13 – PUNTI DI VISTA
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…
Nonostante fosse domenica la sveglia suonò presto. La mamma iniziò a stiracchiarsi sotto le coperte e io ne approfittai per mettermi sopra la sua pancia. Lei mi grattò tra le orecchie e sotto il mento per quasi dieci minuti. Grattava e grattava, parlandomi di una giornata speciale. O sì quella era davvero una giornata speciale e quando finalmente uscimmo dal letto continuò ancora meglio. Mamma mi riempì la ciotola con le crocchette speciali quelle che di solito mischiava a quelle del discount, credendo che io non me ne accorgessi. Quella mattina invece nella mia ciotola c’erano solo le crocchette buone.
All’improvviso suonò il campanello ed entrarono le tre amiche della mamma. Chiassose e moleste più del solito si precipitarono su di lei con risatine isteriche. Alzai la testa dalla mia ciotola per guardarle. Erano vestite tutte uguali. Indossavano una specie di tunica di pizzo dello stesso colore della mia pupù quella volta che avevo avuto i vermi.
Si chiusero tutte in camera con la mamma. Valutai l’opportunità di entrare anch’io, ma decisi di restare nei paraggi della ciotola di crocchette. L’esperienza mi aveva insegnato che poteva sparire da un momento all’altro. Mi stiracchiai sbadigliando. Dalla camera arrivavano voci allegre e risate.
Dopo circa un’ora, mentre stavo alla finestra a godermi un po’ di sole, mamma mi comparve davanti. Sorrideva da dietro un trucco inquietante. Sembrava che avesse sbattuto la faccia contro un quadro di Van Gogh con la pittura ancora fresca. Indossava un vestito bianco. Io avevo già visto quel vestito. Era una settimana che lo tirava fuori dall’armadio e lo provava ridacchiando. Fece una piroetta veloce. “Che ne pensi Olivia?”
Io pensavo la stessa cosa che avevo pensato la prima volta che lo avevo visto. Il vestito era bello, ma avrebbe dovuto prenderlo una taglia più grande. Ovviamente non dissi nulla e mi limitai ad un miagolio di consenso. Il campanello suonò di nuovo. La casa fu invasa da un’agitazione collettiva. Spinsero la mamma in camera e andarono ad aprire. Luca comparve sull’uscio con la sua tipica espressione da idiota.
Erano cinque anni che quell’individuo girava per casa mia. Non ero mai riuscita a digerirlo. Era insipido come il petto di pollo che mamma si ostinava a propinarmi ogni martedì. Avevo provato a fargli capire che non era il benvenuto. Un paio di volte gli avevo fatto pipì nelle scarpe e spesso mi ero divertita a farmi le unghie sulle sue gambe. Dal suo sguardo capivo che l’antipatia era reciproca, ma ogni volta si limitava a grattarmi dietro le orecchie sorridendo. Una volta aveva anche tentato di corrompermi con un topo di gomma. Forse credeva che io fossi come i cani che scodinzolano a chiunque tiri a loro una palla. Illuso.
Le amiche della mamma lo accompagnarono nella sua camera. L’euforia iniziale si era spenta di colpo. Una di loro stava piangendo in cucina. Decisi di andare a vedere cosa stesse succedendo. Iniziai a graffiare la porta chiusa. Sentii che qualcuno mi prendeva in braccio. Era impensabile che un estraneo mi mettesse le mani addosso. Quelli che ci avevano provato si stavano ancora curando le ferite. Quella volta però mi lasciai portare via. Dopo alcuni minuti Luca uscì senza guardare nessuno, lanciandosi veloce verso l’ingresso. Era riuscito ad aprire la porta, ma le amiche di mamma si erano buttate su di lui, impedendogli di andarsene. Urlavano, una di loro continuava a colpirlo in testa con la borsetta. Io mi fiondai da mamma, stava piangendo. Non avevo capito cosa fosse successo, ma decisi che la colpa era di Luca. Sgattaiolai fuori passandogli tra le gambe e mi appostai sulle scale. Alla fine lo lasciarono andare e lui si precipitò giù di corsa. Non mi vide e non vide nemmeno i miei denti che affondavano nel suo polpaccio. Il ruzzolone e le urla di dolore che ne seguirono mi confermarono che quella giornata, iniziata nel migliore dei modi, stava proseguendo alla grande.
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