15 – Lucilla
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, con una fantastica prima colazione. Eravamo io e mia madre, in cucina. Lei aveva preparato il caffè ed io fette di pane tostate con burro e marmellata. C’era anche il pane con l’uva. Era una giornata speciale, di tanto tempo fa. Festeggiavamo l’inizio di “Fiabe d’estate”, una iniziativa del Comune di Viareggio: rappresentare fiabe nei parchi assieme ai bambini. Sarei dovuta andare ad accogliere, con una pattuglia della polizia municipale, la coordinatrice dell’iniziativa. Ero responsabile del gruppo degli animatori e per me questo era un giorno di festa. Salutai mia madre, dicendo che sarei tornata per pranzo.
Tornando, trovai Sandro, il mio ragazzo, sul portone. “Luci, sappi che non è niente, tua madre è stata investita da una macchina mentre andava a far la spesa in bicicletta. Il Panzini ha visto ed ha chiamato i soccorsi. Adesso tua madre è all’Ospedale di Seravezza.” Mi precipitai subito. La trovai. Disse che sapeva chi l’aveva investita. Le chiesi come mai non l’avevano portata all’Ospedale di Pietrasanta, che era meglio attrezzato.” Mi sono fatta portare qui perché qui c’è morto tuo padre” Capii che il morale era a terra, anche se mi fece piacere sentir parlare di mio padre: da quando era morto non ne aveva più parlato. “Ma la sai la diagnosi?” “Certo, una frattura al femore. Domani alle nove mi operano “. Il giorno dopo non sapevo come fare: avevo una conferenza stampa, la prima della mia vita, per pubblicizzare l’iniziativa del Comune di Viareggio. Ci rinunciai con una telefonata al mio vice. Salutai mia madre prima che entrasse in sala operatoria. Il tempo passava e nessuno si faceva vivo. Avevo paura che qualcosa andasse storto e contemporaneamente mi rammaricavo: Potevano dirmelo che l’operazione durava così tanto: sarei potuta andare alla conferenza stampa e tornare.
“Tutto bene” disse un’infermiera spingendo il letto fuori dalla sala operatoria. Tirai un sospiro di sollievo.
La riabilitazione fu lunga. L’accompagnavo in un centro specializzato dove fecero un ottimo lavoro e ben presto, gradualmente, riuscii a costruire una giornata routinaria delle attività che poteva fare. Scendeva, con la sua stampella, quattro rampe di scale per prendere la posta nella cassetta al cancello, e quella era la sua palestra , faceva la lista della spesa che io provvedevo a comprare al supermercato, faceva il solitario con le carte, aveva una trasmissione preferita da guardare. Per l’igiene personale aveva però bisogno del mio aiuto. “Non trovo giusto che tu vada a insegnare a scuola la mattina e che al ritorno tu debba far da mangiare. D’ora in avanti lo farò io”. Così disse un giorno e così fece, utilizzando in modo diverso gli strumenti per far da mangiare adattandoli alle sue difficoltà.
Sandro veniva spesso a casa nostra a trovare mia madre, golosona. Quando andavamo alle fiere dei paesi vicini si raccomandava, quasi fosse questione di vita o di morte: “Portatemi un sacchetto di brigidini. Io che son senza denti li ciuccio”. In questo modo passarono tanti sereni anni.
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