicavo.
Serenità e gioia si univano a ingenuità e purezza.
Lui nel suo “non fare” aveva scoperto come tenersi impegnato con gioia.
Era l’esempio di come si potesse essere felici pretendendo quanto si desidera. La libertà.
Tornata a casa Artemis prese la sua tazza e la riempì fino all’orlo con la Coca-Cola che aveva comprato tornando a casa. Non la beveva da anni, perché non era chic. Era felice, con niente. Era impegnata nell’essere felice e nel sentirsi libera.
Un fulmine a ciel sereno.
La sua vita non era sua.
La scelta.
Scrivere.
Ricominciare a farlo.
Iniziare finalmente il suo romanzo. Questo significava concretamente scegliere di essere felice e libera. Era il sinonimo di provare a realizzare il suo vero sogno.
Non fece passare molti secondi per dare formalità a questa decisione: licenziarsi da un lavoro che non amava.
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