12 – L’ultimo ricordo
Finì per addormentarsi con la neve come cuscino. Intorno la bianca distesa silenziosa e immobile.
Era seduto sul bordo di una nuvola, ai margini di un lago. Cosa ci faceva lì? Si risvegliò con un sussulto e per un istante gli tornò alla mente l’immagine del mulo morto di stenti. Quando era stato, una settimana, un mese prima? Una mattina non si era più alzato e qualcuno per compassione aveva sprecato un proiettile per finirlo. Poi la sua carne congelata aveva sfamato per giorni quello che restava del quinto reggimento alpini. Forse era stato dopo. Sicuramente dopo Kantemirovka, dopo Kalmikov. Era lì che avevano perso gran parte dell’equipaggiamento e delle armi pesanti, e avevano cominciato a retrocedere. Era il 19 dicembre. Poi tutto era precipitato. Ricordava le liti fra ufficiali, il conteggio giornaliero dei morti e dei dispersi, le marce forzate, incalzati dai russi e dal gelo. Era in uno di quei giorni, in cui nebbia e neve rendevano quasi nulla la visibilità, che si era perso. Si era fermato per sistemarsi uno degli scarponi. Poi era tornato un attimo indietro, pensando di aver perso qualcosa. Si era fermato di nuovo e si era seduto sul relitto di un pezzo d’artiglieria. La colonna era scomparsa.
Per il resto del giorno aveva camminato nella direzione sbagliata, fino a raggiungere verso sera una isba isolata. L’aveva intravista da lontano, nel buio si vedevano le finestre illuminate da una luce rossastra e tremolante, le fiamme di un camino. Si era trascinato fino alla porta e aveva bussato. Quel che successe dopo fu l’ultimo ricordo piacevole della sua vita. Due donne, una giovane l’altra anziana, si erano affacciate alla porta e avevano cominciato a parlargli nella loro lingua incomprensibile. Non erano spaventate, piuttosto sembravano arrabbiate e intenerite nello stesso tempo. L’avevano fatto entrare e una delle due era corsa fuori, rientrando poco dopo con un secchiello pieno di latte. Poi, dopo che aveva mangiato, lo avevano condotto nella stalla e, sempre comunicando a gesti, gli avevano permesso di dormire lì per una notte, solo per una notte. Ricordava bene gli occhi chiari di quella giovane, che il mattino seguente lo aveva svegliato presto ed era stata a guardarlo mentre si allontanava. In quel momento avrebbe voluto che fosse lì e che gli tenesse la mano. Avrebbe voluto raccontarle del suo paese tra le montagne e dei suoi inverni, che non erano poi tanto diversi da quelli russi, solo che al paese aveva una casa e una stufa sempre accesa, la legna ben ordinata nel capanno. Sua madre aveva le mani rosse dal freddo e dal lavoro, e non stava mai ferma.
Avevano anche loro due mucche, e burro e formaggio non mancavano. Come anche farina, zucchero, caffè. No, quello un po’ meno, che non si trovava più e bisognava accontentarsi della cicoria. Magari l’avrebbe anche sposata e sarebbero tornati insieme. Lui avrebbe imparato la sua lingua e lei avrebbe cucinato le patate con lo stesso sapore di affumicato di quelle che gli avevano offerto nell’isba, al tepore del grande camino.
Cercò per un attimo di orientarsi nel tempo e nello spazio. Doveva ricordarsi perché era lì. Era partito che era luglio, con l’Ottava Armata, questo lo ricordava bene. Gli avevano detto di non scordarsi mai l’ordine. Dunque, Divisione Alpina Tridentina. Generale Reverberi. Brigata Alpina Julia, Generale Ricagno. Quinto Reggimento Alpini, 150 uomini, motto: nec videar dum sim, non per apparire ma per essere. Tutti insieme marciavano adesso, passando vicino a lui che non riusciva a svegliarsi, ma sentiva le voci e il frastuono dei blindati che gli passavano accanto. Aspettatemi. Solo un momento, il tempo di rimettere gli scarponi. Di allacciare la divisa. Lei viene con me, sarà mia moglie tra poco anche se ci conosciamo appena. E cominciò a volare sopra tutti, tenendo per mano la donna giovane sopra i tetti del villaggio. Lei vestita da sposa, con il velo e un gran mazzo di fiori bianchi. Fino a che giunsero sopra al tetto di una casa con un grande giardino e un bel noce, la palizzata in legno e la fonte d’acqua fresca. I prati intorno erano verdi e le montagne si stagliavano contro il blu del cielo. Si abbassò un poco verso il terreno per salutare sua madre che lo aspettava sorridente, con le mani rosse sul grembiule.
Valutazioni Giuria
12 – L’ultimo ricordo – Valutazione: 26 Giud.1: la storia è piacevole , ma la narrazione a tratti fa percepire il finale e si perde il piacere dell’attesa, sogno e realtà sembrano tutt’uno Giud.2: Il racconto è ben strutturato, leggibile, buon uso del vocabolario. Qualche ripetizione di troppo. Giud.3: Molto ben scritto, commovente nella sua semplicità. Capace di trasmettere emozione e di trasportare il lettore accanto al protagonista, nel freddo inverno di guerra. Giud.4: “Era in uno di quei giorni, in cui nebbia e neve rendevano quasi nulla la visibilità, che si era perso” una brutta costruzione. Non ci sono gravi errori, ma qualche ripetizione di troppo che si sarebbe potuta evitare con una attenta rilettura. Il racconto è di per sè dolce e ben strutturato, anche se con alcune importanti imprecisioni storico/culturali della vicenda. Consiglio la lettura di “100.000 gavette di ghiaccio”. |