11 – Il chiodo
“Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi… quello che non ricordo è: che giornata era?”
Vedevo il mio riflesso scomparire sulla porta della metropolitana che si apriva, mentre la voce, la solita voce, dall’altoparlante annunciava “fermata Duomo”.
Era una mattina normale, il solito viaggio in metropolitana, la solita calca che proprio in Duomo si diradava, come ogni giorno. Niente di diverso, se non quel pensiero che si faceva sempre più insistente. Non era il ricordo di un luogo, né di un’avventura, era il ricordo di una sensazione. Di una tranquillità che quella mattina mi fece rendere conto di qualcosa che mi spaventò.
“Quanto tempo è che non penso che una giornata sia iniziata bene? Perché non ricordo quella sensazione?”
PORTA ROMANA, FERMATA PORTA ROMANA
Quando la voce annunciò la mia fermata, ero già sceso, immerso tra la folla che procedeva tutta nella mia stessa direzione, senza che nessuno si dirigesse al mio stesso luogo. Non conoscevo nessuno, mi sentii solo. Cercavo di ricordare l’ultima bella giornata, iniziata e finita bene, con il sorriso sulle labbra. Alzai lo sguardo che seguiva la crepa sul marciapiede e non trovai il semaforo, né il bar all’angolo dove ogni mattina non riuscivo a fermarmi a bere un caffè perché troppo in ritardo. Avevo sbagliato strada.
“Cazzo, ora arrivo tardi davvero, altro che caffè”
Mi precipitai dall’altro lato della strada e cambiai direzione, bar e semaforo erano ancora li.
“Per ricordare una giornata iniziata bene mi sto rovinando questa”, pensai.
Dall’altro lato della strada una madre inveiva contro un’automobile. Un taxi per non perdere il semaforo era passato veloce, troppo, di fianco a loro. Le due ruote dentro una pozzanghera avevano bagnato lei e il bambino che teneva per mano, forse il figlio. Il bambino rideva.
La mamma non si sta divertendo, cerca di parlargli in modo gentile, ma non riesce, si vede che è arrabbiata ma non con lui, capo sale?
L’autista mi fissava, io impalato davanti alla fermata.
“No grazie, aspetto il prossimo”, mentii.
Era la seconda volta nell’arco di duecento metri che mi perdevo, mi sentivo strano. Tutta quella distrazione non poteva essere solo per colpa di quello che ormai era un tarlo, fisso nel cervello. Lo sentivo dietro l’occhio, rosicchiare e ruminare, senza aiutarmi a ricordare.
“Ma che cazzo di giorno era???”
Il palazzo di vetro era lì, con la porta automatica che dava il benvenuto ai lavoratori, aprendosi mentre si avvicinavano.
Luisa e Andrea erano appena entrati e la porta che si chiudeva dietro di loro la vidi come una ghigliottina, che tagliava l’ultimo filo che li collegava alla loro libertà, per un altro giorno ancora.
Mi avviai verso la mia condanna giornaliera, con un passo decisamente più svelto di quello che ci si aspetterebbe da chi si dirige al proprio patibolo, ma era meglio non peggiorare la situazione.
In ascensore la musica era cambiata, l’altoparlante no.
Si aprì la porta, e con mia somma sorpresa trovai me stesso alla scrivania, già seduto a lavorare e… si, magari! Così me ne andavo a casa e saluti a tutti.
“Ma che giornata era?” pensavo mentre accendevo il pc.
Suona il telefono, sono le 6:00 del mattino, la voce dall’altra parte del ricevitore dice in inglese che il mio volo è cancellato, il prossimo è domani mattina. Sono a Londra. Nel letto con me c’è Karen, abbiamo passato la notte insieme. Lei si veste, deve andare in ufficio. Ci salutiamo, sappiamo entrambi che non ci rivedremo, ma siamo stati bene insieme, c’est la vie. Ho la giornata libera, non sono mai stato a Londra. Il tempo è bello, colazione e Tate Modern, non credevo sarei riuscito a vederla. Mi alzo dal letto, faccio un bel respiro e sono contento. Che bella giornata!
La musica di avvio di Windows mi riportò al mio presente, e alla soddisfazione di essere arrivato a capo dell’enigma che mi ero auto imposto quella mattina.
“La trasferta a Londra!”
L’adrenalina della scoperta lasciò però subito spazio allo sconforto, mentre attendevo che si avviasse il solito gestionale.
Da quel giorno erano passati dodici anni.
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