Era bello tornare a casa dopo…
Era bello tornare a casa dopo l’inferno. Anzi, bello era un eufemismo, una parola di cui non ricordavo più il significato.
Ero certo che tornare a casa sarebbe stato magnifico. Ero sopravvissuto solo per questo.
Il giorno prima di lasciare il Vietnam ero preda di una frenesia inconsueta: avevo imparato a lasciare i sentimenti lontano. Il cuore era un eden che frequentavo solo nei momenti di disperazione, tanto ero preoccupato di deturpare quell’unico ricordo di bellezza che ancora resisteva dentro me.
Perchè il destino mi aveva scelto per questo ruolo infame? Mi domandavo se fosse un contrappasso per espiare un peccato commesso e dimenticato.
Non esisteva regola logica che permettesse di accettare l’essere strappati al proprio mondo, alla propria storia così, da un giorno all’altro. Se avessi studiato… invece desideravo avere una famiglia quanto prima, così avevo trovato un lavoro ben retribuito… che mi costò la leva.
Appena seppi che la mia nazione aveva deciso di restituirmi il mio destino… in quel momento venni travolto dalla paura di morire, mancava così poco. Ogni secondo era un lustro, ogni ora un secolo. Ogni respiro un’incognita.
Mentre i miei piedi salivano sull’aereo ero così stanco e confuso.
L’Asia scompariva sotto le nuvole quando si risvegliò il panico: sarei tornato e tutti avrebbero saputo che ero un mostro.
Mia madre, il mio migliore amico Val, mio nonno che amavo tanto… mi avrebbero guardato in viso e avrebbero trovato uno sconosciuto. Forse no, sarebbe bastata l’aria americana e un ottimo hamburger per risvegliare un passato che, tra il sangue e le grida, era fuggito lontano… anche dal ricordo. Com’era vivere liberi? Si poteva esistere senza aver mai sentito il rantolo di un moribondo appena ventenne?
Quell’aereo custodiva ancora la mia trasformazione. Pregai perchè crollasse nell’oceano. Pensai alle persone che amavo e giunsi alla conclusione che avrebbero avuto un migliore ricordo di me se non mi avessero mai più rivisto. Se mi avessero pianto per quello che ero.
Ma stavo tornando.
Come avevo potuto essere così ingenuo a pensare che mi avrebbero amato ancora? Loro, che erano puri. Avrebbero visto i miei demoni: uno ad uno. Uno per ogni compagno morto. Tutti mi tormentavano chiedendo perchè li avessi lasciati morire. Tutti mi maledicevano perchè non ero morto al posto loro. Io lo sapevo che ero un cagasotto, che la mia vita era stata risparmiata al prezzo del loro sangue.
Pensai che non ne era valsa la pena. Poi tentai di convincermi che avrei saputo far tesoro della vita, anche per loro.
Crollai addormentato tra sibili sinistri e ombre di deflagrazioni.
Troppo tardi per fuggire. Mi svegliai al termine del volo: nei brillanti occhi di Val mi attendeva quel futuro… che pareva un pezzo di puzzle inconciliabile con i miei bordi spigolosi.
Lo guardavo e lo amavo. Lo guardavo e lo invidiavo. Lo guardavo e lo odiavo. Tutto in un malsano moto circolare.
Ci guardammo a lungo, non una parola. Non un abbraccio. Non volevo contaminarlo, non volevo avvicinarmi, non volevo che sapesse che ero una persona rotta. Biascicai un “grazie” e mi caricò in auto verso casa.
Fu un viaggio silenzioso. Lo ammirai molto per questo. Effettivamente c’erano troppe cose da dire per poter parlare. Il silenzio il messaggio più eloquente.
La città scorreva dietro ai vetri e non potevo che detestare quell’ostentata leggerezza che aleggiava. Ci avevano venduti come carne da macello per assicurarsi il loro benessere. Noi portavamo un giogo che mai ci avrebbe lasciato, e loro neanche sentivano la nostra assenza.
Ricordavo le parole del professore di teatro a scuola: “Nessuno è indispensabile.” Lo avevo imparato molto bene.
Salutai Val e mi sforzai di dargli una leggera pacca sulla spalla: volevo mostrargli la mia gratitudine. Lui mi abbracciò. Lo strinsi forte, col cuore in gola. Mi sembrava di scoppiare.
Frettolosamente rincasai, salutai i miei genitori e chiesi di potermi riposare.
La mia stanza era come un tempo. Mi distesi vestito su quel letto appartenuto a colui che un tempo ero stato io. Quella persona non c’era più.
Tanto vale morire del tutto piuttosto che a metà.
Pensavo sarebbe stato bello tornare a casa.
Valutazioni Giuria
1 – Sehnsucht – Valutazione: 25 Giud.1: Nel racconto i sentimenti del protagonista sono descritti bene con un linguaggio scorrevole. Giud.2: racconto scorrevole e chiaro. belle le descrizioni, le emozioni che trasmette al lettore e l’immagine dell’aereo. una domanda: il protagonista torna dalla guerra? Giud.3: Fluido, scorrevole e accorato. Ben centrato sul suggerimento dell’incipit. Difficile aggiungere qualcosa di nuovo ad un tema già infinitamente discusso. Giud.4: “Anzi, bello era un eufemismo, una parola di cui non ricordavo più il significato”: il concetto stride. “frenesia inconsueta: avevo imparato a lasciare i sentimenti lontano”: scritta in questo modo il soggetto è la frenesia, mentre era evidente l’intenzione che desse l’inconsuetudine. Anche nel periodo successivo ci sono delle incongruenze, che proseguono durante il resto della narrazione. Una punteggiatura non sempre precisa, ma soprattutto dei passaggi inverosimili: desidera tornare a casa, poi vorrebbe l’aereo precipitasse, non parla nè col primo amico che incontra, nè coi genitori… è tornato dal Vietnam! La storia di per sè, mi sembra già rivista nelle scorse puntate… |
Era bello tornare a casa dopo aver compiuto il proprio dovere verso la società civile, anche se il mio dovere è uccidere le persone.
Proprio così! Sono autorizzato, pagato, per uccidere le persone: sono un mietitore.
In un mondo che ha definitivamente (o quasi) sconfitto la morte, non si può fare a meno della stessa.
Non si muore più per incidenti o altri eventi avversi; riusciamo a riportare in vita un corpo anche 12 ore dopo la sua morte.
Non si muore più per malattie; le abbiamo sconfitte tutte.
Non si muore più per vecchiaia; possiamo far ringiovanire il nostro corpo come e quando vogliamo.
Però in un mondo dove non si muore è il mondo stesso che rischia di morire.
Il pianeta permette la sopravvivenza solo ad un determinato numero di persone, altrimenti mancano le risorse.
Se nessuno muore si corre il rischio che non si procrei più e questo non va bene, il ricambio generazionale è necessario; persone nuove vuol dire idee nuove, perché il mondo deve progredire.
Per risolvere il problema è stato creato il corpo dei mietitori: non è semplice entrarne a far parte e non è semplice portare avanti il lavoro.
Non è che si può semplicemente camminare per strada e mietere persone come se fossero spighe di grano.
Ci sono regole da seguire, comportamenti da tenere.
Non si possono mietere persone che si conoscono. Che siano parenti, amici o anche persone antipatiche.
Ma non si può neppure mietere a caso, bisogna fare delle scelte.
Per esempio non si può mietere una persona che non ha ancora subito il suo secondo processo di ringiovanimento, a centosessant’anni.
Si deve procedere alla mietitura infliggendo la minore sofferenza possibile e nel modo più veloce, se la persona da mietere ha una predilezione sul modo in cui morire, nei limiti del possibile, bisogna andarle incontro ed esaudire il suo desiderio.
Una volta mietuto il corpo deve essere consegnato ai luoghi di cremazione.
Un corpo incenerito non ha alcuna possibilità di essere riportato in vita.
Ci sono sempre delle eccezioni. Nonostante tutto c’è ancora la criminalità, quindi se si deve mietere per garantire la giustizia e la sicurezza dei cittadini le regole sono meno restrittive.
Non si può eseguire un numero di mietiture basato sulla scelta personale; un mietitore non è un assassino seriale, ma non può neppure essere un “pappamolle”.
Ogni mietitore deve eseguire un numero minimo di interventi, senza superare il numero massimo consentito.
Il lavoro del mietitore è strettamente controllato ed ogni mancanza od inosservanza del regolamento è severamente punito, dall’esclusione dal corpo fino alla mietitura dello stesso mietitore.
Allora il mietitore deve essere sostituito; non possiamo essere in pochi, il nostro è un lavoro impegnativo e spesso si devono fare gli straordinari.
E’ un lavoro faticoso e stressante, ma è bello sapere di essere utili al mondo intero.
Anche se a ben pensarci è incredibile come per permettere la vita eterna all’uomo ci deve essere qualcuno che ne garantisca la morte.
Valutazioni Giuria
2 – Il mietitore – Valutazione: 27 Giud.1: Racconto con trama fuori dalla normalità. Linguaggio chiaro. Giud.2: tema inusuale. bello l’intro. mi è piaciuta la metafora del mietitore. linguaggio chiaro e semplice. bella la scelta della narrazione in 1 persona sing. Giud.3: Il problema di come fronteggiare la sovrappopolazione (Malthus o Thanos?!) affrontato in modo personale e non privo di spunti fantasiosi. Qualche imprecisione evitabile. Giud.4: Nel primo periodo un errore di consecutio. “Non si possono mietere persone che si conoscono. Che siano parenti, amici o anche persone antipatiche. Ma non si può neppure mietere a caso” Le espressioni sono spesso un po’ misere o addirittura sbagliate, relativamente al concetto che si desiderava esprimere; la punteggiatura imprecisa. Tutto sommato non ci sono gravi errori ed apprezzo la fantasia. |
Era bello tornare a casa dopo il turno di notte. A Gilberto piaceva l’atmosfera della mattina, gli dava una sensazione di calma, percepiva il mondo ancora in ordine e lontano dalla caotica frenesia che l’avrebbe guastato tra qualche ora. Ma anche di più gli piaceva preparare il caffè e portarlo a letto a sua moglie per svegliarla, sapendo che non l’avrebbe disturbata, anzi. Si sarebbero baciati con passione e, al diavolo la stanchezza, avrebbero fatto l’amore.
Entrò in camera col vassoio ma il letto era vuoto.
Sorpreso cercò un biglietto da qualche parte in cui Ada spiegava perché fosse uscita così presto, ma in tutta la casa non c’era ombra di messaggi.
Sorseggiò il caffè vagliando le mille ipotesi che gli si affacciarono alla mente, ma nessuna gli sembrò plausibile. Con la tazzina in mano andò al telefono e chiamò i suoceri, fregandosene se li avrebbe trovati a dormire, cominciava a preoccuparsi sul serio. Spiegò la situazione a un Giuseppe assonnato che non sapeva niente di sua figlia, ma forse Nina sì. Aspettò in linea che suo suocero chiedesse alla moglie e il risultato fu lo stesso, buio totale. Attaccò, dopo aver assicurato di aggiornarli quando avrebbe avuto notizie.
Rimase con la cornetta di bachelite in mano, indeciso: chi altro poteva chiamare? Conosceva qualche amica di Ada, ma non aveva di certo il loro numero.
Ebbe l’idea di andare a suonare alla dirimpettaia, la signora Lucia, meglio conosciuta nel palazzo come LaCia, data la sua propensione a non restare fuori dagli affari degli altri. Se era successo qualcosa, qualsiasi cosa, lei ne era a conoscenza di sicuro.
Ebbe come l’impressione che LaCia l’aspettasse dietro la porta, magari con l’occhio appoggiato allo spioncino. Non fece in tempo a staccare il dito dal campanello che la padrona di casa gli aprì, con in braccio Artù, il suo pestifero chihuahua. Non sapeva niente di Ada, ma dato che c’era gli volle raccontare un fatto strano accaduto nella notte.
Alle due e ventisette era stata svegliata da Artù che abbaiava furioso e raspava contro la porta, come se sul pianerottolo ci fossero un branco di gatti. Aveva cercato di calmarlo, mentre dal piano di sotto la signora Occhiuto, quella pettegola insonne, batteva sul soffitto infastidita dalla confusione, poverina. Ma il cane niente, latrava con la bava alla bocca, impazzito, finché dallo spiraglio sotto la porta non era entrata una luce accecante. Nessun rumore, solo un lampo, il flash di un secondo, ma tanto era bastato per zittire Artù, che si era ritirato con un guaito di terrore. Anche a lei era venuta una strizza tremenda, per essere sincera. Dopo solo silenzio e calma, ma comunque il sonno era andato a farsi benedire, era sveglia da allora. Non che mettesse in relazione quella stranezza con la scomparsa di Ada, ma a qualcuno doveva dirlo. Lui che ne pensava?
Gilberto rispose che non ne aveva idea, la ringraziò per la confidenza che era servita solo a fargli perdere tempo e tornò in casa, promettendo anche a lei aggiornamenti riguardo sua moglie. Appena entrato si bloccò nel vedere quella che era la normalità ma che quella mattina lo aggredì come una nota dissonante: sull’attaccapanni all’ingresso c’erano il soprabito che Ada usava in quel periodo e la sua borsetta. Non sarebbe mai uscita senza. Non di sua spontanea volontà. Questa considerazione lo riempì di panico. Si affrettò al telefono e chiamò la Polizia.
~~~
La moglie di Gilberto risultò essere una delle tredici persone sparite in città durante quella notte senza lasciare alcuna traccia. Di qualcuna si è riusciti a determinare l’ora della scomparsa, tra le due e le tre.
A oggi non si hanno notizie di nessuna di loro.
FINE
Valutazioni Giuria
3 – DOV’È ADA? – Valutazione: 21 Giud.1: Storia ben narrata con una trama di cronaca che purtroppo ogni tanto viene annunciata. Giud.2: bella la descrizione di Lucia e le emozioni che lascia al lettore. non scontato il finale. linguaggio molto chiaro e di facile elttura Giud.3: Tempi e modi verbali da ripassare. Si usa la contrazione del pronome ( “l’aspettasse”) al femminile. Avrebbe potuto riscattarsi con una sorpresa finale. Giud.4: Nel contesto di un concorso letterario, errori formali troppo gravi per una successiva analisi dei contenuti |
Era bello tornare a casa dopo quello che le era accaduto e, del resto, l’avevano appena cacciata dall’ufficio.
“Mi scusi signor Neri, ma questo è un compito dell’ufficio acquisti”.
“Non capisco perché anche Lei, Diana, si rifiuti di farlo!”. Ci fu un lungo silenzio rotto solo dallo starnazzare di una collega.
“Ma dove scappi così di corsa, Giorgio? Aspettami, vengo con te!” aveva detto Vera inseguendo il ragazzo verso la macchinetta del caffè. Iniziavano i primi freddi, ma Vera continuava a indossare vestiti succinti con lo scopo di sedurre sia Giorgio che Luca. Il signor Neri non poté fare a meno di sbirciare la scollatura di Vera. La cosa non sfuggì né a Diana né a Vera stessa. La prima sbuffò, la seconda invece fece delle movenze tali da agevolare ogni visione.
“Le dicevo Signor Neri che dovrebbe chiedere a Ivana degli acquisti.”
“Capisco Diana, ma non si preoccupi. Le lascio tempo fino alle quattro di oggi pomeriggio”.
Diana alzò gli occhi al cielo. Ora lo so, non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi, pensò osservando il Signor Neri arrancare per raggiungere Vera. Tutta colpa della pastiera. Se Ivana non l’avesse portata alla sala caffé, Giorgio non si sarebbe alzato per fare una pausa, Vera non lo avrebbe seguito, il signor Neri non si sarebbe distratto, lei avrebbe spiegato le sue ragioni e non si sarebbe trovata a dover svolgere un compito non suo.
Per finire il lavoro in tempo, Diana aveva rinunciato al pranzo e Ivana, stranamente premurosa, le aveva lasciato una fetta di pastiera sulla scrivania.
“Se non vieni in mensa, almeno mangia un po’ di questa!”.
Diana la ringraziò incredula, ne assaggiò un pezzetto e ricominciò subito a copiare dei dati su un foglio excel ma, dopo qualche sbadiglio, finì per addormentarsi.
“Oh mio Dio, sono le tre e mezza! Cosa mi è successo? E tu come mai sei nel mio ufficio?”
“Un paio d’ore fa ti ho visto addormentata alla scrivania e ora sono venuta a vedere ti fossi svegliata.”
“Non è possibile!”
“Come no? Ti ho anche sentito russare”
“Ivana, perché non mi hai svegliato subito?”
“Sembravi sfinita e ho preferito lasciarti dormire!”
“Ma come?”
“L’ho fatto per te. Ho forse sbagliato?” chiese Ivana con un ghigno.
“Potrei essere licenziata per questo. Il contratto parla chiaro!”
“Quante storie che fai Bella Addormentata! Non ti ha visto nessuno!”.
Diana cercò di stare calma. Sarebbe stato pericoloso discutere con Ivana e, come prima cosa, doveva avvertire Neri del fatto che avrebbe finito tardi il lavoro.
Tutto inutile. Il responsabile delle risorse umane era già davanti a lei.
Un paio di mesi dopo, il Giudice, che aveva il compito di valutare se il licenziamento di Diana fosse giustificato, interrogò diversi testimoni.
“Ricordo bene, quella giornata era cominciata nel migliore dei modi – disse Vera – avevo bevuto il caffè con Giorgio e sia il signor Neri che Luca mi avevano guardato con interesse”.
“La prego venga al dunque e mi dica solo ciò che riguarda la signora Diana Cempi”.
“Quel giorno il signor Neri aveva chiesto a Ivana di svolgere un lavoro ma lei rifiutò. Disse di essere oberata e che sarebbe stato meglio chiedere aiuto a Diana”.
“E lei come sa di questa conversazione?”
“Ero andata nel suo ufficio per parlare con Luca. Volevo che vedesse il mio nuovo ciondolo. Sa com’è Signor Giudice? Mi cadeva proprio qui!” disse indicandosi il seno.
Il Giudice non fece una piega.
“Ricorda altri particolari rilevanti?”
“Solo che Ivana aveva portato una fetta di pastiera a Diana”.
“E Lei ritiene che questo sia degno di nota?”.
“Assolutamente”
“Sia più precisa. Mi spieghi perché questo fatto dovrebbe essere rilevante!” si spazientì il Giudice.
“Ah sì, certo. Lei non può saperlo”. Vera accompagnò le sua parole con una risatina sciocca e continuò il racconto: “Ivana e Diana non sono mai andate d’accordo. Del resto non potevano essere più diverse di così. Era strano che una delle due portasse una fetta di torta all’altra. Ivana aveva persino detto che quella era una fetta così speciale che avrebbe fatto sognare Diana”.
Osservando il Giudice volgere lo sguardo verso Ivana, Vera prese contatto con la realtà: “Oh mio Dio! Non ci avevo pensato. E se fosse tutto un gigantesco imbroglio?”
Valutazioni Giuria
4 – Dieci incipit e una fetta – Valutazione: 23 Giud.1: Avvincente, divertente e originale. Giud.2: non mi sono piaciute le diverse calligrafie e il salto temporale. trama originale. Giud.3: Non facile inserire tutti gli incipit in un racconto coerente: l’idea è da premiare. Ne risulta però un brano un po’ caotico, i protagonisti sono soltanto nomi e non personaggi quindi si fatica a orientarsi. Giud.4: L’idea è originale, anche se a volte gli incipit sono un po’ forzati. Consiglierei di optare per uno stile più definito: una storia verosimile o grottesca? |
Era bello tornare a casa dopo una notte trascorsa in gattabuia.
E dire che era stata arrestata solo per aver partecipato ad una manifestazione pacifica contro la guerra, un presidio a cui erano presenti centinaia di persone, ma la polizia aveva preso solo lei e i ragazzi del suo gruppetto. Era stato un gesto simbolico, e ovviamente avevano preso di mira quelli dall’aspetto più tranquillo, certi che non avrebbero piantato grane.
Jude ci aveva provato a protestare, ma lei lo aveva calmato prima che potesse dare dei fascisti ai poliziotti e scavare la fossa a tutti loro.
In prigione lei si trovava nella cella accanto a quella dei ragazzi e potevano parlare, ma non vedersi. Non c’era nessun altro rinchiuso in quell’oziosa stazione di polizia, in quella cittadina dimenticata da Dio.
“Sunshine? Stai bene?”
La voce stanca di Jude riecheggiava nel corridoio deserto. “Sì. Credi che ci faranno uscire domattina?”
“Se non vogliono grane sarà meglio per loro. Gli ho già fatto presente che mio padre è avvocato e lavora per alcune delle ditte più importanti del Paese.”
Lei alzò gli occhi al cielo. Quando gli faceva comodo Jude tirava sempre in ballo suo padre, o si appoggiava a lui economicamente. Per il resto del tempo sosteneva di essere completamente diverso da lui e dalla madre e di non voler diventare come i genitori.
“Sunshine?” La voce di Sage. “Stai dormendo?”
“Ci sto provando. Fatelo anche voi, è tardi.”
Nessuno ribattè. Ma nessuno dormì veramente. Quando finalmente un poliziotto dall’aria annoiata venne a tirarli fuori e li fece uscire dalla stazione senza tanti complimenti, sostenendo che qualcuno aveva pagato la cauzione per loro, lei non riuscì ad immaginare chi potesse essere.
E poi lo vide, seduto sul muretto. Aveva l’aria assonnata e stava fumando, forse per darsi una svegliata, forse per ammazzare il tempo.
“Lo conosci?” fece Jude, notando l’espressione cambiare sul suo volto.
Lei lo ignorò e raggiunse il ragazzo insonnolito, dalle profonde borse scure sotto agli occhi verdi. “Josh… non avresti dovuto.”
Lui alzò le spalle, come a dire che non era niente. “Lo sapevo che saresti finita nei guai con quelli.” Fece un cenno in direzione di Jude, Sage e Lennon.
“Non è stata colpa di nessuno. La polizia ha fermato noi ma è stata solo sfortuna…” spiegò, sperando che le credesse. Non sapeva perchè, ma era davvero importante per lei che lui non la ritenesse una stupida, ingenua ragazzina che si faceva coinvolgere e trascinare dal gruppo.
“Va bene.” Josh si alzò in piedi e spense la sigaretta. “Vuoi un passaggio a casa? O torni con loro?”
“Sunshine!” Jude la chiamò, con tono impaziente. Lei avrebbe tanto voluto che stesse zitto e si voltò per fargli cenno di aspettare, prima di girarsi nuovamente verso Josh. “Posso venire in auto con te?”
Il suo volto così serio si aprì in un sorriso che lo faceva sembrare più piccolo, quasi un bambino. “Certo. Posso chiamarti Sunshine anche io?”
Lo sapeva che l’avrebbe presa in giro per quel soprannome. Lo faceva sempre. “Oh, smettila. Aspettami qui.”
Andò a parlare con Jude e gli altri e promise di vederli presto. Spiegò che doveva andare con Josh, e per quanto loro non sembrassero entusiasti non provarono a fermarla.
Josh guidava senza dire nulla e anche lei taceva. E rifletteva.
Gli lanciava occhiate di tanto in tanto, ammirando il suo profilo serio e concentrato. Sembrava sempre lontano anni luce dal resto del mondo, ma quando la guardava negli occhi era come se si perdesse nella sua anima e ne vedesse la bellezza che lei invece non era in grado di scorgere.
“Josh, accosta.”
Lui obbedì e si voltò a guardarla, in attesa.
Lei annullò la distanza tra loro in un secondo. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò, e lui ricambiò con così tanta foga che lei si chiese da quanto tempo stesse aspettando quel momento e perchè non si fosse mai fatto avanti prima. Le sue mani calde e grandi erano così piacevoli sul suo viso, e voleva stare così per sempre.
Era bello tornare a casa. Soprattutto quando casa sua era lui.
Valutazioni Giuria
5 – La calma dopo la tempesta – Valutazione: 24 Giud.1: Storia a lieto fine. Trama scorrevole ma poco avvincente. Giud.2: bello l’incipit e la scelta del argomento. mi è piaciuto il finale e le descrizioni. molto leggibile Giud.3: Virgole usate un po’ a caso. Alcuni periodi non scorrono. La notte in cella non é vissuta come la tempesta suggerita dal titolo. Trama insipida, senza spunti, facile da dimenticare. Giud.4: La ripetizione dei pronomi a volte rende pesante i periodi, ma nel complesso il racconto si lascia leggere. Una fotografia leggera, senza troppe emozioni, senza molta originalità. |
***
Era bello tornare a casa, dopo,
trovarti lì, fra le braccia di un sogno,
sentir la vita cullar uno scopo,
sfiorarti il volto senz’altro bisogno.
Era bello uscir di casa, più tardi,
vederti piano muovere nel letto,
affilar nel lucor del giorno i dardi
di questo amor per noi Terreno e Tetto.
Ma tutto ciò che è bello il mondo offusca:
d’improvviso il “dopo” divenne “mai”,
ogni parola non detta gelò;
ad un incrocio, fu la mano brusca
d’un Dio geloso a volermi… non sai
quanto piansi il cuor che non ti svegliò.
Ok, pensò il Poeta posando la penna, ci siamo. I versi sono tutti endecasillabi e lo schema delle rime, anche se non tradizionale, funziona.
Un altro sonetto è fatto.
Era passato qualche giorno da quando il suo editore gli aveva commissionato un lavoro speciale: una sorta di Antologia di Spoon River in chiave moderna, con personaggi, ambientazione, e spirito odierni, ma con una forma che si rifacesse al classico.
Strana scelta. Il Poeta, dopo averci pensato un po’ su, aveva optato per una raccolta di Sonetti, componimenti costituiti da due quartine e due terzine di versi rimati, forma classica della letteratura con la quale si erano cimentati anche autori contemporanei: garantiva una fluidità, un’immediatezza di lettura e, soprattutto, di sintesi che faceva al caso suo e a un pubblico di lettori non troppo attenti e pazienti, ma comunque interessati alla poesia o in cerca di belle frasi da ricordare e riutilizzare.
Aveva già scritto una decina di sonetti, raccontando le vicende e gli addii più commoventi che potesse immaginare, senza, però, dimenticare anche le separazioni dolci e appagate di alcuni personaggi, come a voler toccare ogni aspetto emotivo, vero e variegato del mondo.
Un lavoro duro e lungo che, però, gli stava dando una grande soddisfazione.
Si stirò le articolazioni un po’ intorpidite nascondendo dietro la mano uno sbadiglio. L’orologio della sala segnava le 3:57.
Era notte fonda.
I poeti lavorano di notte, diceva Alda Merini, pensò.
Giusto, ma dormono, anche, altrimenti non possono ricaricarsi di sogni.
Spostò la sedia in silenzio, chiuse la penna con il cappuccio – lo scrivere a mano poteva sembrare un vezzo in un’era completamente digitalizzata, ma per la Poesia era un gesto necessario, dal sapore antico e autentico – si alzò e si diresse verso la camera da letto.
Nel buio, Laura, la sua compagna, dormiva profondamente.
Stette a guardarla, reclinando un po’ la testa, intenerito, domandandosi perché gli esseri umani addormentati, specialmente le donne, dessero, nel guardarli, un’avvolgente sensazione di benessere e completezza. Questo pensiero gli portò alla mente, per contrasto, anche l’immagine comica di Laura con la bocca semiaperta e che russava debolmente, come l’aveva vista qualche volta. Si trattenne dal ridere. Forse la realtà era un po’ spoetizzante, a volte, ma ricordava che anche in quel momento l’aveva amata come non mai.
Era questa la Poesia.
Si coricò.
Prima di assopirsi del tutto, d’improvviso sentì un brivido gelido lungo la schiena: il dormiveglia gli aveva fatto percepire quanto la sua situazione presente e i suoi pensieri fossero simili a quelli del protagonista del suo ultimo sonetto e si spaventò.
Aveva sempre pensato di essere solo un tramite per qualcosa d’invisibile quando scriveva, sentiva ancestralmente la potenza e l’importanza di quel gesto, come se creare altre realtà portasse anche un doveroso senso di responsabilità. Questa ne era l’ennesima conferma, ma la paura che provava ora era ingiustificata, anche perché l’indomani sarebbe rimasto a casa. Non ci sarebbero stati incroci per lui.
La troppa sensibilità dovrebbe essere considerata come un’invalidità, a volte.
Fu il suo ultimo, confuso pensiero.
Poi, agitato, alle soglie di un incubo, scivolò nel sonno.
***
L’indomani, in un altro luogo, un altro uomo si svegliò accanto alla sua compagna. La osservò con amore e non volle svegliarla.
Di tutti i sogni strani della notte ricordava, turbato, solo una frase:
Era bello tornare a casa, dopo…
In auto, mentre si recava al lavoro, ci pensava ancora.
Sì, sarà bello tornare a casa dopo il lavoro, si diceva, cercando di scacciare l’inquietudine. Lei sarà lì. Significa solo questo…
All’incrocio, il destino, scritto da un altro uomo innocente e sconosciuto, lo attendeva implacabile, assurdo, inspiegabile.
Valutazioni Giuria
6 – ATLAS – Valutazione: 27 Giud.1: Originale e piacevole la stesura del racconto in versi e in prosa. Nel finale il destino preannunciato è d’effetto. Giud.2: ottima scelta per la forma del racconto. mi ha molto colpito. belle le immagini che lascia al lettore. non ho molto compreso il finale Giud.3: Non ho capito l’ultima riga del sonetto. Terzo periodo non funziona. “finestra su qualche altro infinito”, “spoetizzante”, “ancestralmente” suonano male. Mi è piaciuto il concetto di “responsabilità del poeta” Giud.4: la grossa pecca è nel sonetto che… non è un sonetto e non riesco proprio a capire perchè si è scelto di far dire al poeta che i versi siano endecasillabi, quando evidentemente, non lo sono. Apprezzata l’originalità ed alcune immagini che presuppongono uno sforzo di sensibilità. |
Era bello tornare a casa dopo un viaggio così lungo.
Avevo chiuso gli occhi tentando di rilassarmi, ripensando all’ultimo anno della mia vita, mentre l’aereo prendeva velocità e si staccava dalla pista.
Erano passati dodici mesi da quando ero partita. Dodici mesi passati vagando per il sud America, cercando di comprendere come fosse stato possibile che il mio matrimonio fosse affondato così all’improvviso senza che io mi fossi accorta di nulla.
Era bello tornare a casa comunque, anche se sapevo che l’avrei trovata vuota. Anche se sapevo che il mio ormai ex marito si era portato via tutto, tranne il nostro letto.
Lo sapevo perché amici e parenti mi avevano bombardato di messaggi durante il mio primo mese di viaggio. Poi basta. Poi avevo deciso di chiudere ogni comunicazione con la mia vecchia vita e lasciare, solo a mia sorella, un nuovo numero di telefono per eventuali emergenze.
Sapevo che molti dei miei amici si sarebbero offesi, ma non mi importava. Andarmene era stata una scelta fatta proprio per allontanarmi il più possibile dal dolore di quella separazione.
Era bello tornare a casa, anche se sapevo che mia madre mi avrebbe abbracciato ripetendomi “per fortuna non avevate figli.” Come se il mio dolore non avesse nessun valore. Non c’erano figli e quindi non c’erano vittime. Io invece mi sentivo una vittima. Io ero la vittima. Ero stata abbandonata dopo quasi dieci anni senza una spiegazione, tranne la più ovvia del mondo. Era più giovane di me.
Era bello tornare a casa, anche se non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarmi all’aeroporto. Era stata una mia scelta. Non avevo avvisato nessuno del mio ritorno. Volevo entrare nella mia casa vuota da sola. Volevo sedermi sul mio letto. Volevo capire se davvero ero riuscita a buttarmi tutto alle spalle. Volevo capire se la decisione di mollare lavoro, famiglia e usare i miei risparmi per fare il viaggio della mia vita era stata la scelta giusta. Non avevo lottato era stato il rimprovero che tutti mi avevano mosso.
“Dovevi togliergli tutto” aveva urlato mia sorella. “Devi sputtanare lui e quella zoccola con cui si è messo.”
Io non avevo avuto le forze per infuriarmi né con lui né tantomeno con la sua amante e forse non ne avevo nemmeno voglia. Partire e chiudermi quella porta alle spalle mi era sembrata la scelta migliore. Almeno migliore per me.
Ora stavo tornando, dopo un anno passato tra Colombia, Perù, Bolivia, Cile e Argentina. Ero cambiata in modo radicale in quei dodici mesi. Il mio corpo era cambiato. Ero più magra, più tonica. Avevo fatto ogni tipo di lavoro che mi avevano proposto. Avevo fatto la cameriera e la raccoglitrice di frutta. In Perù avevo perfino fatto la cuoca. Io, che ero sempre stata pessima tra i fornelli, avevo imparato a cucinare il filetto di alpaca. A trentotto anni avevo vissuto esperienze che mai avrei immaginato.
Anche il mio modo di vedere la vita era cambiato. Avevo conosciuto migliaia di persone che vivevano vite meravigliose e terribili allo stesso tempo, combattendo quotidianamente con difficoltà che io non credevo nemmeno esistessero. Di fronte alle loro lacrime e ai loro sorrisi tutti i miei problemi mi sembravano ridicoli.
Era bello tornare a casa e poter raccontare tutto questo alla mia famiglia. Dirgli che forse mio marito mi aveva fatto un favore, che la mia vita finalmente aveva acquistato un senso.
Il senso di sconfitta che mi aveva accompagnata durante il mio viaggio d’andata se n’era andato lentamente e alla fine aveva lasciato spazio a una nuova consapevolezza. Avevo preso in mano la mia vita e non l’avrei più mollata.
Le ruote dell’aereo toccarono terra. Ero tornata a casa. Presto avrei rivisto la mia famiglia. Mia madre mi avrebbe abbracciata e questa volta le avrei detto “mamma c’è un bambino. Il padre si chiama Juan, fa il barman in un locale della Playa de Toro. È più giovane di me mamma. So quello che pensi, ma non m’importa. Sono felice, molto felice. Chiudo le ultime cose in sospeso e mi trasferisco da lui.”
Sapevo che mia sorella mi avrebbe appoggiata. Era sempre stata dalla mia parte senza pregiudizi. Di tutti gli altri non m’importava nulla.
Era bello tornare a casa, ma sarebbe stato ancora più bello tornare in Argentina e cercare una nuova casa con Juan e il nostro bambino.
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7 – IL VIAGGIO – Valutazione: 25 Giud.1: La narrazione è scorrevole. “Il bello di tornare a casa”ripetuto più volte, con il desiderio di riabbracciare o forse no i familiari è un pò ditorto. Giud.2: bello l’argomento del racconto. interessanti le descrizioni e le emozioni. molto bello il cambiamento del protagonista durante il racconto. non scontato il finale. linguaggio chiaro e semplice Giud.3: Punti esclamativi mancanti, virgole fuori posto e qualche altro errore. Pare presto a soli 38 anni pensare della rivale: “Era più giovane di me” Se dopo una anno di viaggio ha già avuto un figlio, evidentemente le sono bastati 3 mesi per scrollarsi il dolore. Non va. Giud.4: Riconosco la penna e mi dispiace dovermi ripetere sui limiti e gli errori (tra cui ancora i congiuntivi). Proverò ad andare oltre: le narrazioni risultano petulanti, se composte da un’unica digressione sulle lamentele del protagonista-vittima delle circostanze della vita. Ciò che attirerebbe il lettore, sarebbe stato nella fattispecie, il racconto di Juan e degli episodi lasciati vaghi: “. A trentotto anni avevo vissuto esperienze che mai avrei immaginato”, “combattendo quotidianamente con difficoltà che io non credevo nemmeno esistessero”, “loro lacrime e ai loro sorrisi”. |
Era bello tornare a casa dopo il lavoro, rivederla, ancora sentire la sua voce.
Poi, placidamente, la bellezza si impolvero’; fino a che, al nostro trentesimo di nozze, la domanda di un’amica mi bussò all’anima:
“Va tutto bene, tra voi due? vi vedo un po’ stanchi… “
” Certo che va bene” – pensai – “Oh, ma sì, mi è faticoso, in certi momenti, sopportare la sua baldanza mattutina; e non reggo quei capelli un tempo corvini e ora di un odioso color castano scuro…”
“Da Dio” – risposi – “Stanchi? Beh, sai: il lavoro, i figli…”
Poi, arrivarono Sofia e il suo racconto.
Sofia era stata, fino ad allora, quella minutina ossutina con la voce nasale e i begli occhi guizzanti su di noi, durante le serate al Centro Culturale.
Poi giunse il momento, per ognuno, di leggere i racconti degli altri sei compagni di scrittura.
Non ricordo cosa stessi provando, quando del suo arrivai alle parole “… Si voltò verso il marito, che si massaggiava la mascella bianca e ispida…” Ricordo che sorrisi tra me, mi somiglia parecchio, quell’uomo, pensai. Tornai indietro, cercando una conferma, eccola “… E le voleva bene da trent’anni…” allora sono proprio io, conclusi sogghignando dentro di me. Poi, vai a sapere il motivo, rilessi le frasi successive “…La foto del matrimonio. Non le aveva mai cambiato posto, chissà perché. Da trent’anni, in quella luce seppia così immobile e irreale, lui le teneva la mano con grazia d’altri tempi e sorrideva raggiante, illuminato da una misteriosa beatitudine che prometteva di sfolgorare immutata in eterno. Immutata, già. Promesse, promesse. Quanto polvere aveva preso nel tempo quella foto…”
Alzai gli occhi dal pc.
Era così, dunque?
Era quello, che gli amici cercavano di dirci?
Che la polvere della scontatezza stava offuscando la nostra storia?
Eppure (riguardai lo schermo) “… Eppure (la foto) era ancora lì”
Diventò, da allora, diverso il mio modo di guardare Sofia, durante il tragitto comune in metrò.
Poche parole, silenzi riempiti dai ricordi…
Il modo, dolcissimo e profondo, con cui aveva fissato, non vista, Rossella che ci raccontava di come invidiava a suo padre, appena scomparso, l’abilità nei lavori manuali… O quando, alla fine di una serata, regalò a ognuno di noi un segno legato in qualche modo alle sue passioni (il mio: un’agenda con riflessioni legate al mare che conservo nella casa in Toscana e ancora, durante le vacanze, sfoglio. E mi commuovo)
O ancora quel sì al mio invito a partecipare a un ritiro, nonostante certi trascorsi, perché “Me lo chiedi tu che sei un amico e degli amici mi fido”
O infine quando, a certe mie parole, rispose: “Devi essere consapevole delle tue priorità”
Consapevole delle; non: decidere quali sono. C’è una differenza abissale.
Innamorato di Sofia? Proprio della persona che attraverso un racconto mi aveva aperto gli occhi?
Incominciai a capire un pomeriggio al mare.
Mia moglie se ne stava poco più in là, a raccogliere conchiglie, sassi e madreperle. Nostra nipote, una macchia fucsia accovacciata sulla sabbia bagnata, l’ombrellino verde adagiato in diagonale al suo fianco, appena mosso dal vento che sapeva di sale…
Alle sue spalle, il mare. Lastra metallica percorsa da righe di spuma, sotto un cielo che era un accavallarsi di grigi chiari e scuri e azzurri e blu.
Nella mente, improvvisa, Sofia. Il desiderio che anche lei vedesse quello spettacolo, che godesse di quella tavolozza.
Non con me, centomila volte no.
Che fosse felice.
Senza essere mia.
Forse, per il nostro vivere, Sofia è stata (ed è!) come quella donnina del racconto, che scuote i rami dell’alloro per salvarlo dal peso della neve, perché nessuno può far tutto da sé…
O forse, in questo nuovo cammino, Sofia non c’entra nulla.
Forse, semplicemente, la mia sposa ha tagliato i capelli e non fa più la tinta.
Sono bianchi, ora.
Bianchi e luminosi come la luna alta nel cielo, che il vento ha pulito dalle nubi.
FINE
Le vicende raccontate sono reali (solo i nomi sono stati cambiati, per evidenti motivi). Le parti in corsivo sono frammenti di un racconto di “Sofia”
Valutazioni Giuria
8 – DUE DONNE – Valutazione: 25 Giud.1: La trama è poco sviluppata e ci si perde per collegare le parti. Giud.2: bella la descrizione di Sofia, interessante la scena del mare e la nota finale. linguaggio semplice e leggibile Giud.3: “…illuminato da una misteriosa beatitudine che prometteva di sfolgorare immutata in eterno” risulta un po’ pesante. Ma il racconto è credibile, sa di vita vera, coinvolge e avvince nel descrivere il cammino di un amore lungo tutta una vita. Giud.4: devo ammettere di aver letto in questo uno dei racconti più “coraggiosi” del concorso, in quanto racconta una delicata intimità. Ravviso un limite nel dire troppo e conseguentemente approfondire poco. Consiglierei all’autore, ripetendomi, di essere più altruista mettendosi nei panni del lettore. |
Era bello tornare a casa dopo tanto tempo, dopo un viaggio che l’aveva cambiata e che le aveva fatto comprendere il vero e profondo senso della vita.
Asia, nel momento in cui scendeva da quell’aereo sapeva benissimo che non era più la donna, la stessa donna, che tre anni fa aveva lasciato la sua amata Milano.
Se quel giorno, trentasei mesi prima, aveva scelto di partire per scappare, per lasciare un passato che la faceva soffrire rendendola incapace di guardare verso il futuro, oggi tornava in Italia ricca di emozioni e di vita.
Una scelta voluta. Una decisione che aveva preso non solo per sé stessa, ma anche per la sua nuova famiglia. Con Naisha.
Nel momento in cui Asia aveva abbandonato la città in lacrime, gocce ricche di dolore e di solitudine, per la perdita dei genitori amati in un incidente stradale, pensava che non sarebbe mai più tornata a Milano.
La sofferenza che provava e che l’avvolgeva era troppa, al punto che dopo il tragico lutto non era stata in grado di reagire. Si era completamente ritrovata avvolta dalle strette morse della depressione che l’avevano allontanata dalla vita privandola della capacità di contrastare quella sensazione, quella condizione.
Non capiva come aveva potuto lasciarsi catturare da quella spirale che la stritolava come un cobra, sino a farla soffocare.
Non era nemmeno in grado di comprendere perché proprio lei che era piena di grinta e di energia pura, vivida, si era trasformata in un “grigio” fantasma non reattivo.
Dopo il tragico evento, dopo tre mesi di non vita, l’unica cosa che Asia era riuscita a fare era stata decidere di partire per quel luogo, quella terra che quando aveva vent’anni aveva tanto amato e in cui aveva imparato la bellezza del donare.
Aveva scelto di tornare in India, quel contesto magico dove, arrivata per un viaggio di piacere era stata capace di cambiarne lo scopo trasformandolo in un’esperienza di volontariato. Avrebbe dovuto trascorrere lì, a Jaipur, tre settimane. Ventuno giorni che però si erano trasformati in ben quattro mesi.
Questo era successo circa dieci anni prima dell’evento che aveva completamente catapultato Asia nella piena depressione.
L’India e Jaipur le sembravano l’unica possibile risposta, la sola via per ritornare a provare anche la minima sensazione di essere viva. Era talmente in difficoltà al punto non riuscire nemmeno a recepire il suo respiro, il senso della sua esistenza. Si paragonava ad un “sasso” in quanto non ricordava nemmeno cosa potesse significare respirare emozioni.
Un aereo per scappare.
Un volo intrapreso non tanto con l’ambizione di ritrovare la sua vita, ma quanto piuttosto con il desiderio di essere e sentirsi [almeno] utile agli altri.
Con questo presupposto Asia era partita.
Dopo i primi cinque mesi di depressione, celata dall’iperattività nel volersi porre come soggetto di aiuto per gli altri, un incontro non programmato le ridiede il sorriso.
Uno colpo di fulmine con una bambina, una piccola orfana abbandonata a sé stessa. Un’anima pura, di soli tre anni, che aveva completamente perso la sua famiglia, vittima di una condizione di povertà tale da avere portato via loro la vita.
Quel viso scarno e sorridente, quegli occhi sognanti che si erano incrociati per caso a quelli di Asia avevano posto il punto a quel periodo nero, oscuro in cui si trovava inglobata.
Naisha, non poteva non chiamarsi così quel piccolo angelo dai capelli color cenere. Una bimba il cui solo nome racchiudeva il compito che si era ritrovata a ricoprire per Asia. Naisha, significa infatti “speciale”.
Da subito la piccola era stata speciale per Asia.
Lei, trentenne, si vedeva e ritrovava in quella bambina innocente, verso cui non riusciva a non provare una sensazione di amore a cui si fondeva la volontà inconscia e apparentemente ingiustificata di proteggerla per ridarle quanto la vita le aveva tolto.
Valutazioni Giuria
9 – Diversa e ricca di vita – Valutazione: 26 Giud.1: Storia emozionante, ben descritta con un linguaggio scorrevole. Giud.2: bello l’incipit che incuriosisce molto il lettore. carine le descrizioni. bella la scena del incontro con la bambina. ho apprezzato molto la rinascita del personaggio principale durante il racconto. Giud.3: “un grigio fantasma non reattivo”, “catapultato Asia nella piena depressione” , “era talmente in difficoltà al punto non riuscire” Diventa impossibile concentrarsi sulla sostanza quando la forma è così ingrata Giud.4: Il racconto ha un’imperfezione di fondo nella sua struttura: meno di un quarto della narrazione è dedicato al fulcro della storia, ovvero l’incontro con la bambina. Il poco spazio dedicatogli è inoltre eccessivamente vago e superficiale per la trattazione di un tema così importante. |
Era bello tornare a casa dopo le gare con Malik. È piccolo ma ha dei piedi velocissimi: negli ultimi tempi, qualche volta, facevo finta di farmi male a una gamba così avevo la scusa per fermarmi e non vederlo vincere. Mi manca Malik. Era bello tornare a casa anche quelle volte che mamma preparava lo zighinì. Mi sembra di sentire ancora in bocca i bocconcini di pollo così piccanti che mi facevano quasi piangere mentre addentavo le enjera. E poi le manciate di fagioli neri! Era bello sentire la pancia piena, qualche volta. Poi però ho compiuto sedici anni. E sedici anni, nella mia terra, vuol dire che vengono a prenderti e ti fanno fare il soldato. Mio papà mi ha detto che ai suoi tempi si faceva un addestramento duro ma, dopo un anno e mezzo, potevi tornare al tuo lavoro. Ma ora non è più così. Oggi ti fanno lavorare nell’esercito fino a cinquant’anni e si tengono pure tre quarti della paga che ti spetta. Quello che ti danno non basta neanche per mangiare. Ti portano al campo di Saha e lì ti addestrano. E non lo devono fare solo i maschi. Mia sorella è tornata incinta dai “campi di addestramento” e ha un segno sul collo che mi fa impressione se lo sfioro col dito. Così mio padre mi ha fatto scappare. Non è stato difficile, c’erano altri ragazzi con me e li conoscevo bene. Le prime sere di marcia eravamo felici, abbiamo anche cantato. Ma già al quarto giorno avevamo fame e quelli che ci guidavano non ci facevano mai fermare. Le poche provviste sono finite il quinto giorno. Ci hanno portato verso l’interno e poi, un giorno, ho sentito che dicevano che stavamo entrando in Sudan. Ci hanno portato in questo campo enorme con tante persone che parlano lingue che non ho mai sentito. Ci danno da mangiare, ma non tutti i giorni. Il tempo passa e non succede niente. C’è gente armata appena fuori dal campo e nessuno può uscire. La cosa peggiore è la sete. Ci sono giorni che cerchi di leccarti il sudore dalla pelle e che senti che potresti ammazzare qualcuno per mezz’ora di ombra. Ma sotto le tende non ci stiamo tutti. Non posso tornare e non so dove andremo. Mio padre mi ha parlato dell’Egitto, di una grande città in cui si mangia e si beve tutti i giorni. Ma non ho idea se abbiano intenzione di portarmi lì. So solo che se torno nel mio paese prima dei 40 anni, mi fanno fare il servizio di leva. Se torno dopo i 50 anni invece mi chiudono in prigione. E da lì non si esce più. Non tornerò più, lo so. Mi mancano i miei. Malik tra tre anni dovrà scappare pure lui. Sto imparando a parlare con gente che viene da Paesi che non ho mai sentito e che mi raccontano di posti lontani come la Francia e la Germania. Dicono che oltre il mare si sta meglio. Io conosco solo il Mar Rosso. Ci sono stato tre volte con mio padre. Ho provato anche il pesce ed era squisito. Il mare è un posto bello. Se un giorno arriverò in quei posti, oltre quel mare che non conosco, troverò il modo di far venire Malik senza costringerlo a passare per questo deserto. Ogni notte arrivano persone nuove e ne spariscono tante altre. L’altro giorno ho visto degli uomini sui cammelli con dei vestiti scuri, li chiamano Rashaida. Gridavano e poi sono arrivati dei camion e hanno caricato tante persone. Le picchiavano con dei bastoni per farle salire. C’era anche una bambina che è caduta e … no, forse ho visto male, era quasi buio. Forse quei camion ci porteranno al mare. Mio padre mi ha detto di fare sempre quello che mi dicono, che se non creo problemi loro mi lasciano stare. Io però sono stanco di stare qua. Non so se ci riesco, i giorni passano, il sole brucia, ho sempre più fame e sete. Forse sarebbe stato meglio il servizio militare. Ma poi ripenso a mia sorella e a Tafir, che era tornato con la schiena spezzata e non poteva camminare più e mi dico che devo resistere. Che oltre quelle dune spazzate dal Khamsin, il vento del deserto, c’è qualcosa anche per me. E per Malik. Che poi mio Padre me lo ha sempre detto che noi dell’Eritrea resistiamo a tutto. Alle guerre, al caldo, alla fatica. Che tutto il mondo ci conosce perché siamo velocissimi. Quindi aspetterò e, quando sarà il momento giusto, fuggirò e i miei piedi inizieranno a correre, a correre così veloce che nessuno mi potrà raggiungere. Sarò più veloce delle tempeste di sabbia, sarò l’anima del Khamsin.
Valutazioni Giuria
10 – Khamsin – Valutazione: 32 Giud.1: Storia commovente. Oltre il confine del Khamsin la libertà. Il linguaggio è semplice ma d’effetto. Giud.2: tema molto coinvolgente. belle le emozioni che lascia al lettore. diretto e chiaro Giud.3: “gente che viene… e che mi raccontano” è sbagliato. La mancanza di suddivisione dei periodi rende faticosa la lettura, ma il racconto è toccante e tragico nella sua scarna e ingenua semplicità Giud.4: Avvincente la narrazione, alla cui base c’è una ricerca non ostentata. |
Era bello tornare a casa dopo aver visto incenerire, giorno dopo giorno, il mio “sogno americano”.
“ Giacomo, lascia perdere queste fantasie e pensa, piuttosto, a costruirti una famiglia. Con le quote della vigna presso la Cantina sociale, potrai vivere senza preoccupazioni. Tutto questo un giorno sarà tuo. Hai la fortuna tra le mani, non mandare tutto in malora” questo predicava mio padre, nel vano tentativo di dissuadermi.
Quando si è giovani, tutto sembra possibile. Nessuno mi avrebbe fermato.
Decisi, perciò, appena ventenne, di chiudere con un passato di mediocrità, di abbandonare il paesello umbro che non offriva prospettive e di attraversare l’oceano per realizzare l’aspirazione di diventare un cantante.
Ben presto, però, l’ardore e l’entusiasmo vennero soppiantati dalla dura realtà e dal senso pratico. Infatti, dopo aver dato fondo alle magre finanze, sottoponendomi a inutili e costosi provini, mi trovai a un bivio: ritornare indietro con la coda tra le gambe o adattarmi alla nuova situazione. Naturalmente trovai un compromesso. Mi mantenni facendo il cameriere in un ristorante “ Little Italy” con l’opportunità di esibirmi per un’ora la sera con uno scontato repertorio italiano, con la speranza di essere notato.
Nell’attesa, erano trascorsi dieci lunghi e faticosi anni ma la mia testardaggine non cedeva.
Una mattina, nel rimettere a posto l’armadio, rinvenni in fondo a un cassetto la chiave arrugginita che mio padre mi aveva dato prima di partire, rassicurandomi:” Ricordati, la porta di casa è sempre aperta”. Quello stesso giorno ricevetti un doloroso telegramma che annunciava la morte dei miei genitori in un terribile incidente domestico. La casa era pressoché saltata in aria per una fuga di gas.
Fui sopraffatto dal dolore, dalla nostalgia e dai ricordi di un’infanzia felice. Le parole di mio padre riecheggiarono a lungo nella mia mente. Maturai una nuova consapevolezza: ero stufo di aspettare un vagheggiato successo che tardava ad arrivare e di “accontentarmi” del niente che quel soggiorno newyorkese mi offriva.
Il telegramma era arrivato in ritardo di qualche giorno, per cui con rabbia constatai che non avrei assistito al loro funerale. Partii comunque, chiedendo tutte le ferie mai godute.
Giunto in Italia, iniziai a riassaporare i profumi e gli aromi della mia terra.
Constatai piacevolmente che non c’era pericolo di essere svegliato dallo sferragliare della metropolitana o da voci di balordi ubriachi che si scannavano per strada. Rimasi colpito dai colori intensi, dall’aria tersa che liberava i miei polmoni intossicati dalla fuliggine cittadina.
Arrivai in paese con il cuore in tumulto. Stringevo forte la chiave ma, quando il taxi si fermò per farmi scendere, notai con immensa tristezza che della mia adorata casa restava in piedi solo mezza facciata con il numero civico.
Con le valigie sul marciapiede e con il morale sotto i piedi mi avvicinai ad essa come ad un’inferma, mi immersi in quella desolazione, camminando tra le macerie e cercando di ricostruire mentalmente l’ubicazione di quella o tal altra stanza.
Nel sollevare un masso, rinvenni la foto ancora intatta dei miei genitori. Sorridevano come se mi dessero il benvenuto. La strinsi al petto e percepii la loro presenza. Sentii scorrere sulle guance il calore delle lacrime fino ad allora represse, ne assaporai il sale con le labbra e presi coscienza che “quel tutto” ora era mio. Era arrivato il mio turno.
Pensai ai sacrifici di tre generazioni per tenerla in buone condizioni, a quanta storia racchiudevano quelle quattro mura crollate.
Nei giorni seguenti, dopo aver trovato una sistemazione provvisoria presso mio cugino Nicola, maturai la ferma decisione di ricostruirla pietra su pietra, cercando di recuperare tutto il possibile.
Nei mesi seguenti la vidi rinascere e solo quando riuscii a far girare quella chiave nella toppa del portone il puzzle della mia vita si ricompose. Ero finalmente tornato a casa.
Valutazioni Giuria
11 – La chiave – Valutazione: 27 Giud.1: La trama è toccante. il racconto scorrevole è ben narrato. Giud.2: molte emozioni ben descritte, bella l’immagine della chiave e del sogno americano. belle le contrapposizioni tra sogno-realtà, partenza-ritorno. molto toccante il momento tra le macerie e il ritrovamento della foto. fianle non scontato. molto coinvolgente e chiaro Giud.3: “con l’opportunità… con uno scontato… con la speranza…”: troppi “con”. Non si poteva avvisarlo dell’incidente via telefono? Il ritorno a casa dell’incipit è il tema portante e la diversa percezione dei luoghi natii così come il desiderio di appropriarsene in età adulta sono convincenti. La chiave nel fondo del cassetto invece lo è meno. Giud.4: Non sempre la narrazione è fluida, la trama un po’ leggera. non ci sono comunque errori gravi. |
Era bello tornare a casa dopo aver tanto viaggiato. Per me “casa” è il mare. No, non fraintendete: non una casa al mare ma proprio il mare. Forse è meglio che mi presenti…piacere, il mio nome è Cia e sono una goccia d’acqua. Lo so, non è un nome molto originale ma, quando ho deciso di darmene uno, non mi è venuto in mente nient’altro che questo. Bisogna anche dire che non lo uso spesso, noi gocce siamo sempre in giro, spinte avanti e indietro dalle correnti, per cui non riesci neanche a presentarti ai tuoi vicini di viaggio. Però non mi lamento di questo modo di vivere: vedo tanti posti interessanti e, anche se sono in giro da molto tempo e li ho rivisti più volte, li osservo sempre come fosse la prima volta. Ci sono certe spiagge su isole in mezzo all’oceano che ti lasciano stupefatto per i loro colori e quando sono in un’onda cerco sempre di accarezzare il più a lungo possibile quella sabbia così fine e lucente. Anche i tramonti possono essere incredibili in quei posti, con il sole che diventa una palla infuocata gialla arancione e rossa, o le notti illuminate dalle stelle scintillanti e dalla luna piena che ricorda una moneta d’oro. Sono ricordi indimenticabili. Mi rammento di quando mi trovavo nel “Mare Nostrum” (adesso si chiama Mar Mediterraneo ma la prima volta che ci sono stata si chiamava in quel modo) era pieno di navi di legno con grandi vele e tantissimi remi che fendevano l’acqua e, noi gocce, venivamo tutte scombussolate. Adesso, invece, come tutti i mari e gli oceani, è solcato da tantissime navi in acciaio, immense, rumorose e inquinanti. Ah… se i pesci potessero parlare…e non solo loro ma anche le balene, le tartarughe, i delfini e tutti gli altri esseri viventi che popolano il mare e che soffrono per la sporcizia con cui riempite il loro ambiente. Quelli che vedo comunque allegri sono i pinguini, sempre pronti a giocare e a divertirsi, nonostante il clima gelido (anche se ho sentito parlare di riscaldamento globale e dello scioglimento dei ghiacci ma non so bene cosa siano) in cui vivono. Ogni tanto mi capita di modificarmi in un cristallo di ghiaccio e passo il tempo dentro un iceberg, praticamente una montagna di ghiaccio viaggiante, a guardare quello che combinano, mi faccio un mucchio di risate. Quella di trasformarmi è una cosa che non capisco bene ma mi affascina ogni volta. So solo che ci sono occasioni in cui inizio ad avere tanto caldo, evaporo salendo velocemente in cielo e mi ritrovo a guardare la Terra da dentro una nuvola. Alte montagne dalle creste innevate, abbaglianti deserti multicolori, spettacolari vulcani che eruttano lava rovente o placidi laghetti immersi nelle sterminate praterie: sono questi alcuni dei paesaggi che posso ammirare dall’alto. Ma non solo la natura ha creato dei capolavori, anche l’uomo ha eretto costruzioni da contemplare: maestosi castelli medievali, imponenti cattedrali rinascimentali o i moderni grattacieli che fanno il solletico alle nuvole per quanto sono alti. Di solito, però, non rimango in cielo tanto a lungo, ritorno ad essere una goccia d’acqua e, con una caduta libera a folle velocità che dura pochi attimi, mi ritrovo di nuovo sulla Terra. Quella che sento casa è quella distesa d’ acqua che chiamate mare ma non mi importa se finisco in un fiume o in un terreno o sulle radici di un albero: qualsiasi luogo in cui possa finire mi regala gioia. La gioia di poter aiutare nel ciclo della vita. Penso che sia il dono più grande che un essere, anche se minuscolo come me, possa fare.
Valutazioni Giuria
12 – Cia – Valutazione: 31 Giud.1: Cia, personaggio simpatico che con il suo ciclo descrive in modo carino i capolavori spettacolari che la natura ci regala e che l’incuria dell’umanità riesce a deturpare. Giud.2: bello l’incipit. molto toccante l’immagine del mediterraneo. chiare e semplici le descrizioni. molto apprezzata la scelta del argomento. magari potrebbe essere letta ai bambini. molto coinvolgente. Giud.3: Qualche ripetizione facilmente evitabile. Il mondo visto da una goccia: sfiora temi cruciali (inquinamento, cambio climatico, specie in via d’estinzione) ricordando come ognuno nel suo piccolo possa contribuire al benessere della terra. Senza velleità poetiche, originale e godibile. Giud.4: Il racconto non regge molto: se la goccia evapora, non sarà mai più la stessa goccia, se si ghiaccia, rimarrà ghiacciata per anni, secoli, se cade in terra poi…. Rimane l’idea graziosa. |
Era bello tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Franco era Presidente di Cooperativa ed aveva un ufficio tutto suo. Quella sera tornò a casa a piedi, come sempre, ma sotto una fitta pioggia battente. Aveva l’ombrello, però la sua giacca tipo piumino era completamente bagnata. Temeva che la pioggia avesse trapassato il tessuto e fosse umida anche la maglia di cachemire grigio. Si tolse gli abiti e indossò una comoda tuta. Si aspettava di percepire la presenza, come di consueto, di sua moglie. Niente. Girò in tutte le stanze dell’appartamento. Niente. Poi gli occhi si posarono sul tavolo rotondo della sala: un biglietto, elegante come era sua moglie Luisa: “ Ti ho voluto tanto bene”. Prima sentì un dolore forte perché abbandonato dalla moglie, poi un dubbio atroce lo colse: il biglietto era scritto in caratteri stampatello. Poteva essere stato scritto da chiunque e quel chiunque poteva aver rapito o fatto del male a Luisa. Forse perché in cuor suo non accettava di essere stato abbandonato perché gli sembrava incredibile, senza fondamento nella realtà, propendeva decisamente per la seconda ipotesi. Ma chi poteva aver fatto del male a Luisa?
Per sciogliere questi enigmi telefonò alla polizia che subito venne. Fu contento di questa celerità e si immaginò una ricerca frenetica di indizi nell’appartamento. I due agenti erano un uomo e una donna. Senza tanti preamboli si sedettero attorno al tavolo e lo invitarono a fare altrettanto. La poliziotta aveva iniziato un fuoco serrato di domande sul loro rapporto e Franco arrossì di colpo quando capì che secondo gli agenti il primo indiziato era lui. In effetti poteva aver ucciso Luisa, nascosto il cadavere e, una volta a casa, scritto il biglietto e chiamato al polizia.
“In questi ultimi tempi c’erano stati motivi di litigio fra lei e sua moglie?” incalzò la poliziotta ”No, quando tornavo a casa mi accoglieva festosamente, la casa era in ordine e dopo i saluti si metteva a preparare accuratamente la cena “ rispose Franco, quasi balbettando, ma continuando a cercare dentro di sé motivi di screzio. ”Sua moglie lavora?” domandò di nuovo la donna. “Mia moglie insegna” Continuarono così ma non apparve nessun motivo di dissapore tra Franco e Luisa . Gli agenti si congedarono, lo invitarono a tenersi a disposizione e dissero che avrebbero indagato nell’ambiente di lavoro della moglie.
Franco rimase solo e per cena si cucinò due uova fritte. Dopo il misero pasto si sedette al tavolo, con la testa fra le mani e cominciò a rivisitare con la mente il rapporto con Luisa. Un contrasto emerse, dopo un lungo pensare: circa quindici giorni prima aveva chiesto un figlio a Luisa che non ne voleva sapere. Il dialogo era avvenuto in mezzo ad altri argomenti e la differente volontà era stata mascherata dalla retorica di certa “buona educazione”, ma un disaccordo poteva essere nato ed aver lasciato tracce profonde. Assorto nei suoi pensieri lasciò passare il tempo, quasi due ore e cominciò a rassegnarsi ad essere stato lasciato da Luisa. Non si pentì della richiesta fatta: avere un figlio era un suo desiderio profondo. Avrebbe semplicemente potuto rimandare la richiesta e il rapporto con Luisa sarebbe stato salvo.
Ad un tratto sentì la chiave girare nella serratura: stette calmo, pensando che se si fosse agitato sarebbe stato peggio e nella porta semiaperta vide Luisa che tornava a casa. Era bello.
Valutazioni Giuria
13 – Era bello – Valutazione: 24 Giud.1: Il linguaggio è chiaro. La decisione affrettata per un’assenza di poche ore è un pò eccessiva. Giud.2: bello l’intro, la pioggia è molto ben descritta. mi è piaciuto l’espediente del biglietto e la riflessione personale del protagonista. molta suspance che coinvolge il lettore. finale non scontato. linguaggio chiaro. Giud.3: Improbabile che la polizia intervenga prima di un tot di ore dalla presunta sparizione. Anche improbabile scordare il disaccordo circa il desiderio di un figlio, anche se affrontato in maniera educata. Non colgo il senso del brano, il finale così aperto non mi consente di leggere nessun messaggio. Giud.4: Banale, anche nel titolo. La trama non regge. |
Era bello tornare a casa dopo tanto girovagare, soprattutto per chi una casa non l’aveva avuta per lungo tempo. Camilla lo sapeva, non vedeva l’ora di varcare la soglia del suo appartamento, mettersi comoda, disfare le valigie e guardare le foto ed i video del suo meraviglioso viaggio, rivedere il viso di ogni persona che aveva incontrato, i fantastici posti che aveva avuto il privilegio di visitare e fantasticare sulla prossima meta.
Si sentiva molto fortunata, anche se la vita non era stata così generosa con lei. Aveva vissuto quasi tutta la sua infanzia in una casa-famiglia, ma un giorno, qualcuno era arrivato per portarla via da lì e lei aveva trovato una casa, una famiglia, aveva recuperato tutto quell’amore che le era mancato.
Crescendo, poi aveva sentito il bisogno di andare a cercare le sue radici e quell’anima nomade l’aveva condotta in posti sconosciuti, tanto da farne un lavoro.
Arrivata all’aeroporto, prese un taxi di corsa, Milano è sempre piena di auto, a qualsiasi ora del giorno e la stanchezza per il viaggio e il jet lag le aumentarono l’emicrania, l’insofferenza per il traffico, unita all’ansia ed al desiderio di poter finalmente riposare, non le permisero di accorgersi immediatamente di una lettera lasciata sul sedile, proprio di fianco a lei.
Per prima cosa, avvisò il tassista: “C’è una lettera qui, l’avrà lasciata qualcuno, magari l’ultima persona che ha accompagnato, potrebbe portarmi da lei?”
L’uomo sembrò non darle retta, neanche le rispose. Camilla, allora, lo incalzò: “Mi scusi, le ho detto che qui c’è una lettera, magari è importante, può ricordarsi dove ha lasciato la persona prima di me?”. Il tassista sbuffò, ma quasi costretto replicò: “Signora, la persona che ha preso questo taxi prima di lei, era un uomo e l’ho accompagnato a Malpensa, proprio dove ho preso lei, non credo voglia ritornare lì, almeno lo spero per lei. Ci toccherebbe fare almeno un’altra ora nel traffico e poi mi sembra che sia arrivata, in ogni caso come farà a trovare quest’uomo, sarebbe come cercare un ago in un pagliaio, mi scusi, ma mi sembra una cosa assurda”
Camilla non sapeva cosa fare, era molto stanca, ma le venne il dubbio che quella lettera avrebbe potuto cambiare il destino di qualcuno e che se era stata lei a trovarla, probabilmente, c’era un motivo.
“Questa cosa non ci voleva” pensò ma d’istinto disse al tassista: “Non importa, mi riporti all’aeroporto”.
L’uomo rimase interdetto ed ancora incredulo e con poca voglia le disse: “Guardi signora che le costerà tanto questa corsa andata e ritorno” e poi aggiunse: “non sa neanche cosa ci sia scritto in quella lettera, magari non è importante come lei crede”.
Camilla, senza riflettere prese in mano la lettera, ma mentre stava per aprirla, notò che in fondo al sedile era nascosto un borsone piccolo con un’etichetta che riportava la scritta: “Sig. Adinolfi Roberto. Via dei Platani n.7 Cell. 3495367982”
“Bingo!” pensò: “la lettera deve essere di questo signore, forse c’era scritto qualcosa che lo ha destabilizzato così tanto da fargli dimenticare anche il borsone, non può che essere così” e, rivolgendosi al tassista, senza aggiungere altro disse: “Malpensa, si sbrighi”.
Il traffico era ancora lento, ma in un’ora, Camilla arrivò finalmente a destinazione.
Pagò la corsa, ringraziò l’uomo, recuperò i suoi pesanti bagagli, prese la lettera ed anche il borsone. Scesa dal taxi, non sapeva cosa fare, provò a chiamare sul cellulare del sig. Adinolfi, era sempre occupato, ma questo voleva dire che non era ancora in volo o almeno, fu quello che lei si augurava.
Era sempre più stanca, un caffè l’avrebbe aiutata, almeno poteva riflettere sulle prossime mosse da fare e magari, poteva anche fermarsi per leggere la lettera, non erano affari suoi, questo lo sapeva, ma ormai era lì e, in fondo, per questo “sig. sconosciuto” aveva rinunciato a tornare a casa.
Ordinò il suo caffè e trovò il coraggio di aprire la busta, iniziò a leggere: “Caro Roberto, è molto difficile per me scriverti questa lettera, so che non è il modo migliore per dirsi addio, ma non ho la forza di guardarti negli occhi e dirti che non ti amo più, mi odierai, lo so, ma forse, così, farà meno male ad entrambi.
Camilla non riusciva a crederci, aveva fatto tanta strada per niente, in quel momento il cellulare squillò, era Roberto.
Valutazioni Giuria
14 – La lettera – Valutazione: 21 Giud.1: La trama del racconto è piacevole e coinvolgente. Il finale arriva troppo in fretta e con esito inaspettato. Giud.2: belle le emozioni e l’immagine della lettera lasciata sul taxi. il finale lascia troppe domande la lettore. voglio sapere come va a finire! Giud.3: Ripetizioni: usare sinonimi. Alcuni periodi non scorrono e richiedono una seconda lettura. “Borsone piccolo” è una contraddizione. Le decisioni della protagonista appaiono più che impulsive, irrazionali e la conclusione è deludente. Giud.4: La trama è lontana dalla realtà e soprattutto, ma non solo per questo, poco avvincente. |
Era bello tornare a casa dopo una giornata di lavoro. Non vedeva l’ora che finisse il turno, specialmente in questi giorni, con questa strana abitudine che aveva preso piede. Una volta c’erano sì il traffico, il nervoso e la puzza di smog, ma guidando riusciva a intercalare i fastidi della vita da tassista alle chiacchierate con i clienti.
Viaggiatori, lavoratori, amanti, artisti. Erano passati in tantissimi sui quei sedili. Non tutti piacevoli. Soprattutto nel turno di notte, ma se non altro le parole scambiate, cordiali o meno che fossero, erano una distrazione.
Ultimamente no. “Buongiornobuonasera” senza mai alzare lo sguardo, senza incrociare il sorriso di cordiale benvenuto nella sua auto. Tutti con il viso illuminato di blu immerso nel cellulare.
Chi guardava il cellulare e sorrideva a ogni notifica che gli squillava tra le mani, chi freneticamente picchiettava sullo schermo, corrucciato e con le mandibole irrigidite. Le due categorie estreme, gli amatori e gli odiatori. In mezzo gli annoiati, che passavano il viaggio a scorrere le notifiche.
Si era convinto che il vetro che divide le due parti dell’auto ricordasse a molti la grata del confessionale. La strada lo aveva abituato a raccogliere pensieri, riflessioni, esperienze di tutte le persone che incontrava e a conservarle nel suo personale archivio di aneddoti da tirare fuori al momento opportuno. Sapeva che ci sarebbe stata prima o poi l’occasione giusta per poter proporre un adeguato “una volta ho conosciuto un tizio che…”. Ma da qualche tempo no, solo silenzio e luce azzurra.
Riconosceva lo sguardo ebete del passeggero innamorato, ma questi non si rivolgeva a lui per fargli sapere quanto era bello l’amore, o quello del lavoratore arrabbiato, che però non cercava più di convincerlo di quanto avesse ragione lui e non il resto del mondo. Arrivato a destinazione niente, un saluto e la portiera che si apre e richiude a far scendere l’ospite e risalire il silenzio. Continuava a essere tutto come era sempre stato, ma senza che nessuno volesse più renderlo partecipe del proprio tempo, di una piccola breve parentesi di vita.
Sceso dalla macchina anche per sgranchirsi le gambe, trovò gli altri tassisti parcheggiati tutti che guardavano il cellulare. I ragazzi per strada camminavano insieme, ma ognuno di loro parlava con qualcun altro chissà dove, isolandosi da chi avevano accanto, per poter permettere a chi stava dall’altro lato dello schermo di isolarsi a sua volta da chi era con loro.
Lui voleva parlare con qualcuno, con chiunque, ma nessuno gli dava retta. Entrò in un bar e trovò una cassa automatica. La voce sintetica a proporgli l’offerta del locale. Le strade ora vuote restituivano al silenzio solo il rumore delle notifiche. Le luci dei lampioni per strada sostituite dagli schermi blu a proiettare smile sull’asfalto. Chiamava ma nessuno rispondeva. Urlava ma nessuno era infastidito.
La rabbia prese il sopravvento e i suoi pugni cominciarono a spaccare vetrine e ammaccare macchine. A quel punto la gente tornò sulle strade. Migliaia di persone con il cellulare in mano a riprendere la sua follia, trasmessa in diretta in tutto il mondo e sul maxischermo che incombeva da un grattacielo incurvato sopra di lui. Il cerchio di persone sempre più stretto intorno, le telecamere sempre più vicine al suo volto che si aprì in un urlo muto che gli fece vomitare una cascata di emoji.
Aprì gli occhi ed era a letto, in camera sua. Era bello tornare a casa dopo un sogno del genere. La macchina lo aspettava coperta di una mattinata nebbiosa che non prometteva niente di buono. In casa silenzio. Per strada il buio.
Si vestì e scese ad accendere il motore e il riscaldamento, così da accogliere il primo cliente che sarebbe arrivato in un ambiente piacevole. Fermo nella macchina, aspettando che la temperatura salisse, tirò fuori il cellulare. Quando la luce colpì il suo volto, preso dallo sconforto, capì quello che aveva sognato. Erano tutti soli. E lo era anche lui.
Valutazioni Giuria
15 – Uno – Valutazione: 25 Giud.1: Piacevole la figura del tassista che analizza gli stati d’animo dei passeggeri. La realtà e il sogno che si accavallano rendono la lettura non ben articolata. Giud.2: belle le descrizioni degli utenti del pullman/taxi. tema non scontato,anzi è molto interessante lo spaccato di oggi. la follia del protagonista è un po esagerata (ma per fortuna è solo un sogno). bello il finale. racconto a tratti coinvolgente. Giud.3: Imprecisioni nell’uso dei tempi e dei pronomi. Una prospettiva particolare per denunciare l’alienazione da abuso del telefono. Ben strutturato. Non eccezionale, ma incisivo Giud.4: Idea originale, trattata in modo un po’ piatto, manca un guizzo che trattenga il lettore: sarebbe potuto essere un episodio, come qualche stratagemma narrativo. |
Era bello tornare a casa dopo la scuola quando la mattina aveva piovuto e sull’asfalto rimanevano pozzanghere in cui saltare a piedi uniti, facendo schizzare l’acqua tutt’intorno. All’uscita da scuola, la mamma mi portava sempre gli stivaletti da pioggia, gialli come il sole che in quelle giornate mancava. Io li infilavo ai piedi e poi mi scatenavo saltando da una pozzanghera all’altra, seminando la mamma che invano provava a inseguirmi.
Anche l’ultima volta, stavo zompettando allegramente di qua e di là, quando, appena svoltato l’angolo, all’improvviso scivolai e caddi in una pozzanghera. Ci caddi proprio dentro, la trapassai e finii da questa parte, dove ora mi trovo.
Non sapevo dov’ero. Guardai sopra di me e, attraverso la cangiante pellicola d’acqua che mi faceva da cielo, la vidi passare. Sembrava preoccupata. La chiamai ma lei non mi sentì e continuò per la sua strada. “Mamma, sono qui!” urlai più forte. Nessuna risposta. Scoppiai a piangere ma le mie lacrime non si mescolarono al terreno già melmoso su cui ero seduta, bensì salirono verso l’alto ad accrescere lo specchio d’acqua della pozzanghera sopra la mia testa.
Mentre alzavo lo sguardo umido, una lucida membrana rossa oscurò la mia vista. Al mio fianco una creaturina tozza e bitorzoluta tendeva sopra la mia testa un ombrello: “Se di pianger non vuoi smetter, almen le catturiam. Le tue lacrime il passaggio stann facend allargar! Tutti quanti qui cadrann e il segreto scoprirann”. Ero talmente stupita che smisi di piangere e fissai lo sguardo sulla creatura. Se non avesse avuto gambe e braccia, la si sarebbe potuta scambiare tranquillamente per un sasso.
Aveva chiuso l’ombrello intrappolando al suo interno l’acqua salata delle mie lacrime. “Che posto è questo?” gli domandai “Come ho fatto a finire qui? E tu chi sei?”. La creatura-sasso sì schiarì la voce bassa e rocciosa e rispose: “Sei cadut nella pozzanghera, è così che sei arrivat! Siam nel mondo oltre le cose, dove tutto è altro da sé. Siam quel che non si ved, il nascosto, quel che manc per esser tutto”. “Parli strano!” osservai sorridendo. “Di mancanze me ne intend, s’è scheggiat la mia pietra e mancand a me un tocchetto, anche i verbi hann pers un pezzo”, mi rispose scoprendo un buco all’altezza della nuca. “Ma ora andiam, vien con me, c’è dell’altro da veder”.
Disse così e si incamminò in mezzo alla fanghiglia. Lo seguii fino a una costruzione di rami secchi, mozziconi di sigaretta, bastoncini del gelato, tenuti assieme da gomme da masticare. La cosa davvero singolare era che il tetto non stava sopra la casa, bensì sotto. “Ah! Casa dolce casa” esclamò la creatura-roccia. “Ma quando piove come fai senza un tetto sulla testa a non…” abbozzai io, lui mi interruppe: “Bagnarm? Tutte le gocce qui salgon, non scendon. Il tetto, sotto non sopra, serv!” ribatté scuotendo il capo ed entrò in casa.
Ero così incuriosita da quello strano mondo che decisi di non seguirlo e me ne andai a zonzo nei dintorni. Arrivai in quella che sembrava una fabbrica dove tanti esserini di forme strane facevano funzionare un marchingegno pieno di tubi in cui circolava dell’acqua.
“Ah! Pers, io ti avev!” esclamò una voce rocciosa alle mi spalle. “Volevo solo guardarmi un po’ in giro, signor… Qual è il tuo nome?” “Nome? A che serv? Non ne ho! Solo uno è noioso, puo inventart come chiamarm”. E dopo questo strampalato suggerimento mi lasciò là per andare, con il suo ombrello rosso saldo nel pugno, verso una grande imboccatura dove rovesciò le lacrime in esso contenute, così come facevano anche altre creature. Le lacrime passavano all’interno dei tubi per teminare il loro tortuoso percorso in una bottiglia. “Raccogliete lacrime?” chiesi al Signor Sasso, avvicinandomi. “Voi un sacco ne versat!”.
Rimasi a contemplare ammirata e divertita quell’andirivieni di strani personaggi e ombrelli colorati, perdendomi nelle spire delle tubature e dimenticando la mia sventura.
Da quel giorno è passato un po’ di tempo, non so quanto perché io non sono cresciuta di un centimetro.
Non mi hanno mai trovata, forse perché gli adulti non sanno dove cercare davvero, come guardare dentro alle cose e scoprirne i segreti. Eppure, se cercassero meglio, si accorgerebbero che è proprio qua, nel mondo oltre le cose, che finiscono tutti i bambini quando scompaiono.
Valutazioni Giuria
16 – Dentro la pozzanghera (e quel che vi trovai) – Valutazione: 31 Giud.1: Racconto particolare per la trama: originale, enigmatico e piacevole. Giud.2: bella la combinazione realtà e fantasia. mi è piaciuto il personaggio creatura-sasso (soprattutto il suo linguaggio in rima). bello il finale. adatto ai bambini per il linguaggio semplice. Giud.3: Una vera favola. Simpatica, curiosa, leggera, ma con un paio di allusioni che potrebbero far riflettere. Originale per contenuto e modalità espressiva. Giud.4: Se lo paragono al soldatino di piombo, cosa non va? Questo manca di coerenza. Ma la fantasia è apprezzabile. |
Era bello tornare a casa dopo che la mia anima aveva stancamente vagato senza trovare luce.
Avevo visto la mia anima lasciare il mio corpo e guardandomi dall’alto avevo provato una grande pace.
Ma com’ero morta?:suicidandomi.
Povera d’amore avevo attaccato una corda al lampadario, avevo dato un calcio alla sedia che mi sorreggeva e dopo un piccolo rumore avevo visto il buio.
~Non sarei mancata a nessuno~ mi ripetevo senza sosta, finché non me ne sono convinta.
Quella stessa sera seduta nel silenzio della mia nuova vita da fantasma avevo visto una donna avvicinarsi a me, in totale silenzio mi siede accanto, non sono convinta che possa vedermi ma si volta e mi guarda.
Restiamo in silenzio fino al suo sussurrare “hai fatto piangere tante persone con il tuo gesto”, rimango basita, “scusa?” chiedo, “sei stata egoista, non sei stata capace di vedere aldilà di te stessa, non ti meritavi l’amore di cui eri circondata” mi dice in modo duro, resto in silenzio senza parole, come se avessi preso uno schiaffo in faccia.
La donna mi prende la mano e mi porta in casa mia, sul letto un mare di bigliettini e disegni coprono l’intera superficie. “Leggili tutti,” mi ordina, mi siedo e prendo il primo:
Elena: -Due grandi occhi nocciola che ti guardano con l’interesse vero di chi realmente vuole sapere come stai, se può esserti utile, ma a volte non dice nulla . Aspetta e osserva.
Una persona che per sua natura vive di pancia ma che sta trovando un equilibrio tra la voglia di continuare a fare il trapezista e il cominciare a fermarsi un po’-; “cosa sono?” Chiedo con le lacrime agli occhi, “il giorno che ti sei uccisa sarebbe stato il tuo compleanno, tutte le persone a te care ti avevano preparato una sorpresa rispondendo alla domanda “chi è Giulia?”, le lacrime mi rigano il viso, “vai avanti” mi ordina, prendo un altro biglietto
Francesca: -Una persona buona, sincera una buona amica; non ti giudica, simpatica e divertente: dura come la roccia ma fragile come un cristallo-
Un altro ancora di Samantha: -la mia polpetta del cuore –
Sharon: -tu sei tutto-
Emily: -la mia seconda mamma, la mia migliore amica-
Martina:-una persona segnata ma dal cuore grande-
Germana: -Grande grande Giulia!!! Una donna con una grande valigia piena di vestiti colorati che rischia a volte di indossarne uno solo sgualcito e con tanti buchi dimenticando di averne tanti e tutti che le stanno alla perfezione basterebbe aprire la valigia-
Consuelo: -personalmente la vedo come un essere puro come l’anima di una bimba.
È una persona speciale perché si emoziona.
É autoironica, allegra, divertente e sa ascoltare con molta attenzione e questa è una qualità rare da trovare, credo che quasi nessuno lo sappia fare mentre lei ..tutto questo la rende molto preziosa-
Sara: Una donna forte, ma anche fragile.
A volte fa fatica a tirare fuori questa forza nascosta tra stanchezza, responsabilità, impegni ed emotività !
Una donna che ha il desiderio di essere accolta per come è, contro tutta questa forza e questa fragilità!-
Mio dio cosa avevo fatto, come avevo potuto non accorgermi di tutto ciò che avevo? Come avevo potuto far soffrire tutte queste persone che mi amavano?. Il buio quando ero in vita regnava nel mio cervello, stavo male, mi sentivo talmente male da avere la vista annebbiata e sentire una solitudine che non esisteva realmente ma di cui ero convinta.
Ero malata, la mia anima lo era.
“Voglio tornare indietro” dico singhiozzando, lei sogghigna scuotendo la testa: “siete tutti uguali voi, non capite cosa avete finché non vi viene tolto, la vita non funziona così, bisogna assaporarla e dare peso alle altre persone, ormai è tardi, la vita è un lusso che arriva una volta soltanto” Come avevo potuto preferire questo?, condannata a vagare per l’eternità non mi sarei mai perdonata per tutto questo.
Ci riprovo quindi, magari il tempo gira al contrario, prendo frettolosamente la corda e me la infilo al collo, salgo sulla sedia, ma prima un ultima domanda:
“Come ti chiami?” chiedo alla donna, “Vita” mi dice tristemente
Vita mi prende le mani, mi tira giù dalla sedia e mi abbraccia in segno di perdono.
Un applauso risuona per tutto il teatro, la gente si alza in piedi e il sipario si chiude dopo il nostro inchino!
Era stato uno spettacolo meraviglioso
Valutazioni Giuria
17 – Era bello tornare a casa – Valutazione: 24 Giud.1: La trama è interessante. Il finale inaspettato e piacevole. Giud.2: tema inusuale, descrizione del suicidio molto accurata. mi è piaciuta l’immagine dei bigliettini con le descrizioni delle altre donne. lascia molte emozioni e spunti di riflessione al lettore. finale molto apprezzato. Giud.3: Non si possono usare consecutivamente”?” e “:” , “non sarei mancata a nessuno” va sostituito con “non mancherò a nessuno”, tempi verbali incoerenti, maiuscole dimenticate, un ultima senza apostrofo. Giud.4: Tema trattato male, sia dal punto di vista del contenuto, sia da quello formale. |
Era bello tornare a casa dopo il lavoro e trovare la mia adorata Pat.
Io e Patricia eravamo sposati da trent’anni e avevamo avuto due figli: Belle e John.
Il nostro amore sembrava uno di quegli amori letti solo nelle favole.
Essendo muratore mi allontanavo da casa tante ore, uscivo la mattina prestissimo e ritornavo la sera.
Mentre Pat era estetista part-time e da qualche anno aveva deciso di occupare il suo restante tempo facendo volontariato per la chiesa.
Nonostante si tenesse la giornata sempre molto impegnata non mancava mai di essere di ritorno a casa qualche minuto prima che io rincasassi in modo da accogliermi con il suo dolce sorriso.
Ma quella sera non fu così.
Quella sera avevamo organizzato una cena con i nostri figli e i loro rispettivi compagni perchè Belle, la nostra figlia, aveva scoperto da poco di essere incinta e quella mattina era andata a fare l’ecografia.
Pat era entusiasta della lieta notizia e non si sarebbe mai persa questo evento, finalmente poteva ammirare il nostro nipotino per la prima volta.
Ma quella maledetta sera non andò così.
Rincasai e mi accolse il silenzio. Mi parve strano non era da lei.
Sapevo che quel giorno non si era presentata in chiesa.
Voleva stare a casa per poter preparare qualche suo manicaretto ed imbandire al meglio la tavola dato che si sarebbe presentati i nostri figli per cena.
Andai in cucina credendo di trovarla. Forse era talmente intenta a preparare cena che non non aveva sentito lo scricchiolio faceva la porta quando la si apriva.
Nemmeno in cucina ci fu traccia di lei.
Trovai appoggiata sul tavolo la sua tazza colma di caffè.
Chiamai subito il suo datore di lavoro che confermò i miei sospetti: non si era presentata al lavoro.
Era tutto strano, sapevo benissimo la vita che conduceva mia moglie.
Ero certo che il nostro era un matrimonio felice così ,preoccupato, mi fiondai dalla polizia per denunciarne la scomparsa.
Rimasi senza sue notizie e con il fiato sospeso per tre lunghi giorni. Finchè la polizia mi chiamò per interrogarmi dato che era giunta una nuova svolta.
Arrivato in caserma mi avvertirono della scomparsa di un collega di Pat, anche egli un volontario della chiesa.
Così mi venne in mente che avevo visto quell’uomo esattamente il giorno prima dalla scomparsa di mia moglie.
Ricordo che era domenica e, siccome non lavoravo, avevo accompagnato Pat ad un appuntamento davanti alla chiesa.
Le era arrivata una chiamata sul telefono da un numero anonimo, dalla voce pareva un uomo e le chiedeva di presentarsi in tal posto perchè doveva regalarle dei cappotti da poter fornire ai senza tetto.
A quell’appuntamento c’eravamo presentati ed avevamo atteso inutilmente perchè l’uomo misterioso non si presentò.
In compenso si presento il suo collega che ci rivelò essere lì per lo stesso identico motivo.
Ovviamente tutti questi dettagli li segnalai alla polizia che si mise subito all’opera.
Iniziarono a cercare prove di ogni genere.
Siccome il cellulare di Pat era rimasto a casa iniziarono a controllare i suoi tabulati e riuscirono a rintracciare il numero di telefono dell’uomo misterioso.
Rimasi sorpreso quando mi dissero che era proprio del collega scomparso: Ted
Continuarono le ricerche e si affidarono alle telecamere sparse nel nostro paesino per poter seguire gli spostamenti di Ted.
Riuscirono a trovare una telecamera che risaliva a quella maledetta domenica e mostrava Ted al Leroy Merlin mentre acquistava del nastro adesivo, una spessa corda e una grossa tavella.
Fortunatamente la polizia analizzando tutte le telecamere locali ne avevano trovata un altra che mostravano l’uomo in piena notte seduto in riva al lago.
I poliziotti giunsero sul luogo e trovarono parte della riva cosparsa di nastro adesivo.
Guardando più attentamente scovarono anche delle impronte sul terriccio bagnato.
Le seguirono e li condusse all’interno di una piccola boscaglia.
Nonostante tutta quella vegetazione intravidero una piccola casetta di legno all’interno del boschetto.
La raggiunsero e trovarono all’interno l’uomo che capì da subito di non poter più scappare.
Dichiarò di aver annegato Pat nel lago perchè ne era follemente innamorato ma sapeva che non poteva averla.
Non ritrovammo mai più la sua salma. Il lago l’aveva inghiottita.
Era bello tornare a casa dopo il lavoro e ritrovarla lì, ma ora è solo un ricordo.
Valutazioni Giuria
18 – Pat. – Valutazione: 19 Giud.1: Linguaggio semplice e chiaro. La narrazione è dettagliata ma la trama è scontata. Giud.2: bello l’inizio del racconto e la suspace. interessanti le descrizioni. finale molto malinconico. linguaggio semplice e chiaro Giud.3: Tempi verbali scorretti, ripetizioni. Errori di ortografia e di grammatica. Indagini non realistiche. “Ammirare” il nipotino… In un’ecografia??? Giud.4: Troppi errori formali, per analizzare la narrazione. |
Era bello tornare a casa dopo…
Già, casa..
Per tutta la vita ho sempre considerato casa mia come un inferno.
Un posto dove ero sempre messo in disparte e zittito, non avevo diritto a dire ciò che pensavo, la mia opinione non contava mai nulla, ecco com’ era casa mia.
L’ultimo degli ultimi.
Per tale motivo ho sempre odiato tornare a casa.
Il cinema, la palestra, il lavoro, lo shopping, ogni singola cosa che mi permettesse di stare lontano casa, io la coglievo senza alcun indugio.
Non mi importava quando avrei speso o quanto massacrante potesse essere, ma avrei dato la vita in cambio di anche solo un minuto lontano da casa.
Ma la triste realtà era che vi tornavo.
L’unica mia salvezza era stare il più isolato possibile in casa, in attesa di una scusa per uscire nuovamente.
Ecco perché casa mia è un inferno ed ho sempre odiato tornarci.
Malgrado la sofferenza provata in quella casa, non sono mai riuscito davvero ad andarmene, perché per quanto fosse terribile, era l’ unica realtà che conoscevo. L’insicurezza in me stesso che avevo sviluppato, a causa della mia famiglia, mi bloccava dall’ andarmene.
Ero diventato un detenuto che dopo una vita in carcere, non era più in grado di vivere fuori dalla prigione stessa.
Persino quando raggiunsi l’età adulta ero ancora incatenato a tutto questo e ormai mi ero rassegnato a questa vita. Le poche speranze e i pochi sogni rimasti erano ora svaniti.
Poi lei entrò nella mia vita.
Una ragazza incredibilmente solare e positiva.
La sua storia era molto simile alla mia, ma lei era riuscita a vincere ciò che la bloccava ed ora era libera.
All’ inizio non capivo la sua mentalità, né dove trovasse la forza di mantenere sempre un pensiero positivo.
Ma, alla fine, ho capito: la forza di reagire è dentro ognuno di noi.
Stando in sua compagnia, riuscivo giorno dopo giorno a dar sempre più credito a ciò che avevo dentro, riscoprendomi un’ altra persona a quella che pensavo.
Andavamo incredibilmente d’accordo l’uno con l’altra, e sentivo che non volevo più allontanarmi da lei, ma stavolta non per evitare di tornare a casa, ma solo per poter trascorrere più tempo con lei.
Mi stavo innamorando di lei.
Ogni scusa per buona per vederci, e non c’era volta che non ci divertissimo insieme. Infine mi ero deciso a parlarle apertamente dei miei sentimenti.
Fu così che scoprii che anche lei provava le stesse cose.
Non avrei potuto essere più felice.
Ormai ci vedevamo ogni giorno e avevamo persino iniziato a fare progetti per il futuro, ossia qualcosa che mai mi sarei immaginato fino a poco tempo prima.
Dal giorno del nostro incontro sono trascorsi quasi due anni, ed ora sono tre mesi che conviviamo.
Ho sempre pensato che le favole non esistessero, ma grazie a lei ora so cosa significa essere felici e viverne una.
Ora “casa” aveva assunto un significato totalmente diverso.
E, quando affrontavo una dura giornata di lavoro o un estenuante allenamento in palestra, era bello tornare a casa dopo.
Valutazioni Giuria
19 – PER ASPERA AD ASTRA – Valutazione: 20 Giud.1: Racconto dal linguaggio chiaro e semplice. Giud.2: questo racconto lascia emozioni diverse dal solito. bello il cambiamento del protagonista dopo l’incontro con la ragazza. molto leggibile e chiaro Giud.3: Tempi verbali incoerenti e qualche altro errore. Incongruenze nella prima parte del racconto (“avrei dato la vita in cambio di anche solo un minuto lontano da casa”: ma se è sempre fuori???) Crescita dell’autostima e riscatto per mezzo dell’amore. Un po’ banale, ma credibile Giud.4: Il racconto manca di coerenza e la forma non è sempre fluida. |
Era bello tornare a casa dopo il lavoro,
quando lontano dalle relazioni imposte,
mi rannicchiavo nel tranquillizzante star con me stesso.
Tra i maggiori diletti della solitudine,
ne coglievo uno sopra ogni altro:
scegliere chi mi facesse compagnia
ed il prescelto di volta in volta,
era tra quanti non si potrebbe desiderare di più opportuno.
Il mio compagno di solitudine infatti,
mi avrebbe concesso per sua natura
di rimanere tal com’io fossi
e lui, sopra ogni cosa,
avrei lasciato plasmasse il mio animo,
non meno di quanto Iddio avesse avuto ragione di crearmi il corpo.
Molti fin da giovinetto
furono coloro dei quali empivo i vuoti
e che nel tempo hanno impreziosito le schiere dei miei maestri,
al punto che son rari i casi in cui non si annoveri tra di essi,
chi ancora venga a trovarmi.
Oggi, seduto vicino al finestrino della corriera,
ho aperto la sacca che tenevo sulle mie ginocchia
e dopo alcuni istanti
– mi riservo sempre d’aver almeno un’alternativa,
per condiscendere all’indole del momento –
mi sono risolto a trarne Pavese.
Pavese oltre a ricordarmi simpaticamente Groucho,
lo sento affine pei comuni studi classici
e mi sono accorto ormai da molto tempo,
di come certi particolari intorno agli scrittori
– in realtà per nulla significanti al fine di una buona composizione –
me ne influenzino altresì la lettura.
Prendiamo la Merini:
“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.”
credo per sincerità,
le sue poesie non mi farebbero tutt’oggi lo stesso effetto,
se con la poetessa non avessi per coincidenza,
a spartire la data di nascita.
Via di seguito,
quando leggo Bulgakov, mi vien l’animo predisposto,
per via d’immaginarlo nei panni suoi di medico, a prescriver medicine,
e come potrei non essere incline a Poe,
che mi figuro rallentare a volte il passo,
come io stesso mi sento costretto,
se colto dalla medesima aritmia?
È ragionando a questa maniera,
che da sempre mi circondo dei miei illustri amici,
cavandoli dagli scaffali per averli ovunque con me
e quando le loro eminentissime persone
non mi occupano le mani né mi intorpidiscono la vista,
non mancano purtuttavia di essere parte reale della mia vita.
Così, alla messa, Marshall
ha posto in sull’altare del mio paese Padre Malachia
e l’intera amministrazione comunale
è perfettamente descritta da Gogol ne “L’ispettore generale”.
Sul medesimo tema, andavo discorrendo con Puskin,
non trovando appropriato il suo sostener che
“preti e buffoni non van d’accordo”,
vedendo io stesso come Sindaco, assessori e prevosti
sian sempre a braccetto!
Quanti ne ho conosciuti di Mazzarò, ricchi e pitocchi,
di matti come Dino Campana,
tapini qual Ivan Denisovič
e di scontente Madeleine Forestiere
che se la intendono con un qualsiasi Bel Ami dal portamento di signorino.
Ma finiamola qui,
per non interdirvi e perché questo è
il mio romanzo,
che a dirla tutta, non ho interesse particolare a spartire.
Un’ultima riflessione mi sento in animo di condividerla,
per come me la suggerisce Dickens,
comodamente disposto qui a fianco la tastiera da cui vi scrivo:
egli sosteneva fosse bene
tener con sé un taccuino delle proprie riflessioni,
di modo da aver sempre qualcosa di interessante da leggere.
Ecco, a dirla tutta, non ho la stessa stima della mia penna,
quanto a giusta guisa egli avesse della propria,
ma con un certo piacere mi son dilettato in questo viaggio narrativo:
“Le marionette”,
“Le viole”,
“Piccola commedia destrutturata”,
“S.P.Q.R.”,
“La notte di S. Lorenzo”,
“La dote di Lyosha”,
“La premiazione”,
“La leggenda di frate Romualdo”,
“Il piccione”.
Nel cassetto depongo finalmente i miei primi scritti,
non possedendone alcun’altro,
poi che nelle intense letture,
l’inevitabile paragone coi maestri fu sempre tanto impietoso,
da non salvare un solo appunto dall’incartocciamento!
O per dirlo con Boileau:
“Tutte le volte ch’io li leggevo” – i maestri – “mi facean pentire delle mie scritture”.
Da dove infine questa mia malinconia
all’ora dei saluti?
Ungaretti nel suo “commiato”
espresse il senso del lavoro!
– Inizio –
Valutazioni Giuria
20 – COMMIATO – Valutazione: 29 Giud.1: Ammirevole per la scelta del genere e del contenuto. Giud.2: Apprezata la forma del racconto e l’uso di termini non comuni. Belle le citazioni a vari autori. Giud.3: La lettura come rifugio, gli scrittori come compagni di vita, termini di paragone e ispiratori. Espresso in modo magistrale. Il finale ci induce a sperare che non sia un commiato definitivo! Giud.4: Buona l’idea, forma originale. |
Era bello tornare a casa dopo una mattina in sella alla moto, a sfidare il caldo in estate e il gelo in inverno. Era il suo lavoro, ormai faceva il postino da dieci anni e cominciava a pensare che non avrebbe mai più smesso. Certo, alcune cose non riusciva a mandarle giù. Le cassette della posta posizionate in modo che, per infilarci le buste, dovevi offrire il tuo avambraccio alle fauci di un alano bavoso, per esempio. O i numeri civici sbagliati. Quelli proprio non li sopportava. Lo faceva proprio imbestialire il fatto che qualcuno scrivesse il civico a caso. Non che lui ne avesse più bisogno…ormai, dopo dieci anni dello stesso giro gli bastava un’occhiata al nome per smistare la posta.
Quel giorno era più allegro del solito al rientro; gli sembrava di aver fatto qualcosa di bello, di grande, forse perché trasgressivo, nel suo pensare da postino, o forse perché ne sentiva il bisogno da un po’. Gli era capitato che, arrivato in fondo a via Leopardi, l’ultima lettera da consegnare fosse indirizzata a Bassi Flavio – Via Leopardi 84. La scrittura era quella di Maria, della sua Maria. O meglio, di Maria che non era più sua. Perché lui non la capiva, perché non funzionava, perché forse il loro rapporto si era un po’ arenato…tante parole dalle quali lui, Michele il postino, aveva capito che nella testa di Maria c’era un altro. E gli era anche chiaro chi. Era lui, Flavio, bello, simpatico, completamente privo di interessi e passioni, insipido…ma bello. E simpatico. Così dicevano, almeno. Sentì la rabbia accumulata in quei due mesi crescergli dentro tutta in una volta, quasi la vedeva velargli gli occhi. Fece pochi passi verso il cestino dei rifiuti, prese la busta tra il pollice e l’indice e con il medio la spinse nel cestino, come faceva quando infilava una cartolina in una cassetta.
E adesso era contento di averlo fatto, consapevole che stava rischiando il posto di lavoro e anche qualcosa in più, ma la scarica di adrenalina che gli aveva dato quel piccolo gesto era valsa tutte le possibili ansie future.
Non fu in grado di trattenere la sua soddisfazione, di lasciare che fosse solo sua. Questo fu il suo problema. Sentì il bisogno di raccontare cosa aveva fatto, e così chiamò Giovanni, il suo migliore amico, e dopo mille raccomandazioni di non raccontare niente neanche a Cristina, lo fece partecipe del suo gesto. Solo che Giovanni, dopo aver promesso che sarebbe stato una tomba, non fu capace di resistere e lo raccontò a Cristina. E un giorno in cui Maria, sentendosi anche lei in vena di condividere le proprie speranze e ansie, si era messa a parlare con Cristina della lettera… quest’ultima era crollata e aveva spifferato tutto.
Il giorno dopo la conversazione tra Cristina e Maria il telefono di Michele aveva squillato.
«Vergognati!» era l’unica parola che si era sentito dire, e poi il rumore del ricevitore che viene riagganciato.
Da quel giorno Flavio aveva deciso di diventare il suo incubo. Telefonate di minaccia, appostamenti, scritte di insulti sul muro fuori casa. A Michele sembrava tutto davvero esagerato. Se anche il suo gesto era stato poco leale e obiettivamente un po’ stupido, questa reazione gli sembrava frutto di una mente insana. E cominciò ad avere davvero paura. Cominciò a temere che ben presto Flavio non si sarebbe limitato a guardarlo in cagnesco dall’auto parcheggiata, ma avrebbe accelerato all’improvviso per investirlo. O che una mattina lo avrebbe trovato, armato, nascosto nell’androne. Cominciò a fare incubi, a non uscire col buio. Stava male. Mentre faceva il giro con la moto gli pareva che da ogni angolo spuntasse l’auto di Flavio che puntava verso di lui.
Una mattina uscì dal portone per andare al lavoro e Flavio era lì. Gli puntava addosso quegli occhi in cui Michele vedeva lo stesso vuoto di vetro che aveva sognato per tre notti consecutive. Non pensò, non aspettò che parlasse e cominciò a colpirlo, con pugni, con calci, con il casco.
Quando la polizia lo venne a prendere gli dissero: «Cosa ti è preso? Potevi ammazzarlo! Spera che si riprenda o passerai dei guai che neanche te li immagini».
Michele rispose: «Lo sapete quante lettere arrivano indirizzate ai numeri dall’80 all’88 di via Leopardi? Lo sapete? I pari in via Leopardi finiscono al 76!»
Valutazioni Giuria
21 – La busta – Valutazione: 25 Giud.1: Bella la trama e scorrevole la lettura. la risposta di Michele alla Polizia non sembra pertinente. Giud.2: Bella la descrizione delle cassette della posta e della lettera. bello il triangolo amoroso. non ho apprezzato l’esagerazione del rapporto tra Michele e Flavio. bello l’incipit ma manca un pò il resto della trama. Giud.3: Scorrevole, avvincente, ben scritto. La persecuzione di Flavio pare immotivata, ma l’idea finale dei civici inesistenti alza il tiro. Giud.4: Il finale riscatta un tema altrimenti banale. |
Era bello tornare a casa dopo tre anni di separazione. Quel posto mi mancava, anche se lontano da lì mi ero sentita viva per la prima volta dopo secoli di esistenza.
Feci un altro passo verso la fitta coltre di nebbia che lambiva la cima del monte Olimpo e la sentii espandersi per trascinarmi con sé, come il tenero abbraccio di una madre.
Mi lasciai inglobare da quel richiamo impalpabile che profumava di dolcezza e sentii il tempo rallentare, fino a fermarsi. Non mi ero mai accorta della quiete che regnava lassù, non prima di essere scesa nel mondo mortale e aver percepito sulla pelle lo scorrere dei minuti, delle ore, degli anni.
Mi guardai intorno, sperando quasi che qualcosa fosse cambiato, mentre ero via. Cercai una crepa nella struttura eterea del palazzo, un’imperfezione nella distesa di nuvole su cui gli dei camminavano dalle origini del mondo, ma la leggerezza di quella dimora pareva scolpita nella pietra.
“Chi non muore si rivede.”
Mi voltai verso quella voce tonante e vidi la figura luminosa di Zeus incedere verso di me nella sua solita tunica dorata. Sorrisi. “È un piacere rivederti, padre.”
“Spero almeno che tu abbia trovato quello che cercavi, Atena.” Si fermò e adocchiò i jeans e la giacca di pelle che indossavo con una smorfia disgustata. “Non smetterò mai di stupirmi di quante cose siano andate storte nell’evoluzione del genere umano.”
Strinsi i pugni e un’ondata di indignazione mi colpì in mezzo al petto. In un attimo, mi ricordai perché me n’ero andata. “E che mi dici della nostra evoluzione, padre?”
Ripensai a Ingrid, la donna che mi aveva accolta in casa sua per gli ultimi tre anni senza sapere chi fossi o da dove venissi, dicendomi che Ie era bastato guardarmi negli occhi per capire che avevo bisogno d’aiuto. Avrei potuto disintegrarla in un battito di ciglia e lei mi aveva offerto il suo divano.
Il potente Zeus, invece, non riusciva neppure a gioire del ritorno a casa di sua figlia.
Mi guardò stranito. “Quale evoluzione?”
“Esatto!” Alzai una mano verso il paesaggio candido che ci circondava. “Esistiamo in questo luogo etereo da migliaia di secoli e non ci siamo neanche presi la briga di contarli: abbiamo lasciato che lo facessero i mortali. Ma loro non si sono limitati a misurare il trascorrere del tempo: hanno studiato il mondo, hanno tentato infinite volte e sbagliato altrettante, hanno costruito e distrutto, amato e odiato… E mentre la loro conoscenza evolveva e la civiltà avanzava, noi siamo rimasti qui, uguali a noi stessi, convinti di poterci ergere a giudici soltanto perché abbiamo il potere di condizionare la loro esistenza. Non è un caso che ci abbiano messi da parte da quasi duemila anni!”
“L’unica cosa che i mortali sanno fare è combattersi a vicenda.”
Sbuffai. “Se fossi sceso laggiù con me, sapresti che non è così.”
Zeus si avvicinò, fermandosi a un palmo di naso da me. “Speravo che vedere le loro nefandezze da vicino ti avrebbe convinta che quello che facciamo è la sola cosa che li salva dall’estinzione. E invece parli come una di loro.”
Perché sono una di loro! Strinsi le labbra e mi trattenni per un pelo dall’urlarglielo in faccia. “Dovremmo aiutarli, guidarli, consigliarli… Non limitarci a scatenare terremoti e inondazioni quando non fanno ciò che crediamo giusto.”
Come avevo fatto a pensare che mio padre avrebbe capito?
Ripensai ai secoli trascorsi a osservare da lontano quegli individui operosi e imprevedibili che popolavano il pianeta che io avevo il compito di proteggere, affascinata dal loro desiderio di progresso e meravigliata da come fossero capaci, allo stesso tempo, di bontà straordinaria e mostruosa cattiveria. Circondata com’ero dalla moderazione, non ne avevo mai capito il motivo. “È la passione…”
Zeus mi guardò come se avessi perso la testa. “Cosa?”
Il ricordo del volto di Ingrid mi accarezzò la mente. “È quello che manca in questo luogo divino: la passione, l’affetto, l’amore.”
Mi voltai verso il passaggio nebuloso da cui ero arrivata.
“Ma che… Dove diavolo stai andando, Atena?”
Sorrisi, lanciando uno sguardo a Zeus da sopra una spalla. “A casa.”
Per la prima volta da quando avevo memoria, ero certa di sapere dove fosse.
Valutazioni Giuria
22 – Una scelta divina – Valutazione: 25 Giud.1: Trama originale e colma di sentimenti descritti “divinamente”. Giud.2: racconto di fantasia con descrizioni del Olimpo molto accurate. belle le sensazioni di ricerca di amore e libertà che lascia al lettore. finale un pò strano. Giud.3: Un punto di vista diverso per riflettere sulla natura umana. Non mi pare corretto però imputare agli dei greci la mancanza di passione… Giud.4: Siamo lontanissimi dagli dei della mitologia e dei poemi: la cosa mi spiazza: non lo ritengo uno scarto rispettoso di quel mondo… |
Era bello tornare a casa dopo cinque ore di lezione e trovare mia madre che, seppur affannata dai libri e dal vento freddo, metteva sul fuoco un piatto di lenticchie o un riso con i funghi. La dad, oltre ai compagni, alle risate, alle uscite nei corridoio, al guardare negli occhi i professori, mi aveva tolto anche questo. Mesi e mesi nell’illusione di una scuola che non è scuola, dove i voti costretti dalla norma, mi avevano elogiato ma anche presa in giro. Era il 27 gennaio quando tornammo in classe per la prima volta dopo mesi di reclusione in quella stanza di venti metri quadrati dove per più di un mese mia madre mi aveva passato il piatto con i guanti e la mascherina stando attenta a disinfettare con alcool ogni luogo o oggetto da me toccato.
27 gennaio ventiventuno le strade erano vuote ma la memoria non si può fermare. Parlare di memoria sembrava impossibile e invece non c’era giorno in cui non eravamo tentati di ricordare.
– Fuori i banchi! – gridavano i ragazzi del mio liceo appena arrivata, barricati davanti all’entrata con i nuovi banchi. Alcune sezioni non vollero tornare in classe e sembrava che da altri istituti stessero prendendo in considerazione l’ipotesi.
– Alessandra che facciamo, torniamo a casa? – mi chiedeva Marta all’entrata.
– Non lo so, credo che oggi non ci facciano entrare. Hanno ragione solo che io non vedo l’ora di tornare a scuola. Ho voglia di andare a casa dopo aver fatto lezione e non esserci ore ed ore in pigiama – rispondevo cercando di capire come poter entrare.
– L’Umbria verde sta per entrare in zona rossa – recitava uno striscione fuori dalla scuola. – A questo punto non occorrerà nemmeno fare sciopero, sarà la zona rossa che ci farà tornare a casa –
– La virtualità dilagante ci sta rintronando, assistiamo senza capire, senza strumenti alla costruzione del nostro futuro!” diceva Marco dal megafono.
Davanti ai nostri occhi stavamo assistendo spossati ad una pandemia senza soluzione, senza più nemmeno la forza per sibilare il nostro disgusto del patetico spettacolo.
– Voglio tornare a casa dopo cinque ore di lezione, e la mia casa mi deve mancare non essere la mia prigione – diceva Luca prendendo il megafono da Marco.
– Finchè siamo una nazione ed esiste la legge non si va avanti per conto proprio. I professori ci metteranno assenti così come fanno le multe a chi apre dopo le 18, a chi non rispetta il coprifuoco, a chi forza il Dpcm, a chi non si presenta nel luogo di lavoro quando ciò è stabilito dalla legge. Non vogliamo essere fuorilegge – recitava l’opposizione degli studenti nelle scale del liceo.
Il clima quella mattina si fece sempre più acceso fino all’arrivo dei lacrimogeni e della polizia che tentava di fermare quelli più tumultuosi e rancorosi.
Nel gruppo era stato arrestato Marco proprio nel momento in cui stava lanciando un lacrimogeno. Pensavo che queste cose potessero esistere solo sui libri di storia. Non riconosco più i miei compagni m sembra di vivere il ’48 e anche il giorno della memoria, oggi, non mi sembra più così distante.
Non voglio tornare nella mia casa devastata a trascorrere l’ennesima mattina chiusa in casa. Il divano è un campo di battaglia, i cuscini sono sempre in terra o volano impazziti accompagnati dalle urla senza ombra di mia madre e mio fratello.
– Basta! Smetti di giocare alla play e di guardare questa televisione pessima – grida mia madre.
– Non posso – risponde mio fratello.
– Perché – chiede mia madre alzando la voce.
– Sto giocando a vaccino contro Covid, è così che ho chiamato di due personaggi, devo finire la guerra –
– Allora va bene – risponde mia madre on un briciolo di soddisfazione estraendo dalla rabbia anche il buon umore di vedere suo figlio comunque attento.
Se torniamo in zona rossa le manifestazioni non servono né tantomeno i litigi davanti il liceo. Era bello tornare a casa dopo le lezioni ma è ancora più bello tornare a casa sani e salvi.
Valutazioni Giuria
23 – Un quarantotto – Valutazione: 21 Giud.1: Tematica attuale narrata con periodi non ben ordinati. Giud.2: racconto di uno spaccato della nostra vita quotidiana. molto ben raccontate le emozioni dei liceali che protestano per tornare a scuola in presenza. non ho molto apprezzato il rimando al ?48. linguaggio chiaro e leggibile. Giud.3: Pur con errori nei tempi e imprecisioni varie, prova a comunicare con una certa immediatezza e intensità la confusione, lo sconcerto, l’impotenza, la rabbia che i nostri ragazzi stanno vivendo. Giud.4: Paragonare i problemi di studenti annoiati davanti alla play, con le battaglie del ’48 ed addirittura col giorno della memoria, lo trovo altamente irrispettoso. |
Era bello tornare a casa dopo le nostre bivaccate, soprattutto se la sera del rientro ti giocavi una partita di campionato.
Tutte le nostre escursioni sono memorabili, però ne ricordo una in particolare, quella alla baita “Le biuse” del venticinque gennaio dello scorso anno.
In mezzo ad un bosco circondata da un manto di neve, non fresco ma resistente, la intravediamo dopo aver percorso un sentiero incerto, difficile era scorgerne il tracciato. Il camino fumante era di buon auspicio. A me personalmente faceva pesare al calore che avrei avvertito varcando la soglia. Non che avessi bisogno di scaldarmi, dopo aver affrontato la salita con lo zaino in spalla non era certo sentirsi al caldo il desiderio più impellente da soddisfare, però mi piaceva l’idea di togliermi la termica ed indossare una misera maglietta di cotone davanti alle fiamme generate dai rami secchi larici. Ad accoglierci un rappresentante degli Scout, che molto gentilmente si era offerto di aprirci lo chalet. Si perché non si poteva certo definire un bivacco quello che avevamo prenotato. Al piano rialzato uno stanzone nel quale era stato posizionato un tavolo massiccio, il camino ed una cucina che nulla aveva da invidiare alle Scavolini. La dispensa sembrava uno scaffale dell’Esselunga. Ma dove eravamo capitati? Al primo piano le stanze, letti a castello in legno di pino rilasciavano quel profumo aromatico tipico delle costruzioni di montagna. Iniziò tutto con uno spritz, poi presero il via le attività culinarie. Clara e Pietro in quel momento erano concentrati al taglio del cappello del prete. Io, il mio Vice, il Gianlu, l’Andre e i due instancabili Rachele e Sam (i bimbi) ci tuffiamo in un interminabile “nomi, cose, città, animali, fiori, ecc. Finalmente arriva l’ora di cena: polenta, intingoli vari, zola, gli spezzatini, salame di cioccolato e fiumi di birra, vino, amaro. Fino a qui tutto nella norma. Ad un tratto però un momento di crisi colpisce la Rache che presa dalla nostalgia della sua play station scoppia a piangere chiedendo di essere portata immediatamente a casa. Panico. L’abile e collaudato papà Gianlu, dopo qualche sacramento riesce a convincerla ad andare a dormire. L’allarme rientra fino a che non si decide di giocare a Tokio. Sul più bello a qualcuno viene in mente di tradurre in suono un suo pensiero: “immaginate se qualche pazzo si presentasse alla porta con in mano un’ascia? …. i cellulari prendono? Chi ci viene a salvare?”. Qualche secondo di silenzio rotto da un: “Che cacchio! Dai usciamo a chiudere le imposte!”. Fu così che gli ometti fecero il giro delle finestre, l’ultimo a rientrare chiuse la porta d’ingresso a chiave. Tornò la serenità, continuammo a giocare, fino a che un’altra esternazione: “ricordate quegli individui di questa mattina al bar di Cavaglio? Perché ci hanno rivolto tante domande? Chi siete? Dove andate? Eccetto lo scout, sono i soli a sapere che siamo qui..”
Scoppiammo in una risata, anche se in realtà il pensiero turbo tutti. Continuammo a giocare.
“toc, toc, toc..”
Il terrore sui volti dei presenti. “Cos’è stato? C’è qualcuno alla porta?!” disse Gianlu.
“Dai, non scherziamo, non è divertente” Risposi alzandomi dalla panca
Beh, per ora Vi dico solo che la partita della domenica sera ce la giocammo, che ci bevemmo l’Irish coffee, la sambuca e la birra al solito Caffè degli artisti, quanto accadde quel sabato notte sarà “materia” del prossimo concorso, questo perché non voglio rinunciare a ringraziarVi tutti per avermi fatto trascorrere ore di lettura a dir poco divertenti, per avermi impegnato qualche sabato e domenica sera, perché in tempi di lock down la pallavolo è e rimane un miraggio.
Dai, magari ci vediamo alla cena!
Valutazioni Giuria
24 – La bivaccata – Valutazione: 23 Giud.1: Narrazione piacevole ben descritta nei particolari con un linguaggio chiaro e scorrevole. Giud.2: racconto divertente con belle descrizioni. non mi è piaciuto il finale. Giud.3: Troppi errori, miscuglio nell’uso dei tempi, maiuscole e minuscole. La simpatia e qualche immagine azzeccata non valgono la sufficienza Giud.4: Bravi, spero ricominciate presto. |
1 – Sehnsucht
2 – Il mietitore
3 – DOV’È ADA?
4 – Dieci incipit e una fetta
5 – La calma dopo la tempesta
6 – ATLAS
7 – IL VIAGGIO
8 – DUE DONNE
9 – Diversa e ricca di vita
10 – Khamsin
11 – La chiave
12 – Cia
13 – Era bello
14 – La lettera
15 – Uno
16 – Dentro la pozzanghera (e quel che vi trovai)
17 – Era bello tornare a casa
18 – Pat.
19 – PER ASPERA AD ASTRA
20 – COMMIATO
21 – La busta
22 – Una scelta divina
23 – Un quarantotto
24 – La bivaccata
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